
Dopo la fede cieca che nel Medioevo è stata riservata alla conoscenza che dell’antichità romana potevano offrire i contributi (massime letterari) sull’argomento in considerazione e l’entusiasmo per i ritrovamenti di epoca rinascimentale, nel XIX sec. hanno iniziato ad essere avanzati forti dubbi sull’attendibilità di quanto veniva prospettato dalla tradizione storica sui primordi di Roma e l’età regia. In questo senso, innanzitutto ed in particolare, possiamo prendere a riferimento, seppur riportandone un unico aspetto, quello che più è pertinente al nostro discorso, il pensiero del Niebuhr. Celebre è, infatti, l’ipotesi formulata agl’inizi dell’Ottocento dall’insigne studioso in merito all’esistenza di una epopea romana che avrebbe, per così dire, contaminato la successiva tradizione letteraria conferendole un carattere fantastico.
Quanto ai dubbi poco sopra accennati (lo anticipiamo già), essi hanno continuato a caratterizzare il panorama dottrinario poco oltre la metà del secolo scorso, quando si è iniziata a registrare una forte inversione di tendenza che ha portato a rivedere completamente il giudizio della maggioranza degli studiosi. Prima che ciò accadesse, tuttavia, partendo dall’incontestabile presupposto che per indagare e ricostruire la realtà di un dato periodo storico è fondamentale il reperimento e l’analisi delle fonti di cognizione ad esso relative, la critica moderna ha unanimemente rilevato come, per il periodo arcaico di Roma, non si potesse disporre (salvo rarissime eccezioni costituite da frammenti di carmen saliare o resti di monumenti cronologicamente collocati al limitare del VI e V sec., su uno dei quali tornerò in seguito) di alcuna fonte coeva e, pertanto, di nessuna notizia davvero attendibile. La fase primigenia di Roma veniva, quindi, relegata nella sfera dell’inconoscibile o (come abbiamo visto con il Niebuhr) a quella delle favole.
Quanto detto, se ha riguardato in primis la ricostruzione del periodo monarchico storicamente inteso con i suoi eventi ed i suoi personaggi, ha ancor più coinvolto gli aspetti più particolareggiati di una fase così antica. Il riferimento è, nello specifico e per quel che a noi interessa, alla possibilità di prospettare, per l’età remota della civitas, una vera e propria attività legislativa riferibile ai re della tradizione, questione, questa, sulla quale l’assenza di una base documentale coeva peserebbe maggiormente. Mentre, infatti, gran parte della dottrina ha riconosciuto che i primi annalisti, per la ricostruzione della storia di Roma, avevano almeno potuto avvalersi della tradizione orale suscettibile di sanare l’assenza di testimonianze scritte (anche in questo caso ricordiamo il Niebuhr il quale, tracciando un’analogia con i canti popolari germanici del ciclo dei Nibelunghi, ha sostenuto che anche per la storia di Roma la trasmissione di fatti ed eventi storici più remoti sarebbe avvenuta per il tramite degli antichi canti popolari, i carmina), lo stesso non potrebbe sostenersi per i caratteri e la portata della funzione legislativa regia. I resoconti degli antichi autori (storici, grammatici, antiquari, letterati) pervenuti fino a noi, tuttavia, avrebbero di fatto prospettato uno scenario nel quale, già per la fase arcaica, tanto l’introduzione di strutture organizzative lato sensu costituzionali, quanto di quelle che posteriormente saranno qualificabili come di ius privatum, sarebbe avvenuta attraverso l’emanazione di vere e proprie leggi. Il primo dilemma che si è, dunque, posto agli studiosi che si sono confrontati con questo affascinante tema, è stato quello di tentare di capire cosa gli antichi contributi intendessero con l’espressione leges regiae, se fosse, cioè, davvero rintracciabile un significato di lex peculiare ad un periodo storico così risalente come quello regio e ciò al fine di poter, quanto meno considerare, la plausibilità dell’effettiva esistenza di leggi dei re.
La ricerca di una soluzione a tale problema ha preso, quindi, le mosse (e non poteva essere altrimenti) da una valutazione del significato del termine lex. Ora, anticamente, tale vocabolo latino identificava genericamente una condizione obbligante o una norma relativa a persone o cose, sia nel campo del diritto pubblico o privato, quanto in quello religioso. Ciò sarebbe tanto vero che quando le leges publicae si sono imposte nel linguaggio come “leggi per eccellenza”, andando così il termine in esame ad acquistare il significato di “legge comiziale popolare”, agli altri tipi di leges publicae venne attribuito, per distinguerle da quelle ove il contesto non fornisse già di per sé una specificazione, un diverso nome evocante la forma della loro emanazione (edictum, decretum, leges regiae). Proprio la suddetta arcaica genericità del termine in discussione (che contrasta nettamente con la nostra logica giuridica) ha portato, inizialmente, gran parte della dottrina moderna ad espungere dal novero delle leggi propriamente dette in primis quelle di carattere squisitamente religioso. La presunzione che le leges regiae fossero sic et sempliciter precetti sacri è stato tra i primi e più risalenti argomenti ai quali, per molto tempo, gli studiosi si sono maggiormente avvalsi al fine di contestare ad esse la dignità di legge. In questo contesto, quindi, è stato sostenuto che le leges regiae sarebbero state emanate dal collegio dei pontefici e che l’appellativo di regiae sarebbe stato riconducibile al fatto che il rex risiedeva a capo di tale collegio di cui aveva anche la rappresentanza o, ancora, che le nostre leggi non fossero in realtà vere disposizioni normative in quanto il re, capo politico e religioso della comunità, sarebbe stato titolare di un ius edicendi che lo avrebbe portato ad emanare verosimilmente solo semplici ordinanze.
La presunta natura di precetti sacri non è stato, tuttavia, l’unico argomento al quale la dottrina è ricorsa per contestare la tradizione che prospetta, già in epoca arcaica, la presenza di vere leggi. La critica negazionista in merito al carattere propriamente giuridico delle statuizioni dei re ha, infatti, puntato l’accento anche sulla loro (presunta) natura meramente consuetudinaria. Non potendo, infatti, avvalersi di testi coevi, le fonti degli antichi autori cimentatosi sulla storia e gli aspetti della Roma più arcaica sarebbero state costituite essenzialmente da fatti tramandatisi oralmente di generazione in generazione e che, presumibilmente, pervennero loro valorizzati per venire poi adattati alle esigenze delle diverse epoche in cui se ne scrisse. In questo contesto, per le leges regiae non si sarebbe aperto che un unico avvilente scenario: quello di essere null’altro che anticipazioni di leggi repubblicane, mischiate a massime meramente consuetudinarie (anziché legislative in senso stretto), prive in assoluto di una qualche garanzia di veridicità storica.
Carattere meramente religioso o consuetudinario delle leggi regie a parte, a scatenare ulteriormente la diffidenza della critica in merito alla possibilità di poter collocare così indietro nel tempo l’esistenza di vere disposizioni normative, sta di certo un dato comune a diversi contributi superstiti sull’argomento: e cioè il fatto che le leges regiae sono in questi descritti (il più delle volte) come provvedimenti fatti votare dal re nelle assemblee popolari allora esistenti (e cioè, i comitia curiata se non, a partire da Servio, quelli centuriata), facendo in tal modo risalire ai primordi dell’età regia una procedura che, appare invero certo, avrebbe avuto come dies a quo la seconda metà del V sec. a. C. Prima di tale termine, dunque, alcuna attività legislativa sarebbe stata rintracciabile per le curiae.
Come abbiamo detto, quella che viene considerata l’anticipazione più eclatante sul tema è presente in diverse fonti letterarie che si occupano dell’argomento in esame: tuttavia la circostanza che essa costituisca anche la versione fornita da un esperto di diritto ha, di certo, contribuito a minare ulteriormente (se non, per alcuni autori, definitivamente) la credibilità delle leges regiae. Il riferimento è al famoso passo dell’Enchiridion di Sesto Pomponio (D. 1. 2. 2), riportato nel Digesto di Giustiniano. Evidentemente destinata per gli interessi peculiari all’autore, nonché per il suo inserimento nella compilazione giustinianea ad essere rivestita di autenticità, l’opera pomponiana ha, invece, destato notevoli perplessità andando a costituire l’argomentazione principe sulla quale l’ipercriticismo della prima metà del secolo scorso ha fatto leva per respingere l’attendibilità delle leggi regie in quanto tali. Nell’exordium della sua opera, il giurista traccia chiaramente una distinzione tra una fase che potremmo definire pregiuridica in cui i re agivano manu e quella che si è aperta con il regnum di Romolo: Romulus traditur populum in triginta partes divisisse…et ita leges quasdam et ipse curiatas ad populum tulit.
All’inizio della civitas, afferma Pomponio, non c’è legge certa, né diritto certo: poi Romolo ha diviso il popolo in curie e proposto ad esso alcune leggi curiate.
Per un lungo tempo, la dottrina ha oscillato tra il considerare molti punti dell’opera pomponiana come il frutto di glosse preegiustinianee, alterazioni apportate dagli stessi compilatori del Digesto o nel ritenere semplicemente falsa la notizia pomponiana di un diritto che nasce con leggi proposte dal re al popolo. Pomponio avrebbe, così, sacrificato la verità in nome delle sue idee notoriamente legate all’apologia del potere popolare ed alla funzione politica del diritto. In questa prospettiva, l’unico valore concedibile al passo tratto dall’ Enchiridion sarebbe stato quello del “messaggio” che, tramite esso, il suo autore voleva diffondere: ovvero, che il diritto nasce con la legge, la quale segna il passaggio da uno stato di incertezza ad uno stato di certezza.
Demolita l’attendibilità della prospettiva pomponiana sul nostro tema e, dunque, (ancor più) salda nella convinzione di aver (ampiamente) dimostrato che la verità di una notizia non è necessariamente legata alla sua registrazione (ciò tanto più se, come nel nostro caso, essa è posteriore alla verificazione stessa del fatto), la dottrina ha interpretato le coincidenze riscontrabili nei testi dei diversi autori che hanno fornito e tramandato notizie, indicazioni, testimonianze di leggi regie, come una semplice conferma della rielaborazione, da parte loro, dello stesso (mendace) materiale sul periodo arcaico, un materiale che, non poggiando ab origine su di una base documentale, sarebbe rimasto per loro inconoscibile. Dimostratosi ciò valido per un’opera (come quella pomponiana) che per il suo carattere giuridico dovrebbe essere ex se garanzia di veridicità, quanto detto sarebbe valso ancor di più per i numerosi contributi letterari e storiografici serbanti memoria delle leges regiae, argomento del quale essi trattano (sebbene ex post) con dovizia di particolari. È soprattutto, dunque, nei confronti di queste opere che la critica ha rivolto maggiormente la sua sfiducia, intravedendo negli apporti letterari un tratto più poetico che storico, mentre in quelli storiografici un originario carattere pedagogico ed un profondo legame con il contesto sociale e politico (della repubblica prima e dell’impero poi), che li avrebbe portati non solo ad esporre fatti più o meno verosimili, ma anche ad interpretarli in chiave ideologica prospettando così, anzichè una verità storica obbiettiva, una verità condizionata dal quadro socio-politico e, quindi, dalla stessa formazione etico-sociale dello storico scrivente.
Ancor prima che la dottrina moderna tutta iniziasse ad intraprendere il percorso che dal negare esistenza, consistenza e dignità alle leges regiae l’avrebbe poi portata (in base ad inattaccabili risultati raggiunti di recente, grazie allo sforzo sinergico di varie discipline), alcuni romanisti hanno variamente iniziato a manifestare un atteggiamento possibilista nei confronti di quanto attestato dalla tradizione in merito alle leggi regie. Va particolarmente sottolineato infatti come, seppur ancora nell’àmbito di un criticismo postniebuhriano dominante, taluni studiosi avevano già concesso un relativo credito alla possibilità di proiettare, in epoca arcaica, l’esistenza di leggi emanate dal rex, ritenendo logico che, proprio tramite una lex, il re orientasse la convivenza tra i cives ed espletasse la sua funzione di sacerdote alla quale, peraltro, sarebbe stato da addebitare il carattere necessariamente religioso delle sue statuizioni. Secondo altri, proprio il ruolo che il re avrebbe rivestito come sommo sacerdote della comunità, avrebbe impedito di distinguere tra una norma religiosa e una propriamente giuridica: le leggi regie, dunque, sarebbero state ordini, statuizioni vincolanti date dal sovrano in forza del suo potere religioso e militare o, ancora, limitazioni unilaterali imposte dal re al fine di porre divieti e stabilire sanzioni di tipo giuridico-religioso. Infine, alcuni autori, hanno ritenuto le leggi regie connesse inscindibilmente all’atto di formazione della città, conformemente alle contingenti necessità di quella determinata (ed arcaica) comunità. Il primo vero punto di svolta si raggiunge con il Gabba nel 1960 il quale si professa, innanzitutto, certo della veridicità delle disposizioni regie che egli considera norme volte a regolare la convivenza dei cives. Lo studioso, inoltre, ritiene anche di poter addirittura individuare cronologicamente le più risalenti e sicure testimonianze di esse: quella di Cassio Emina in Plin. nat. hist. 32. 2. 20; la norma sull’intercalazione attribuita a Romolo da Licinio Macro in Macr. sat. 1. 13. 20; alcuni passi di Cicerone nella pro Rabirio perduellionis reo, nel de republica, nel de legibus e in Festo, s.v. Opima L. 204 ove sarebbe rintracciabile una citazione testuale di lex regia. È però con il Tondo nel 1971 che si giunge alla elaborazione di quella teoria nella quale la dottrina ha unanimamente intravisto una sorta di spartiacque tra quella che per secoli è stata la concezione delle leggi regie e quella che egli ha inaugurata. L’impostazione del romanista prende le mosse proprio dall’innegabile presupposto che la tradizione ha serbato memoria di normazioni riferibili ad alcuni dei re di Roma, tanto in forma di riferimento indiretto che di citazioni testuali. Comunque riportate dagli antichi autori, sostiene lo studioso, queste informazioni sarebbero degne di considerazione e suscettibili di profilare la realtà della situazione normativa del periodo regio. Quanto ai riferimenti sub specie di parafrasi, secondo il Tondo il carattere di vere leggi, nonché la prova della loro reale vetustà sarebbe indiscutibilmente attestata dalla presenza del nesso condizionale si quis per le fonti latine e ει̉ δὲ τις per quelle greche. Questa circostanza, per l’autore, peraltro, lascerebbe intendere anche altro: innanzitutto, che quei discorsi indiretti sulle leges regiae riportati nelle fonti ben potrebbero essere stati configurati sulla formula legale originaria, ma anche che essi sarebbero spia di un comune modello stilistico. Per il romanista, dunque, la rintracciabilità nelle fonti di leges regiae menzionate nell’àmbito di un discorso indiretto, nulla toglierebbe alla loro esistenza e veridicità.
Ciò detto, anche il Tondo ha soprattutto rilevato ed estrapolato dalle fonti quelle disposizioni normative dei re che, anziché sub specie di parafrasi, sarebbero state riportate dagli antichi autori in forma di citazione testuale, indicandone alcune: Festo, s.v. Occisum (L. 190); Festo, s.v. Pelices (L. 248) e Festo, s.v. Parrici<di> quaestores (L. 247).
Lo studioso non ha dubbi sulla arcaicità delle sopra citate formulazioni, essa sarebbe infatti dimostrata da due tratti: la loro tendenza, in primis, a descrivere per immagini il proprio contenuto ed inoltre l’uso di tali immagini nel loro valore paradigmatico. Stando alla teoria del Tondo, quindi ed infine, non solo le leges regiae sarebbero davvero esistite, ma alcune di esse sarebbero state anche scritte attestando, quindi, il ricorso alla tecnica scrittoria fin dall’età regia più risalente (in contrasto, pertanto, con l’idea tutta postniebuhriana secondo la quale, invece, a Roma l’uso della scrittura non si sarebbe affermato prima del 350 a. C.).
A confortare dette rilevanti conclusioni sono soccorse importanti scoperte di scritti latini attribuibili al VI secolo se non addirittura al VII. Inoltre, sia l’impiego di strumenti avanzati (che ha favorito il reperimento di nuovi documenti soprattutto di natura archeologica), sia gli accurati studi paleografici e le approfondite analisi semantiche hanno condotto la critica, pressoché unanimemente ed in toto, ad accogliere l’impostazione del Tondo intorno sia alla esistenza ed autenticità delle leggi regie, nonché alla retrodatazione della scrittura a scopi normativi a partire da Numa Pompilio.
In particolare, in questo contesto, merita di essere menzionato il complesso monumentale del Lapis niger che, scoperto nel 1899 da Giacomo Boni, ha prospettato un’immagine della Roma arcaica del tutto inaspettata. Dopo decenni di discussioni intorno alla originaria vetustà della stipe, la dottrina si è oramai unificata sotto il segno del suo grandissimo valore sia sotto il profilo linguistico, quanto sotto quello della storia del diritto e delle istituzioni di Roma, costituendo l’elemento decisivo a sostegno della teoria avanzata dal Tondo. Osserviamo il perché. Del complesso del Lapis niger fa parte il c.d. Cippo del Foro che reca una iscrizione con andamento bustrofedico la quale, sebbene graficamente manchevole, appare in lingua indiscutibilmente latina. La prima frase è stata così ricostruita: quoi hon (ke stloqom violasid manibus) sakros esed. Essa, si è sostenuto, comminerebbe la sacertas a chiunque osasse violare il luogo sacro. Tale sacertà, nella ipotizzata ricostruzione dell’iscrizione, sarebbe stata disposta dal re. Il termine rex, infatti, sembrerebbe (si è sostenuto) comparire nel testo epigrafico per ben due volte (al dativo recei e, forse, al nominativo re), attestando indiscutibilmente la natura di legge (precisamente di legge sacra) per l’iscrizione in esame. Ad ulteriore riprova di quanto appena concluso, è stato sottolineato dall’Albanese, come nelle fonti storiografiche e letterarie la sanzione in parola venisse riportata esplicitamente proprio agli illeciti più antichi, ovvero quelli contemplati dalle leggi regie (Plur. Rom. 22. 3; DH 2. 10. 3 e DH 2. 74. 3 e Festo s.v. Plorare L. 260).
Ma non è ancora tutto. L’apodosi normativa sacer esto, infatti, è presente anche nei versetti decemvirali: il riferimento è, in particolare, a Tab. VIII. 21, precetto che, peraltro, richiama proprio la lex regia riportata in DH 2. 10. 3.
Tutti questi elementi (l’esistenza di una iscrizione monumentale la cui datazione è per lo più attestata intorno al 570 a. C. ove è menzionato, con funzione precettiva, un re e che riferisce anche della sanzione tipicamente romana della sacertas), hanno fatto oramai propendere la dottrina nel senso della risalenza del documento al periodo regio, respingendo una volta per tutte l’impostazione (per lungo tempo accolta) secondo la quale il re menzionato dal Cippo del Foro sarebbe stato identificabile con il rex sacrificulus di età repubblicana.
Per concludere. Stando a tutto quanto sopra, dunque, il Cippo del Foro sembrerebbe confermare la sussistenza in capo al rex di una competenza normativa esplicantesi nel porre regole comportamentali e connesse sanzioni, assurgendo così a “prova” principe della fondatezza della teoria del Tondo (anche per l’ipotesi da questi avanzata relativamente all’uso della scrittura a Roma già nel periodo regio) che appare, in tal modo, difficilmente confutabile. A tutt’oggi, quindi, essa è e resta (insieme alle pionieristiche intuizioni del Gabba che l’hanno preceduta) una pietra miliare nello studio del tema relativo all’esistenza e l’autenticità delle leges dei re della tradizione. Il punto fermo da cui partire o, meglio, ripartire, per ogni eventuale ulteriore approfondimento dell’argomento. Possiamo, dunque, affermare con una certa sicurezza che la querelle sul fatto che le leges regiae siano state davvero emanate abbia avuto termine con una risposta positiva, come testimoniano anche i contributi dei numerosi autori che, nella fase che potremmo definire “nuova” inaugurata dalle riflessioni del Tondo, si sono interessati all’argomento delle leggi dei re. Quanto, invece, alla conclusione, anch’essa piuttosto pacifica in dottrina, stando alla quale norme scritte sarebbero da ricondurre al regnum di Numa Pompilio, non posso esimermi dall’evidenziare come, secondo Dionigi d’Alicarnasso (DH 2. 24. 1), invece, già al tempo di Romolo sarebbero esistite leggi redatte per iscritto sebbene lo storico cario non specifichi quali.
Davvero in chiusura non ci si può esentare (considerato il tema dell’intervista) dal sottolineare come entrambe le ipotesi formulate dai due insigni studiosi hanno avuto (come vedremo ancora meglio a breve) il merito di aver concesso, innanzitutto, credito a quanto contenuto nelle c.d. fonti letterarie sul tema (la precisazione è frutto di un’ulteriore querelle dottrinaria, oramai superata, che esula però dagli intendimenti di questa intervista). Esse rappresentano, infatti, per il nostro argomento, una miniera inesauribile di informazioni: alcune più attendibili, altre probabilmente meno, ma di certo degne di essere tenute in debita considerazione.
Qual’ è l’affidabilità delle fonti dionisiane?
Anche la questione della credibilità di Dionigi d’Alicarnasso come fonte per la ricostruzione della fase regia di Roma e delle sue leggi è stata oggetto di discussione nell’ambiente dottrinario. Ciò è più che logico considerato quanto abbiamo riferito poco sopra in merito al fatto che, ancora all’inizio del secolo scorso, le notizie relative a questa epoca storica erano ritenute inaffidabili come colui che ne scriveva. La diffidenza degli studiosi, per quel che riguarda Dionigi, si fondava particolarmente su due elementi. Il primo pertiene al fatto che il nostro autore fosse uno storiografo. Come ho accennato nel rispondere al quesito postomi precedentemente, infatti, la dottrina ha particolarmente attaccato, insieme ai contributi letterari in tema di Roma arcaica, anche e soprattutto quelli storiografici ai quali, come ho già detto, essa ha riconosciuto un carattere pedagogico ed un rapporto con il contesto socio-politico che avrebbe condizionato non solo la rappresentazione dei fatti relativi all’epoca storica in considerazione, ma anche la loro interpretazione che sarebbe stata aderente all’ideologia dello storiografo scrivente e non alla realtà. Ma non solo. Secondo parte della dottrina proprio la storiografia avrebbe avuto un ruolo fondamentale in quella c.d. “tendenza anticipatrice” che sarebbe rintracciabile pressoché in tutte le fonti esistenti sul tema in esame ed in forza della quale istituzioni di età repubblicana sarebbero state proiettate in un passato assai più remoto. Qualcuno ha motivato tale tendenza riconoscendo a tutti gli autori dell’antichità (sia romani, che greci) la mancanza di una critica storica, causata dalle insuperabili difficoltà che la ricerca doveva presentare a quei tempi. Altri si sono concentrati sul carattere stesso della storiografia romana la quale, si è sottolineato, sorse quando la repubblica si era già sviluppata ed i principi generali, attestatisi con la prassi quotidiana, erano patrimonio comune di tutti i cives che partecipavano attivamente alla vita pubblica. Se poi si considera la propensione di ogni popolo a ritenere quei principi immutabili ed eterni, ben si comprende come, narrando delle origini, quegli stessi principi venissero assunti come esistenti già dai primordi.
Ad essere evidenziato da alcuni studiosi è stato anche il fatto che, mentre la storiografia si formava, Roma fosse coinvolta nelle lotte contro le monarchie ellenistiche: sarebbe, dunque, in tale contesto che si sarebbe formata (ivi trovando la sua ratio) una sua vera e propria volontà anticipatrice, il cui scopo non sarebbe stato altro che quello di mostrare i romani come un popolo libero persino sotto i suoi re.
Merita di essere segnalata a parte, ritengo, l’dea del Guarino stando alla quale vi sarebbe stata, in capo agli storiografi romani, una parziale consapevolezza in merito all’inattendibilità di quanto riportato dalla tradizione sui primordi di Roma. Sintomatico di ciò, sarebbe stato il fatto che la stragrande maggioranza di questi ha rinvenuto la causa della penuria di notizie relative a quel periodo, nell’incendio gallico del 387 a. C. (alcune fonti indicano, invece, l’anno 390 a. C.) che distrusse (quasi) tutti i riferimenti scrittori sul tema. Secondo il romanista, tuttavia, la carenza di informazioni per i primi secoli della storia romana sarebbe, in vero, da addebitarsi più che altro all’assenza dell’uso della scrittura prima del V sec. a. C., unita ad una mancata predisposizione dei romani (a differenza dei greci) all’annotazione di avvenimenti nel momento stesso del loro svolgersi. La registrazione scritta di un qualche accadimento non sembrerebbe, infatti, per il Guarino, potersi annoverare anteriormente ai primi decenni del III sec. a. C. Maggiormente accreditata tra gli studiosi resta, comunque, l’idea che le “falsificazioni” reperibili nella ricostruzione della fase più antica di Roma siano, piuttosto, da addebitarsi ad un intento magnificatore delle origini, all’orgoglio cittadino di poter vantare come nate con l’Urbe le leggi e le istituzioni politiche più importanti. Comunque motivate, le anticipazioni di cui sarebbe disseminata la storia della Roma dei primordi sono state per lungo tempo reputate per lo più consapevoli ed innegabili, ergo tali da inficiare non solo quello che sarebbe stato il contenuto delle numerose istituzioni attribuite tradizionalmente ai re, ma anche e soprattutto, per quel che qui interessa, la forma con la quale esse sarebbero state introdotte. Quanto detto, fa riferimento per lo più alla storiografia romana e coinvolge, com’è immaginabile, particolarmente i racconti di Livio. Tuttavia, le medesime critiche sono state estese anche all’opera di Dionigi e ciò in quanto è al contributo dello storico patavino e all’Alicarnassense che maggiormente si devono le notizie sulle origini di Roma, sul periodo monarchico e sulle leges regiae. Ai due autori è stato, innanzitutto, parimenti contestato di intendere la storiografia più come opera di alta eloquenza che come ricerca della verità, finendo così (appunto) per filtrare le notizie fornite dagli scrittori precedenti solo in base a criteri di utilità politica o mera propaganda, risultando pertanto scarsamente credibili. A sconfessare la veridicità di quanto riportato dai due storici sarebbe stato, allora, stando a quanto sopra riferito, la stessa ratio sottesa alla stesura delle rispettive opere che avrebbe condizionato la scelta del materiale al quale attingere portando a privilegiare quello più utile allo scopo, uno scopo che sarebbe stato, per la Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία che a noi qui interessa, prettamente politico. Alla base della stesura di tale opera, infatti, vi era l’intento di dimostrare la discendenza ellenica della popolazione romana, come Dionigi stesso premette (DH 1. 5. 1). Uno degli aspetti principali della cronaca dionisiana è il processo di attestazione della c.d. costituzione romana, un processo che non può prescindere (ed in effetti, nel resoconto dello storico cario non lo fa) dalle leggi. Dionigi, infatti, nella sua opera, dopo aver presentato Romolo come colui che ha dato a Roma un ordinamento che si è dimostrato il più completo di tutti in pace ed in guerra (DH 2. 7. 2), ha prospettato già il fondatore della città come autore di una legislazione (per indicare la quale il nostro storico si è avvalso significativamente del termine “tecnico” νομοθεσία, DH 2. 24. 1) a tal punto corposa da indurlo ad effettuare una selezione delle leggi da riportare nella sua Storia.
Inutile sottolineare come queste “informazioni” siano valse a Dionigi feroci critiche da parte della dottrina. Oltre al già menzionato Niebuhr, va riferita la vera e propria attività demolitrice portata avanti dallo Schwartz e cristallizzatasi nella Pauly-Wissowa, Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft alla voce “Dionysios von Halicarnassos”. Lo studioso, dopo aver elencato meticolosamente tutte le contraddizioni presenti nell’opera dello storico cario, un’opera dai tratti retorici e letterali, lo descrive come del tutto incapace di comprendere il diritto pubblico romano e, quindi, di separare criticamente i suoi istituti da quelli greci, a causa dell’influenza attica del IV sec. a. C. Ovviamente la risonanza di tale critica fu così grande da inaugurare anche in Italia una corrente contraria al valore del resoconto dionisiano. È qui che entra in gioco il secondo elemento sul quale la dottrina si è basata per negare attendibilità al contributo dell’Alicarnassense. Nel nostro Paese, infatti, diversi autori hanno particolarmente sottolineato lo status di straniero di Dionigi d’Alicarnasso, che sarebbe stato più un retore che uno storiografo e che avrebbe avuto solo la mera pretesa di conoscere la storia e soprattutto il diritto di Roma. Alcuni studiosi hanno imputato al nostro storico di aver posto alla base della sua opera fonti di molti secoli posteriori agli avvenimenti narrati, o addirittura archivi privati di famiglie patrizie del tutto inattendibili per la loro partigianeria. Altri autori ancora hanno, poi, tacciato Dionigi di aver privilegiato l’aspetto quantitativo a quello qualitativo delle notizie riportate.
Paradossalmente, quindi, proprio la grande quantità di dettagli presenti nell’opera dello storico cario, nonché la numerosa rassegna di leges regiae reperibile nelle sue pagine, hanno esposto l’Alicarnassense ad accuse di falsificazioni delle sue fonti, rendendolo un gradito bersaglio della critica per molto tempo.
Nel 1960 il Gabba, per primo ed ancora nell’àmbito di un panorama caratterizzato da assoluta sfiducia
nei confronti della Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία ha, invece, valorizzato il metodo storico utilizzato da Dionigi (quindi, anche la credibilità della sua narrazione), sottolineando come questi fosse solito esporre tutte le versioni rinvenute su di un determinato fatto, dimostrando in tal modo di aver svolto effettivamente un lavoro di ricerca (in senso moderno). Non solo. Le numerose citazioni presenti nell’opera costituirebbero, inoltre, una prova della conoscenza che lo storico cario poteva vantare della produzione più recente (in aggiunta alla sua già profonda cultura storica e filosofica, nonché delle opere greche e latine). Infine, l’autore evidenzia la fedeltà all’annalistica che sarebbe riscontrabile nella Storia dionisiana, sebbene essa non sarebbe l’unica fonte posta dall’Alicarnassense a fondamento del suo lavoro: egli, infatti, avrebbe ricercato in altre fonti quegli episodi che gli apparivano maggiormente degni di significato. Ancora una volta, sulla strada tracciata dal Gabba, si è posto il Tondo, anch’egli convinto dell’affidabilità della narrazione dionisiana che cerca di accentuare e dimostrare. L’autore, infatti, ha sottolineato come Dionigi nella sua opera abbia riferito della presenza, ancora ai suoi tempi, di una iscrizione su stele di bronzo redatta in caratteri greci arcaici sita nel tempio aventiniano eretto da Servio Tullio in onore della dea Diana, con il contributo di alcune città federate (DH 4. 26. 5). Che la collocazione temporale di tale iscrizione coincidesse esattamente con quella riferita dallo storico cario sarebbe confermato, secondo il Tondo, da tre circostanze: prima fra tutte la presenza, nella stessa, del nome di Servio in qualità di dedicante insieme a quello dei popoli federati, conformemente alla logica stessa della dedicatio; il testo dell’iscrizione in considerazione, inoltre, sarebbe stato un modello più o meno stabile, impiegato anche per iscrizioni posteriori, quindi suscettibile di una certa comprensione per i romani di età augustea; infine, quale elemento decisivo, vi sarebbe la comprovata arcaicità dei termini greci utilizzati, effettivamente riportabili al IV sec. a. C. L’inversione di atteggiamento rispetto all’affidabilità della fonte dionisiana si era ormai avviato e si comincia, quindi, ad esprimere giudizi positivi sulla Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία che diventa, per alcuni, addirittura la fonte principale alla quale attingere per la conoscenza delle leges Romuli. L’Alicarnassense, in questo contesto, viene riconosciuto uno storico greco capace di trattare le vicende romane non in modo sommario come altri scrittori ellenici avrebbero, invece, fatto.
Le ricerche di Fascione nel 1988, dalle quali il mio lavoro prende le mosse, hanno particolarmente evidenziato non solo l’importanza dell’opera di Dionigi per la sua conoscenza delle vicende storiche, ma anche e soprattutto (per quel che a noi interessa) delle istituzioni romane arcaiche. Esse hanno fugato, quasi, ogni dubbio residuo sull’attendibilità, in ordine generale, per ciò che riguarda la Storia dionisiana. Va segnalato, infatti, come perplessità perdurino (e non potrebbe essere altrimenti) in dottrina, particolarmente sul regnum di Romolo ritenuto (più di altri) spurio. Ciononostante, l’opinione degli studiosi è oramai pressoché unanime: Dionigi è ritenuto oggi generalmente affidabile come storico e non sprovvisto di conoscenze relative agli istituti giuridici della Roma arcaica.
Ciò attestato, le considerazioni che posso aggiungere io in seguito allo studio della Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία per quel che concerne la storia dei regna è affermare che le testimonianze di Dionigi in tema di statuizioni (vedremo di che natura in seguito) regie sono preziose per lo studioso del diritto romano arcaico, perché inserite in un contesto giuridico complessivamente credibile sul piano storico, ma anche per via dell’intrinseca circostanza che proprio lo storico cario conserva, di gran lunga, la parte preponderante delle fonti a noi note in tema di leges regiae. Sorprendente è, per quel che mi riguarda, la circostanza che, leggendo l’opera dell’Alicarnassense, ci si rende conto della profondità della conoscenza che lo storico cario aveva del diritto romano e, oserei dire, del diritto in generale. Ciò appare evidente, innanzitutto, dai numerosi confronti o analogie (quest’ultime vere o presunte) che Dionigi spesso propone tra il mondo romano e quelle greco come per la distinzione tra patrizi e plebei (DH 2. 8. 1), o per il rapporto di patronato (DH 2. 9. 2) non esimendosi, peraltro, a volte, da emettere giudizi personali (in merito a quest’ultimo, in DH 2. 9. 2-3, Dionigi racconta che i Tessali chiamavano i clienti penestai evocando già nel nome il disprezzo del loro stato, mentre Romolo rese dignitoso con l’appellativo di patrono il rapporto di tutela da parte dei patrizi, nei confronti dei poveri e miseri).
La credibilità di questo autore si evince, anche ed inoltre, dalla circostanza che spesso sia egli stesso a dire “di non sapere”: affermazione che si pone a riprova del fatto, reputo, che Dionigi non inventa, non crea. Egli piuttosto ammette, ove non sia riuscito a ricostruire un evento o a stabilire se una determinata legge è stata redatta per iscritto, di non essere stato in grado di colmare una eventuale lacuna. A tal proposito possiamo citare, quanto al primo caso, la questione relativa a cosa contenesse il tempio dedicato ad Hestia e perché vi sovraintendessero le vergini: la vicenda è descritta da Dionigi in DH 2. 66. 2-6 riportando le numerose differenti opinioni degli studiosi interessatisi alla questione e si conclude con l’esposizione della propria teoria, senza però fornire una risposta definitiva al quesito. In merito al secondo caso, invece, il riferimento è alla norma relativa alla triplice vendita del figlio, trattata in DH 2. 27. 3. Ancora. Lo storico cario, a volte, riferisce le opinioni di diverse fonti a riprova, come si è detto, di una ricerca seria e approfondita. Possiamo riferire, a conferma di ciò, il fatto che egli, a proposito dei celeres, riporta che il nome di essi come la maggior parte degli storici scrive derivi dal veloce impeto dei loro interventi operativi, o, come dice Valerio Anziate, dal comandante che aveva tale nome (DH 2. 13. 2); oppure il celebre episodio del ratto delle vergini, dove Dionigi precisa come alcuni storici scrivono che questi fatti avvennero il primo anno del regno di Romolo, ma Cneo Gellio li riferisce nel quarto anno, data più probabile (DH 2. 31. 1) o, ancora, la questione relativa al numero delle tribù che Servio Tullio aggiunse a quelle urbane già esistenti: Dionigi riferisce l’opinione di Fabio, Vennonio e Catone (DH 4. 15. 1). L’Alicarnassense, inoltre, sembra respingere quanto di “favoloso” comparirebbe nella narrazione di altri autori: ciò avviene con l’analisi dei fatti che portarono alla morte del primo re quando egli distingue tra coloro che riferiscono le notizie più leggendarie e gli storici che affermano che fu ucciso dai suoi concittadini (DH 2. 56. 2), come anche in relazione al presunto legame del re sabino con la ninfa Egeria, rispetto al quale Dionigi afferma che gli studiosi che dalla storia escludono tutto ciò che è leggendario, dicono che l’intero racconto di Egeria sia stato inventato (DH 2. 61. 1).
Egli confuta, inoltre, con date e fatti anche opinioni dominanti: questo è il caso del presunto ruolo di discepolo di Pitagora che avrebbe ricoperto Numa Pompilio (DH 2. 59. 1-3). Infine, proprio il suo essere un forestiero (come è stato definito in dottrina) che scrive di Roma per i greci, rende molto approfondite (più di quelle liviane che si rivolge ad un uditorio che sa, mi permetto di precisare) le spiegazioni di istituti, leggi e usi vigenti in epoca regia, a corollario delle quali spesso compare anche una precisazione in merito al tempo di sopravvivenza degli stessi (si pensi alla conservazione, oltre l’ordinamento monarchico, della consuetudine di trarre gli auspici prima dell’assunzione della carica di magistrato, osservata da Romolo all’atto di divenire re di Roma, DH 2. 6. 1, o al raggiungimento del numero complessivo di sei sacerdotesse di Hestia sotto il regno di Lucio Tarquinio che permane inalterato fino al tempo in cui Dionigi scrive, DH 3. 67. 2). Merita di essere sottolineato ancora un aspetto della narrazione dionisiana: ovvero, il lessico utilizzato dallo storico cario per narrare la sua Storia di Roma. Esso era già stato particolarmente messo in evidenza dal Marin che aveva notato come Dionigi si fosse avvalso di una terminologia specifica relativamente all’ambiente politico e sociale di Roma e dalla Poma che auspicava lo svolgimento di una indagine complessiva sul lessico utilizzato dallo storico cario, non ancora svolta in modo completo e sistematico, considerato come troppo tardi fosse stato riconosciuto all’Alicarnassense un ruolo fondamentale per la conoscenza e lo studio della Roma più antica sotto il profilo istituzionale. A seguito dello studio dell’opera di Dionigi, quando mi sono trovata ad analizzare specifiche parti della sua cronaca romana, mi sono permessa di definire il suo lessico, come “tecnico” non solo, ma di certo in particolare, per il tema che ho trattato, ovvero quello delle statuizioni dei re. Che Dionigi abbia piena cognizione di ciò che, da un punto di vista giuridico, ci sta riportando emerge dalla terminologia di cui egli si avvale in diverse parti della sua narrazione. Mi limiterò a riferire un unico esempio che però, ritengo, renda bene l’idea di ciò che sostengo. In DH 2. 25. 2 lo storico cario riporta una norma romulea che riguarda la donna che si sposava con sacre nozze: ella diveniva partecipe di tutti i culti del marito. Spiega Dionigi che gli antichi chiamavano le nozze sacre e legali con il termine romano confarreatio, per l’uso in comune del farro. Evidentemente, l’Alicarnassense sta qui facendo riferimento al matrimonium cum manu concluso (appunto) nelle forme della confarreatio. Nel testo greco, compare l’espressione γυναῖκα γαμετὴν, sposa legittima e, com’è noto, la iusta uxor era, originariamente, proprio la moglie unita al marito con nozze confarreate.
Quali sono gli atti normativi tràditi da Dionigi d’Alicarnasso?
Più che di atti normativi, io parlerei di “fatti di normazione” utilizzando per Dionigi la celeberrima espressione di Riccardo Orestano. Cercherò di spiegarne il perché.
Quello che poi è diventato un lavoro monografico sulla Storia dell’Alicarnassense, prendeva originariamente il via dall’analisi delle fonti dionisiana e liviana alla ricerca di citazioni dirette o indirette di leges regiae. Un obiettivo, evidentemente, non circoscritto alla sola Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία. Tuttavia, lo studio dell’opera dello storico cario ha portato al rinvenimento di un materiale documentario ben più vasto e intrinsecamente differente da quello esaminato dalla dottrina precedente che mi ha indotto a concentrare la mia attenzione esclusivamente sul contributo dionisiano.
Già nel manifestare i suoi intendimenti metodologici, infatti, Dionigi d’Alicarnasso informava il suo pubblico che avrebbe raccontato in quali forme e in quale misura ciascuno dei re della tradizione avesse contribuito alla formazione dell’ordinamento giuridico-istituzionale della civitas. Ma non solo. All’inizio stesso della sua trattazione (e sorprendentemente), Dionigi (DH 1. 8. 2) precisa con grande rigore metodologico di essersi occupato (appunto) di ben tre differenti (lo ripeto) fatti di normazione chiaramente distinti tra loro: le forme degl’ordinamenti politici (πολιτε‹ai) attraverso le quali era stata costruita l’impalcatura politico-istituzionale della Roma antica, i costumi allora vigenti (ἔθη) e le leggi vere e proprie emanate dagli stessi re (νόμοι). Nella Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία, dunque, non si rinvengono solo leges in senso stretto (νόμοι), ma anche altre e diverse cogenze giuridiche attraverso le quali i re della tradizione avrebbero “governato” la città: si tratta di misure strettamente politiche e di usanze, costumi (i mores: questi ultimi, peraltro, dai medesimi re in qualche misura accettati o esplicitamente “confermati” nella loro cogenza). Lo storico cario dimostra di conoscere tali disposizioni e di saperle distinguere tra loro esponendone i contenuti con padronanza e rigore lessicale, rivelandosi inoltre in grado di circoscriverne l’uso da parte del sovrano a ben precisi e differenti àmbiti di competenza.
I termini πολίτευμα, νόμος, ἔθος sono, in effetti, divergenti tra loro non solo da un punto di vista squisitamente lessicale, bensì anche e soprattutto da un punto di vista sostanziale: l’esame complessivo dei testi dionisiani ha, infatti, agevolmente confermato come nella quasi totalità dei casi lo storico cario si sia attenuto scrupolosamente alla distinzione terminologica e contenutistica esposta in apertura dell’opera. Prima di passare a riferire qualche esempio che renda meglio l’idea della differenza tra le cogenze giuridiche riferite nella sua opera da Dionigi, appare necessaria una precisazione.
Nel brano che apre l’attività di schedatura dei diversi tipi di fatti di normazione di cui lo storico cario ci dà notizia nella Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία (DH 1. 9. 4), è possibile trovare una prima manifestazione di quell’intento programmatico espresso in DH 1. 8. 2. Dal testo appena menzionato possiamo, infatti, subito apprendere che il primo re emanò disposizione “altra” rispetto alla legge, ma anche quale fosse il suo contenuto. Romolo, infatti, narra Dionigi, stabilisce che la popolazione della – nuova – città di Roma avrebbe compreso, oltre agli appartenenti originari alla colonia, anche gli stranieri, i vinti e gli schiavi. In tal modo, egli definisce un aspetto – fondamentale – dell’assetto del suo ordinamento (chi sarebbe stato il suo popolo) attraverso la misura politica chiamata, nel testo, πολίτευμα. Il legame tra πολι̃τεία e πολίτευμα che si definisce, dunque, già all’inizio della trattazione dionisiana è ribadito nella parte finale del passo in esame ove Dionigi proprio all’ordinamento realizzato dal primo re attribuisce il merito della grandezza stessa di Roma.
La destinazione del πολίτευμα non muta per tutta la cronaca dionisiana: senza eccezioni, ad esso i re ricorsero per intervenire sulla determinazione della struttura dei rispettivi ordinamenti e per disciplinare tutti gli aspetti pertinenti la città. Ciò detto, mi preme avanzare una considerazione che ritengo importante. Come mi è parso dallo studio della Storia dell’Alicarnassense, il regnum del re fondatore rimane pressoché intatto fino alla monarchia etrusca subendo pochi cambiamenti. Facciamo degli esempi relativi ad ogni rex appartenente alla c.d. monarchia latino-sabina. Secondo quanto riporta Dionigi, l’unica misura politica assunta dal successore di Romolo, il sabino Numa Pompilio, che incise effettivamente sull’impianto fornito dal fondatore al suo regnum, fu quella attraverso la quale egli introdusse la suddivisione del territorio in pagi (DH 2. 76. 1). Evidentemente, infatti, seppur indiscutibilmente πολιτεύματα, non modificano, nella sostanza, l’ordinamento romuleo, le misure politiche attraverso le quali vennero concessi appezzamenti di terra ai plebei (DH 2. 64. 4), o, ancora, quelli che consentirono l’annessione dei diversi colli al territorio dell’Urbe (nello specifico, sotto Numa, il Quirinale, DH 2. 62. 5). Lo stesso possiamo sostenere per Tullo Ostilio: tra le sue misure politiche spicca di certo quella relativa all’ammissione di alcune illustri famiglie albane in senato, la distinzione in tribù e fratrie di nuovi cives (gli albani di Mezio Fufezio) e la previsione della possibilità per essi di ricoprire cariche magistratuali ed entrare a far parte del patriziato (DH 3. 29. 5-7 e DH 3. 31. 3). Tutti questi πολιτεύματα, infatti, non appaiono per nulla strictu sensu modificativi della struttura conferita da Romolo al suo regnum dove il senato, le tribù e le fratrie, seguendo la narrazione dionisiana, esistevano già. Infine, anche con Anco Marcio osserviamo lo stesso fenomeno: egli, infatti, emana πολιτεύματα soprattutto per ampliare il territorio di Roma (annettendo ad esso il Palatino e l’Aventino) e costruendo la città di Ostia alla foce del Tevere. L’assetto costituzionale romuleo, dunque, permane. Osserviamo cosa accade con l’avvento della monarchia etrusca. Neanche sotto il governo del primo Tarquinio (ex post definito Prisco, ovvero, specifica Dionigi, nato prima, DH 4. 41. 4) assistiamo a mutamenti di particolare rilievo. Esso è, infatti, caratterizzato dall’emanazione di due πολιτεύματα: quello che stabilì l’aumento del numero dei senatori da duecento a trecento, con l’inserimento di cento uomini appartenenti al ceto plebeo (DH 3. 67. 1) e quello (già menzionato) che portò le sacerdotesse di Hestia ad un totale di sei (DH 3. 67. 2). Dionigi, significativamente, non registra per questo re nessuna emanazione di disposizioni normative. Con Servio Tullio, invece, l’assetto del regnum cambia profondamente e definitivamente. Tra le numerose misure politiche emanate dal sesto re, spicca di certo quella che introduce il censimento dei cives e dei loro beni (DH 4. 15. 5); la conseguente divisione del popolo in sei classi e centonovantatre centurie attuata in relazione alle sostanze di ogni civis (DH 4. 16. 1-DH 4. 18. 2) e la convocazione del popolo per centurie a fronte di questioni quali l’elezione dei magistrati, la ratifica delle leggi, la dichiarazione dell’inizio e della fine di una guerra (DH 4. 20. 3). Come è noto, invece, con l’ultimo Tarquinio, definito dagli stessi romani il Superbo, il regno si tramuta in tirannide e il percorso fino a qui seguito, ovvero quello di individuare le tre cogenze giuridiche attraverso le quali i reges disciplinarono le diverse questioni nell’àmbito dei rispettivi regna, si perde. Tarquinio il Superbo, infatti, non legifera in alcun modo, se non per introdurre le celebrazioni in onore di Zeus Laziale e il contributo economico che le città della lega latina (istituita dal suo predecessore Servio Tullio) dovevano versare per parteciparvi (DH 4. 49. 2). Piuttosto, il settimo ed ultimo re di Roma abolisce e viola ἔθη (DH 4. 40. 5 e DH 4. 41. 2), πολιτεύματα (DH 4. 41. 2, DH 4. 43. 2) e νόμοι (DH 4. 40. 5, DH 4. 41. 1-2-4, DH 4. 43. 1).
La seconda cogenza giuridica della quale, nel suo intento programmatico, Dionigi dichiara di volersi occupare è quella che a noi più interessa, ovvero, il νόμος. Come ho già anticipato, il contributo dionisiano è quello che riporta il più cospicuo numero di riferimenti alle leggi regie. Anch’esse, peraltro, appaiono deputate ad uno specifico settore di competenza e cioè, quello che noi oggi chiameremmo, con termini moderni, diritto di famiglia e diritto sacro. Anche in questo caso, il maggior numero di leggi, si rinviene nell’àmbito del regnum romuleo e ciò appare più che logico considerando come Romolo, in quanto primo re, si sia trovato, oltre a dover definire gli aspetti strutturali della nuova città (come abbiamo detto, con i πολιτεύματα), anche a regolamentare tutte quelle relazioni che, a diversi livelli, intercorrevano tra i cives, iniziando da quelli tra le due classi sociali alle quali assegnò, proprio con una legge, precise prerogative (DH 2. 9. 1). Per questo motivo, infatti, nel resoconto dionisiano, con riferimento a Romolo, troviamo per ben due volte l’espressione ὁ δὲ τῶν Ῥωμαίων νομοθέτης (DH 2. 26. 4 e DH 2. 27. 1), a differenza, dunque, della radicata tradizione che individua nel re sabino il sovrano legislatore per eccellenza.
Ma torniamo alla particolare attenzione rivolta da Romolo alle numerose norme dedicate ai rapporti familiari, alcune delle quali, secondo Dionigi, redatte per iscritto (DH2. 24. 1). L’esempio più significativo che si può riferire riguarda di certo il νόμος relativo alla triplice vendita del figlio (DH 2. 27. 1), anch’esso, forse, scritto (DH 2. 27. 3). In relazione a tale lex, l’autore fornisce rilevanti informazioni raccontando che essa venne rispettata non solo durante i regna, ma anche sotto il decemvirato: dopo che tutte le tradizioni e le leggi vennero esposte nel foro, infatti, i decemviri incaricati di scrivere le leggi introdussero la norma in esame nella quarta tavola della legge decemvirale. Stando a Dionigi non è, dunque, ad essi che si deve riportare la lex sulla triplice vendita del figlio, ma a Romolo e ciò in quanto, tra i νόμοι di Numa Pompilio, ne figura uno scritto che sancisce la perdita di un potere precedentemente stabilito sempre con una legge, ovvero quello di mettere in vendita il figlio (DH 2. 27. 4). Come ho detto poco sopra, ancora al νόμος venne riservata la disciplina dei riti con la quale il primo re avviò la pratica del culto degli dèi e geni (DH 2. 18. 2) ordinando che venissero costruiti templi, altari e statue, fissate feste, sospensioni dal lavoro e concili solenni, proibendo tutti i miti che offendevano le divinità, prescrivendo di tenere un contegno rispettoso nei loro riguardi. Anche in questo caso, troviamo nel resoconto dello storico cario un’interessante deviazione dalla tradizione che intravede nel re sabino il sovrano più pio, più religioso dei sette di cui essa serba memoria: già Romolo, infatti, si è appena riferito, aveva riservato un interesse primario all’àmbito del sacro (questo aspetto sarà subito evidente anche trattando dell’ultima cogenza giuridica). Non solo. Sebbene, Dionigi riconduca a Numa la celebre legislazione relativa ai culti redatta per iscritto, poi ripartita tra otto classi sacerdotali (DH 2. 63. 4), egli precisa che il secondo re mantenne in vigore nella regione tutte le norme sancite da Romolo, sia consuetudini che leggi….inoltre provvide a sistemare quegli àmbiti che sembravano essere stati da lui trascurati (DH 2. 63. 2). Ancora una volta, dunque, nella cronaca dionisiana i regna successivi al primo sembrano mantenere l’impianto strutturale e anche, in gran parte normativo, stabilito dal re fondatore. In questa direzione sembra portare anche quanto racconta Dionigi in merito al fatto che Servio Tullio fissò per iscritto le antiche leggi di Romolo e del suo successore rivisitate (DH 4. 10. 3). Ora, considerando che a lasciare una traccia scritta delle disposizioni sacre numane era già stato Anco Marcio che le aveva anche fatte esporre nel foro (DH 3. 36. 4), la precisazione dello storico cario lascerebbe pensare, che le statuizioni normative di diritto privato romulee e quelle sacre di Numa Pompilio erano al suo tempo ancora note ed in vigore e che solo allora vennero modificate per la prima volta.
Ma torniamo ai νόμοι traditi da Dionigi nella sua opera. Sotto il regno del secondo re troviamo un importante riferimento ad una legge regia in forma di citazione testuale: in DH 2. 74. 2. 3, che reca menzione della norma sulla delimitazione dei possedimenti, rinveniamo, infatti, proprio quel nesso condizionale εἰ δέ τις che, secondo la teoria (già esposta ed oramai unanimamente accolta) del Tondo, con riferimento alle fonti greche, avrebbe indiscutibilmente attestata la sostanza di lex regia per la proposizione che la contempla. Merita, inoltre, di essere segnalato come, a volte, nella Storia di Dionigi, la legge appaia anche come uno strumento preposto alla soluzione di situazioni extra-ordinarie come emerge dalla vicenda narrata in DH 2. 21. 2 e DH 2. 21. 3 relativa alla istituzione, durante il suo regno, di ulteriori sessanta sacerdoti, in aggiunta ai gentilizi, con il compito specifico di celebrare cerimonie sacre pubbliche per tribù e curie (secondo quanto, precisa lo storico cario, riferisce Varrone). Nel primo testo, Dionigi (coerentemente) prospetta il πολίτευμα come disposizione preposta all’aggiunta di nuovi sacerdoti e ciò in quanto tale aumento avrebbe inciso sull’assetto dell’ordinamento introducendovi un ordine sacerdotale. Nel secondo brano, tuttavia, Romolo interviene con la legge (come palesa l’utilizzo del verbo νομοθεθέω) nominando due uomini che ricoprissero la carica a vita, per porre fine alla diffusione di una pratica irregolare in base alla quale l’elezione dei ministri di culto iniziò ad essere condizionata da elargizioni di denaro o decisa in modo del tutto aleatorio, attraverso un’estrazione a sorte. Il mutamento sostanziale dei termini giuridici utilizzati non comporta disarmonia del brano di cui tratta con il quadro sin qui tracciato che vede Dionigi ricorrere al termine νόμος, così come al verbo νομοθεθέω, in presenza di disposizioni pertinenti al diritto privato e sacro ed al vocabolo πολίτευμα a fronte di misure pertinenti il diritto costituzionale. DH 2. 21. 3 inizia, infatti, con l’avverbio ἔπειτα: già questo ci dà l’indicazione temporale che Romolo intervenne cum lege in un momento successivo a quello della creazione dell’ordine sacerdotale. La lex Romuli di cui narra Dionigi appare in tutto e per tutto una misura straordinaria presa in un secondo tempo rispetto alla designazione dei sacerdoti competenti a svolgere i riti per tribù e curie, con la finalità di porre termine ad una pratica scorretta. La legge dunque, ancora una volta, si rivela uno strumento al quale i reges avrebbero fatto ricorso con una certa parsimonia: non solo per disciplinare esclusivamente gli àmbiti più rilevanti della vita dei cives, ma anche per intervenire in situazioni eccezionali che, proprio per questo loro carattere, necessitavano dell’atto normativo per eccellenza. Per concludere in tema di νόμοι riferiti da Dionigi, va segnalata la presenza di alcuni provvedimenti prettamente relativi a quella che oggi definiremmo “politica estera”, tutti riscontrabili sotto il regno di Tullo Ostilio: tra questi, in particolare, il νόμος relativo alla legge universale della guerra in virtù della quale l’attacco al nemico va sferrato apertamente (DH 3. 8. 2). L’ampia conoscenza della materia trattata dallo storico cario, per l’aspetto che a noi qui interessa, ovvero quello delle cogenze giuridiche al tempo della Roma monarchica, mi appare, anche in considerazione di quest’ultima specifica tipologia di leggi da egli riferita, sorprendente ancora a distanza di anni dall’inizio dello studio della Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία.
Infine, nel testo in cui Dionigi d’Alicarnasso esplicita il suo intento programmatico, egli informa i suoi lettori che li renderà edotti anche (abbiamo visto) sui costumi e le usanze vigenti al tempo di Roma antica indicati con il termine greco ἔθη. I diversi re della tradizione, infatti, secondo la narrazione dello storico cario, avrebbero governato non solo emanando πολιτεύματα e νόμοι, ma altresì accogliendo o confermato, nella loro cogenza, anche gli antichi mores. Ancora una volta ci avvarremo di qualche esempio e, ancora una volta, prenderemo a riferimento il regnum romuleo.
Lo storico cario racconta che Romolo, non pago del favore dei cittadini affinchè fosse lui ad assumere il governo della nuova città, espresse la volontà che la sovranità così conferitagli venisse consacrata anche dagli dèi con segni favorevoli dal cielo, ottenuti i quali egli assunse la carica regia. Il primo atto da re compiuto da Romolo fu proprio quello di consolidare l’ἔθος di trarre gli auspici ogni qualvolta si dovesse assumere non solo la carica regia, ma anche quella magistratuale (DH 2. 6. 1). Sebbene, informa Dionigi, al tempo in cui egli scrive, questo costume sia caduto in disuso, per tutto il periodo monarchico e anche oltre, esso continuò ad essere osservato (l’Alicarnassense ricorda, a tal proposito, la scelta dei consoli, dei pretori e di altri magistrati stabiliti dalle leggi). Come anticipavo nel rispondere alla domanda precedente, la grande considerazione nella quale Romolo teneva il volere delle divinità e quindi, in generale, il ruolo del sacro già ancor prima di divenire rex, si manifesta immediatamente dopo la sua acclamazione a sovrano, smussando dal principio gli angoli della solida tradizione (già ricordata) che lo descrive come il re guerriero. Un altro ἔθος di rilievo di cui Dionigi fornisce notizia è quello che si inserisce nel contesto del rapporto di patronato. Sia il cliente che il patrono, infatti, avevano obblighi vicendevoli: non potevano accusarsi reciprocamente nei processi o testimoniare o votare in modo avverso o entrare nel novero dei nemici. In caso di violazione di taluna di queste condotte, Romolo qualificava l’autore come colpevole di tradimento e consentiva, a chiunque lo volesse, di ucciderlo come vittima di Zeus Kathachtonios. Era, infatti, puntualizza Dionigi, un’usanza dei romani quella di sacrificare l’homo sacer agli dèi ctonii (DH 2. 10. 3). Lo storico cario lascia notizia anche dell’ ἔθος che prevedeva, alla morte del re, che il suo cadavere venisse trasportato nel foro con le insegne regali (DH 4. 40. 5). Gli ἔθη riferiti dall’Alicarnassense sono in numero di gran lunga inferiore rispetto ai πολιτεύματα ed ai νόμοι e non rinvenibili in tutti i regna, eppure Dionigi li conosce, li riporta e li differenzia lessicalmente e contenutisticamente dalle altre due cogenze giuridiche attraverso le quali i re avrebbero governato la Roma monarchica. Ma non è ancora tutto. A corollario dei nostri oramai noti fatti di normazione, nel resoconto dionisiano possiamo rinvenire anche menzione di un’altra cogenza indiscutibilmente giuridica: ovvero, i trattati. Il riferimento è a quelli conclusi tra i romani di Romolo e i sabini di Tito Tazio prima (DH 2. 46. 2) e con i tirreni poi (DH 2. 55. 5-6) per porre fine alle ostilità in atto. Per gli accordi raggiunti con il popolo tirreno, in particolare, lo storico cario prospetta una incisione su stele, tornando in tal modo a collocare già all’epoca della monarchia romulea non solo il ricorso alla scrittura di – sebbene non meglio specificate – leggi, ma anche di accordi “internazionali”.
Quali considerazioni di sintesi sulle norme romane arcaiche di emanazione regia è possibile trarre dall’esame delle fonti dionisiane?
L’esame sistematico dell’opera dello storico cario ci permette di formulare più di una conclusione. Innanzitutto lo studio della Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία, come ho avuto modo di affermare già diverse volte nel corso di questa intervista, ha consentito di apprendere che, se si ritiene fededegna la cronaca dell’Alicarnassense, i re della tradizione avrebbero governato Roma non solo attraverso i νόμοι. Tali reges, infatti, secondo il resoconto di Dionigi, si sarebbero avvalsi anche di ulteriori provvedimenti a vario titolo normativi quali i πολιτεύματα e gli ἔθη, ognuno destinato ad uno specifico settore di competenza.
Le leggi, difatti, sarebbero state riservate alla disciplina del c.d., per utilizzate una terminologia moderna, diritto di famiglia e del diritto sacro, nonché si sarebbero rivelate, a volte, strumenti per risolvere situazioni extra-ordinarie. Le misure politiche sarebbero state emanate, invece, per la determinazione dell’assetto dell’ordinamento costituzionale regio e, infine, alcuni antichi usi e consuetudini sarebbero stati confermati dai re nella loro cogenza. Una considerazione, ritengo, meritino anche gli appena citati accordi internazionali di cui, sempre l’Alicarnassense, lascia menzione nella sua Storia.
Se si presta fede alla cronaca dionisiana, quindi ed evidentemente, si profila già nella Roma regia un panorama giuridico-normativo ben più ampio di quello considerato sino ad ora per questo periodo storico: richiamando ancora la celebre espressione di Riccardo Orestano, infatti, i fatti di normazione a disposizione dei re della tradizione sarebbero stati tre. Non solo leges regiae dunque.
Sempre dalla lettura dell’opera dionisiana, in secondo luogo, si può verificare come i riferimenti alle (sole) disposizioni normative presenti in essa siano molto più numerosi di quelli contenuti nelle raccolte di leggi regie più note e generalmente diffuse nella comunità dei giusromanisti: mi riferisco, ovviamente, a quella più classica curata da Salvatore Riccobono nel primo volume dei FIRA (1909, poi 1941, 1968 e ultimamente 2007, sempre invariato) ed alla silloge più recente diretta da Gennaro Franciosi (2003).
Tutto ciò considerato, non credo si possa prescindere dal prendere adeguatamente in considerazione un nuovo esame critico dei testi dello storico cario finora, reputo, non sufficientemente valorizzati. La Ρωμαικὴ ̓αρχαιολογία è stata, infatti, spesso schedata, dalla dottrina che se ne è occupata, in modo piuttosto parziale e, in qualche caso, intravedendo leggi regie in testi che non sembrano, in verità, riferirne alcuna e ciò proprio in quanto si è omesso di prestare attenzione all’intento programmatico dello storico cario, sebbene chiaramente espresso all’inizio della stesura della sua opera: ovvero, trattare di tutte le forme di ordinamenti politici con cui è stata governata la città, i migliori costumi e le leggi più rinomate. La Storia dionisiana, per l’aspetto considerato, in particolare, nel mio contributo, ovvero quello normativo dei reges della tradizione, credo fermamente possa costituire un tassello importante per la nostra conoscenza sul tema e ciò sia intrinsecamente per il cospicuo numero dei provvedimenti menzionati rispetto alle altre raccolte della medesima cogenza giuridica sopra citate, sia per la natura differenziata delle disposizioni regie in relazione ai fatti di volta, in volta normati.
Gaia Di Trolio nasce a Roma dove risiede. Consegue la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma nel 2010 con relatore il Prof. Oliviero Diliberto e, nel 2015, presso il medesimo Ateneo, anche il dottorato di ricerca in “Diritto romano, Teoria degli ordinamenti e diritto privato del mercato”. Dal novembre 2010 è cultore della materia, membro delle commissioni di esami e collabora presso la cattedra di Istituzioni di Diritto Romano di cui è titolare il Prof. Oliviero Diliberto, sempre presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Dal gennaio 2013 è cultore della materia e membro della commissione di esami dell’insegnamento di Storia del diritto romano (e, dal gennaio 2014, anche di quello di Istituzioni di diritto romano) tenuto dalla Prof.ssa Daniela Di Ottavio, presso la “Università della Tuscia” di Viterbo. Dal dicembre 2014 fa parte del Comitato di Redazione del Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialoja”. Dal maggio al novembre 2017 è stata Visiting Scholar presso la Zhongnan University of Economics and Law di Wuhan, in Cina. Dal dicembre 2017 è assegnista di ricerca del progetto Erc Scriptores iuris Romani diretto dal Prof. A. Schiavone.
Gaia Di Trolio è autrice della monografia Leges regiae. Le testimonianze di Dionigi di Alicarnasso, seconda edizione interamente riveduta e ampliata, Napoli 2019. Tra gli altri contributi si segnalano: Pacuvio, Plauto (Manaechmi, Mercator, Miles gloriosus, Mostellaria), in O. Diliberto e M. V. Sanna (curatori), Le parole del diritto. L’età arcaica, Cagliari 2016; Dionigi, i re e la terra. Sul controllo pubblico della proprietà privata nella Roma arcaica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialoja”, 111, 2017; Pensiero giuridico occidentale e giuristi romani: archeologia d’un patrimonio, in Teoria e Storia del Diritto Privato, 11, 2018; Fatuus. A proposito di Gai. 1 e 24 ad ed. prov. (D. 3. 1. 2 e D. 42. 5. 21), in Teoria e Storia del Diritto Privato, 12, 2019 e Gaio commentatore dell’editto provinciale, in Revista General de Derecho Romano 33, 2019.