
Per quel che riguarda in particolare gli ebrei, l’analisi più dettagliata riguarda un paragone delle sequenze di DNA di campioni di individui ebrei italiani con campioni di individui non ebrei italiani, europei ed extra-europei adottando un indicatore che si può misurare solo a livello molecolare, che prende il nome di coefficiente di coascendenza e indica per ogni coppia di individui la probabilità che tale coppia abbia un ascendente comune nel suo albero di ascendenti biologici (genitori, nonni, bisnonni, ecc.) andando a ritroso nel tempo: quanto questo coefficiente è più alto, tanto minore è il salto di generazioni dalla coppia di individui in esame alla probabile coppia di antenati dalla quale entrambi discendono. I risultati di tale analisi paragonano gli individui ebrei italiani con campioni di individui ebrei e non ebrei di altri Paesi, ordinandoli per coefficiente di coascendenza decrescente. Il risultato è che gli ebrei italiani: a) sono biologicamente più affini agli Ebrei che oggi vivono in Medio-Oriente (Grecia, Turchia, Siria) ponendo in evidenza (rafforzata da matrimoni all’interno delle comunità ebraiche) una possibile componente medio-orientale nella composizione della popolazione italiana; b) il campione italiano di individui non ebrei è quello geneticamente più affine al campione italiano di ebrei in posizione analoga ad altri campioni europei di non ebrei, per esempio francesi. Dunque l’affermazione n.9 del Manifesto della razza che “gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani” è smentito dall’evidenza sperimentale anche perché gli “elementi razziali non europei” degli ebrei sono inconfutabilmente condivisi con gli “elementi che hanno dato origine agli Italiani”.
Come vennero accolte da parte della società italiana le leggi razziali?
Se è vero che la comunità scientifica è oggi concorde nel rifiutare la suddivisione della nostra specie in “razze”, basata su falsi argomenti biologici, è altrettanto vero che il razzismo esiste, e che negare il suo fondamento scientifico non è un’arma efficace per combatterlo. Per lo più, le definizioni di “razzismo” si basano sulla diversità biologica (che effettivamente esiste) per giustificare una gerarchia tra gli individui alla quale potrebbe essere addirittura essere attribuita una origine genetica, cioè innata. Da un punto di vista biologico, la verità è che oggi sappiamo troppo poco sulla determinazione genetica del comportamento umano per indicare i meccanismi biologici e culturali che ne influenzano le regole. Da un punto di vista sociale, il razzismo riflette la contraddizione tra il concetto di uguaglianza quale principio universale, proclamato come non discriminatorio dalla maggior parte delle Costituzioni moderne (è il caso dell’art. 3 della nostra Costituzione) e la realtà della diversità: di qui l’aspirazione a veder riconosciuto il diritto di ognuno alla differenza sia biologica sia culturale. L’interesse del libro sta nel suo approccio multidisciplinare: il coinvolgimento delle istituzioni della società civile nell’attuare la legislazione antiebraica nei campi dell’istruzione, della magistratura, dell’avvocatura; le risposte della Chiesa cattolica; le reazioni degli ambienti accademici vengono approfonditi ricorrendo a una documentazione ampia, spesso inedita. Se fosse possibile generalizzare, con un atteggiamento opposto all’intento specifico con cui i singoli autori hanno pensato di contribuire ai capitoli di questo libro, l’accoglimento delle leggi razziali da parte della società italiana potrebbe definirsi acquiescente se non connivente. La scarsa efficacia dei procedimenti di epurazione al termine della guerra civile e l’amnistia del 1946, che permise a molti funzionari fascisti di rimanere nelle varie amministrazioni dello Stato, riflettono tale atteggiamento.
In quale contesto politico e storico-giuridico si inserì la campagna razziale dell’Italia fascista?
Risponderò con le parole di Saverio Gentile:
“…..Per mille ed una ragione, e con molteplici sfumature e intensità, ci fu (molto) consenso nei confronti del regime e della campagna razziale, che pure del Ventennio rappresentarono il volto più odioso. Ciò fu riscontrato a tutti i livelli: dai docenti universitari, che fecero a gara per accaparrarsi le cattedre rese vacanti, agli straccivendoli romani ariani che denunciavano con spietatezza i colleghi ebrei i quali tentavano, in qualche modo, di tirare avanti.
Tutto questo fornisce spiegazione, anche, di come – e perché − l’intera vicenda dell’antisemitismo giuridico italiano – rispetto alla quale, almeno fino al luglio 1943, l’atteggiamento preponderante da parte della popolazione italiana fu quello della passività – abbia finito con lo scorrere ‹‹tra indifferenza e oblio›› (I. Pavan, Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia 1938-1970, Firenze, Le Monnier, 2004) così aggiungendo − se mai possibile − tristezza a tristezza e dolore a dolore.”
(da S. Gentile, Le premesse della campagna razziale nell’Italia fascista: profili politici e storico-giuridici in: Le leggi razziali del 1938, Il Mulino, Bologna pp.39-58)
Quali furono le reazioni degli ambienti accademici italiani?
Risponderò con le parole di Annalisa Capristo:
“……La maggior parte di coloro che risposero al questionario razzista per il censimento degli ebrei appartenenti alle istituzioni accademiche e culturali, compilò diligentemente la scheda personale; molti la corredarono anche di annotazioni antisemite. A loro volta, le accademie e le società scientifiche trasmisero le schede al Ministero dell’Educazione nazionale.
Una di queste, indirizzata al presidente dell’Istituto di Studi Etruschi di Firenze da Antonio Taramelli, fornisce una testimonianza raggelante circa l’adesione di una parte dell’intellettualità italiana all’antisemitismo di Stato promosso dal regime.
Taramelli (1868-1939) fu direttore del Museo archeologico di Cagliari e soprintendente alle antichità e belle arti della Sardegna, docente di archeologia e senatore. Il 4 settembre 1938 scrisse in questi termini al presidente dell’Istituto fiorentino, Antonio Minto:
Restituisco la scheda inviatami, con vero giubilo, come per un fasto nazionale. Passeremo forse ore tristi, ma saranno superate con il solito coraggio di noi italiani, se potremo liberarci per sempre da questa intrusione semitica che stava per soffocarci. L’esemplare che mi venne dalla tua Firenze non era tale da attutire l’odio di razza [corsivi miei]. Jehova lo attuò ma a 14mila chilometri dalla Sardegna.
…..Per concludere, ricordo la vicenda dell’economista Attilio Cabiati, professore di Politica commerciale all’Università di Genova, non iscritto al Partito Nazionale Fascista, uno dei pochissimi studiosi di cui sia documentata l’esplicita presa di posizione contro le leggi antiebraiche e che per questo nel 1939 perse la cattedra.
La sua destituzione fu causata da una lettera che egli indirizzò al ministro delle Finanze Thaon di Revel il 13 febbraio 1939, per ringraziarlo di aver facilitato l’espatrio di un suo assistente ebreo, Sigmund Cohn.
Nella lettera Cabiati, non si limitò a ringraziare il ministro per la sua intercessione nei confronti di Cohn, ma mise apertamente in discussione la giuridicità dei provvedimenti antiebraici: “Eccellenza, Le sono veramente grato della cortesia con la quale Ella si è occupato del mio amico e assistente Dott. Cohn. Ne sono lieto anche come italiano, perché egli ha potuto constatare che, pure rimanendo ossequenti alla legge, in Italia si conserva un senso di equità e di misura che è indice di una antica radicata civiltà. Rimarrebbe il problema, se una legge deve essere obbedita dai cittadini, quando essa è antigiuridica. Ma di questi concetti mi accontento di parlare coi miei intelligentissimi studenti! “. Thaon di Revel trasmise la lettera al ministro dell’Educazione nazionale, e Bottai ottenne l’assenso di Mussolini per la dispensa dal servizio l’8 marzo 1939. Nel 1946, anche grazie all’attivo interessamento di Einaudi, Cabiati venne riammesso nei ruoli universitari, ma non poté riprendere servizio a causa di una grave malattia.”
(da A. Capristo, Le reazioni degli ambienti accademici italiani in: Le leggi razziali del 1938, Il Mulino, Bologna pp.85-118)
Quale coinvolgimento vi fu da parte delle istituzioni della società civile nell’attuare la legislazione antiebraica nel campo della magistratura e dell’avvocatura?
“….Gli atteggiamenti dei giudici nei confronti della persecuzione contro gli ebrei sono tra le pagine più opache della storia della magistratura italiana, sotto il duplice aspetto della connivenza con la politica razziale del regime e della successiva totale rimozione nel corso del periodo repubblicano.
In almeno tre momenti i magistrati, pur essendo raggiunti in prima persona dalla pervasività e capillarità delle interdizioni antisemite, rimasero inerti, “figure silenti”, come sono stati definiti. Tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939, in concomitanza con l’entrata in vigore del regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728 – che costituisce il testo fondamentale per la difesa della razza italiana dalla “contaminazione ebraica” – il ministro della giustizia Arrigo Solmi chiese ai magistrati una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica, al fine di verificare la “purezza razziale dell’intero apparato”.
Sulla base delle risposte, a partire dal mese di gennaio 1939 quattordici magistrati vengono dispensati d’ufficio dal servizio e altri quattro – di cassazione e di corte di appello – chiedono di essere messi a riposo per non subire l’onta della dispensa d’ufficio. Così da un giorno all’altro scompaiono dai loro uffici 18 magistrati distribuiti lungo l’intera scala gerarchica, operanti anche in grandi sedi giudiziarie quali Roma, Milano, Torino, Genova, Trieste, Bologna, e quindi in contesti in cui la loro scomparsa non poteva passare inosservata.
Ebbene, non risulta che alcuno dei circa 4200 magistrati in servizio abbia preso in qualche modo le distanze dall’espulsione, magari rifiutando di rispondere alla richiesta di dichiarare la propria appartenenza razziale, e abbia poi manifestato pubblicamente solidarietà in favore dei colleghi espulsi. Tutto continuò come se nulla fosse successo.
I magistrati rimasero silenti allora e, per quanto possa apparire paradossale, continuarono a rimuovere la memoria delle leggi razziali anche dopo la caduta del fascismo. Molti magistrati hanno pubblicato nel periodo repubblicano memorie che coprono anche gli anni del regime, ma in nessuna si trovano cenni alle leggi razziali……”
(da G. Neppi Modona, La magistratura e le leggi razziali:1938-1943 in: Le leggi razziali del 1938, Il Mulino, Bologna pp.133-158)
Il saggio di G. Savino Pene Vidari (La legislatura antiebraica del 1938-1939, con la sua applicazione in Piemonte nel campo dell’istruzione e dell’avvocatura in: Le leggi razziali del 1938, Il Mulino, Bologna pp.159-183) aggiunge altri particolari sottolineando come sia stata la legge 29 giugno 1939 n. 1054 riguardante le attività disciplinate da albi professionali (e quindi pure l’avvocatura, a colpire gli avvocati e procuratori ebrei, innanzitutto imponendo loro di denunciare all’Ordine degli avvocati la propria appartenenza alla “razza ebraica”: in caso di mancata denuncia personale entro il febbraio 1940, sarebbe toccato all’Ordine provvedere alla cancellazione dall’albo. Obiettivo vero della legge fascista era la cancellazione dei professionisti ebrei dai rispettivi albi, in modo da escluderli dalla loro specifica attività, “ripulendo” quindi l’albo professionale a favore dei soli appartenenti alla “razza italiana”: a Torino nel febbraio 1940 sono stati cancellati dall’albo 40 avvocati.
Come rispose la Chiesa cattolica alla legislazione e alla politica antisemita del regime fascista?
Risponderò con le parole di Francesco Traniello:
“…..All’indomani della pubblicazione del manifesto degli scienziati fascisti riguardante le questioni della razza, cornice ideologica della politica antisemita , il pontefice Pio XI non perse occasione per pronunciare parole di riprovazione nei confronti dello spirito informatore del razzismo e di ciò che definiva «nazionalismo esagerato», come contrari alla «fede di Cristo» e alla dottrina cattolica, per giungere a chiedersi, in un’allocuzione del 28 luglio rivolta agli allievi del collegio di Propaganda Fide e pubblicata sull’ «Osservatore Romano» del 30 luglio, «come mai, disgraziatamente, l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania». …. Ma fu in occasione di un’udienza privata concessa il 6 settembre 1938 a un ristretto numero di dirigenti della radio belga che Pio XI mise più esplicitamente a nudo, dando segni di profonda commozione, il proprio modo di sentire in materia di razzismo antisemita. Il papa definì l’antisemitismo «un mouvement antipathique, un mouvement auquel nous ne pouvons, nous chrétiens, avoir aucune part». Rifacendosi poi ai passi della lettera di San Paolo ai romani riguardanti la discendenza di Cristo da Abramo, realizzata «dans le Christ et par le Christ en nous qui sommes les membres de son Corps mystique», aveva aggiunto: «Non, il n’est pas possible aux chrétiens de participer à l’antisémitisme. Nous reconnaissons à quiconque le droit de se défendre, de prendre les moyens de se protéger contre tout ce qui menace ses intérêts légitimes. Mais l’antisémitisme est inadmissible. Nous sommes spirituellement des semites».
Dopo la morte di Pio XI e l’avvento alla cattedra pontificia del suo segretario di Stato Eugenio Pacelli con il nome di Pio XII, notevolmente diverso dal predecessore per indole, propensioni ed orientamenti, le questioni attinenti alla legislazione antisemita del fascismo e alla sua applicazione passarono per la Santa Sede in seconda linea….. Quanto alla Chiesa in Italia, il suo prevalente modus operandi nei confronti della legislazione antisemita fu a linee interne, nel senso di utilizzare il carattere alquanto farraginoso di un corpo legislativo e di provvedimenti amministrativi, che, senza perdere in alcun modo la loro carica pesantemente persecutoria, presentavano parecchie ambiguità, allo scopo di attenuarne l’impatto: per esempio prestandosi in taluni casi, di cui è però impossibile valutare l’entità, ad una retrodatazione degli atti di battesimo di persone nate da matrimoni misti e classificate di «razza ebraica»; e senza parlare, naturalmente, degli atti di carità o di semplice amicizia compiuti in soccorso di ebrei perseguitati, che non mancarono né tra il clero né tra le associazioni cattoliche né tra privati cittadini.
Vale, tuttavia, la pena di notare che gli stessi organi governativi preposti all’applicazione della leggi razziali, a cominciare dalla Direzione generale della demografia e della razza (denominata comunemente Demorazza), manifestarono assai presto viva insoddisfazione per come procedeva l’attuazione della politica antisemita, tanto da avanzare una proposta di revisione completa del quadro normativo formulata nell’agosto 1940 (quando l’Italia era ormai entrata in guerra), che mostrava di tenere in gran conto le obiezioni e le richieste a suo tempo avanzate da parte ecclesiastica, proprio facendo leva sui matrimoni misti. Osservato che su circa 6800 matrimoni misti certificati dal censimento dell’agosto 1938, la metà avevano figli dichiaratisi cattolici o di altra religione non ebraica, per un totale di circa 9500 persone, la Demorazza proponeva di procedere alla parificazione giuridica alla popolazione «di razza ariana» di tutti gli ebrei che «per matrimonio con ariani, per educazione cristiana della prole, per conversione religiosa e per attività politica consona alle direttive del Regime» davano garanzia – a condizione di cambiare il proprio cognome e di venire «opportunamente vigilati nel campo politico» – di «svolgere senza pericoli la loro attività nelle organizzazioni e nelle istituzioni del Regime» (calcolando un numero approssimativo di 9000 persone); e di fare in modo, con opportuni provvedimenti, che tutti gli altri lasciassero l’Italia nel giro di un quinquennio. Veniva previsto come risultato finale di una simile operazione un rapido e naturale «assorbimento» dei primi da parte dei 45 milioni di «ariani» e una conseguente «soluzione definitiva della questione ebraica» (parole testuali) entro il 1945. Era, come si vede, la proposta di sostituire ad un mal definito criterio razziale un criterio religioso o confessionale, congiunto con un criterio di comportamento politico (che faceva implicito, ma chiaro, riferimento alla considerevole, e forse volutamente sovrastimata, presenza di ebrei nei movimenti anti-fascisti clandestini).
Ovviamente non se ne fece nulla, anche perché la guerra stava modificando in senso ancor più devastante ed a più vasto raggio i termini della questione ebraica in tutta l’Europa, in seguito al rapido dilagare della potenza del Terzo Reich, poi accompagnata dall’estendersi delle occupazioni italiane, riguardanti in taluni casi territori ad alta densità di popolazione ebraica. In linea generale l’intervento in guerra segnò, anche in Italia, un ulteriore peggioramento delle condizioni degli ebrei, soprattutto di quelli stranieri (molti dei quali deportati da aree occupate), ma pure degli ebrei italiani ritenuti a vario titolo «pericolosi»: dilagarono le pratiche dell’internamento e della raccolta in campi di concentramento sparsi su tutto il territorio nazionale. Ma il peggio doveva ancora venire. Un’analisi anche sommaria del ruolo assunto dalla Santa Sede e dalla Chiesa cattolica nei confronti delle persecuzioni degli ebrei e della Shoah durante la guerra richiederebbe una trattazione ben più articolata, trattandosi di una delle questioni più ampiamente discusse dalla storiografia degli ultimi decenni. Ed è facile prevedere che l’annunciata apertura degli Archivi vaticani alla consultazione degli studiosi relativamente agli anni di pontificato di Pio XII (1939-1958) non mancherà di produrre una nuova ondata di ricerche sull’argomento e nuove domande.
(da F. Traniello, Le risposte della Chiesa cattolica alla legislazione e alla politica antisemita del regime fascista in: Le leggi razziali del 1938, Il Mulino, Bologna pp.59-83)
Per evitare gli errori del passato come l’attuazione delle leggi razziali del 1938 quale strada secondo lei si dovrebbe indicare ai giovani?
Ritengo che si dovrebbe coltivare maggiormente la conoscenza, in particolare quella storica, benché non condivida il detto secondo cui “la Storia è maestra di vita”, tanto è vero che gli errori si ripetono. Ma oggi questa paura dell’ ”altro” è più evidente, perché con la globalizzazione l’ “altro” è veramente vicino, e riesce difficile reputare le migrazioni come un fenomeno positivo. Le migrazioni sono sempre avvenute, ma nel passato si verificavano in tempi lunghi che permettevano allo straniero e al residente di conoscersi e accettarsi reciprocamente, oggi la straordinaria velocità degli spostamenti lo impedisce. Inoltre le comunicazioni sono deformate: se si confrontassero i numeri (e tali confronti dovrebbero sempre essere fatti) si constaterebbe che le dimensioni degli odierni fenomeni migratori sono di gran lunga inferiori a quelli avvenuti nella storia umana passata. Se le reazioni che essi suscitano sono in gran parte negative, ciò è dovuto anche alla velocità con cui vengono comunicati, cioè alla globalizzazione odierna della comunicazione.
Alberto Piazza è professore emerito dell’Università di Torino, dove ha insegnato Genetica umana. Fondatore e past president dello HuGeF-Torino (Human Genetics Foundation), è stato presidente dell’Accademia delle Scienze di Torino