
Già, perché nella Roma antica le lacrime erano frequenti, tanto in pubblico quanto in privato. A dispetto di quanto affermava Ronald Syme nel suo Tacito («I romani non erano di cuore tenero», Paideia, Brescia 1971, p. 705) «gli imperatori, il popolo, i senatori, i soldati piangono. I dibattiti pubblici, i processi, le ambasciate, tutto è pretesto per riversare emozioni. Più dei greci, che già piangevano abbastanza, i romani hanno la lacrima facile. Lo dimostra la varietà del vocabolario latino. I verbi flere, deflere, lacrimare, plorare, complorare, deplorare, implorare, lugere, plangere, queri indicano tutti l’azione di piangere, di lamentarsi, a volte in maniera rumorosa e spettacolare, aiutandosi con i gesti: ci si batte il petto e si lacerano le vesti, ci si graffia il viso, si sciolgono i capelli, ci si rotola per terra. I romani si sfiniscono a forza di piangere».
Certo, le pubbliche lacrime sono comuni anche ad altre culture: pensiamo alla qeriah, la lacerazione degli abiti a livello del cuore, prescritta nelle pratiche funerarie dell’ebraismo o al dogeza, la prostrazione rituale giapponese, che può accompagnarsi nelle scuse pubbliche alle lacrime.
Le occasioni a Roma per versare le proprie lacrime si sprecano: «Il funus (rito funebre) è un teatro di lacrime. […] È previsto che si pianga, come omaggio minimo al defunto, e le lacrime fanno parte del rituale prescritto. […] le capigliature femminili si scompongono e alcuni visi si coprono di cenere. Ci si percuote la testa, il petto, le gambe. Questi gesti autolesionistici possono arrivare anche a provocare fuoriuscite di sangue.»
«Le lacrime del lutto servono ad affrontare l’evento «funesto» e a concluderlo. La società romana si aspetta di assistere ai pianti degli afflitti, perché questi sono gli imperativi della pietà. Il dolore è un obbligo strettamente regolamentato. E se la tristezza dura, è in funzione di intermittenze fissate dal calendario. Soltanto i defunti hanno il diritto di prolungare indefinitamente il loro pianto. Quando prendono la parola nel loro epitaffio, i morti non mentono: la loro sorte non è gaia, e la maggioranza non ha altra speranza che una lacrima versata dai parenti o da qualche passante. Più la cerchia emotiva si estenderà, meglio sarà. Perché i pianti hanno un significato comunitario. Alla sua morte, un cittadino di grande successo sociale otterrà singhiozzi in abbondanza. Un altro che si è distinto nell’esercizio del potere (civile o militare) si sarà meritato il «gemito universale». Per un personaggio pubblico le lacrime sono l’ultimo barometro della popolarità. Terminato il lutto, la vita riprende i suoi diritti, i romani ritrovano la strada del foro e l’imperatore appena designato può fondare la propria legittimità nascente sulla sepoltura riservata al predecessore. L’ordine sociale e religioso appare così ristabilito.»
«In tempi normali», tuttavia, «la religione romana preferisce le manifestazioni di gioia a quelle di dolore. Le lacrime sono un cattivo segno. Per i romani la tristezza non è bella a vedersi, non è una raffinata melanconia: è propriamente funesta. […] Hanno il torto di ricordare, anche senza volerlo, un contesto funebre, e questo può nuocere. I romani devono fare attenzione a non provocare la sciagura (individuale o collettiva) comportandosi come se fossero in lutto senza esserlo.»
Sono pochi i casi in cui le lacrime svolgono una funzione rituale; tra essi le supplicationes, «un processo collettivo, programmato dalla Repubblica, che mobilita ampiamente i cittadini, soprattutto le matrone» affinché intercedano «presso gli dèi al fine di ottenerne le grazie.»
Ma è in politica che le lacrime mostrano tutta la loro efficacia: «La politica romana è questione di sentimenti. Sotto la Repubblica e sotto l’Impero, le emozioni, che si producono per essere messe in mostra e più tardi raccontate, regolano le tensioni sociali. La vita pubblica esige un impegno di tutto il corpo: l’uomo di Stato tanto quanto il comune cittadino si gettano nella realtà a piè pari, senza risparmiarsi. In questo registro affettivo le lacrime servono a tutto e al contrario di tutto: a volte salvano chi, sciolto in lacrime, cerca di farsi compatire; altre volte ne provocano la condanna. […] La supplica rappresenta quindi un passo politico rischioso. E i romani non consolano tendendo un fazzoletto, bensì piangendo di fianco all’afflitto che giudicano degno di pietà, invitandolo a cessare le lacrime prima di prestargli soccorso e assistenza. Conflitti nazionali o internazionali possono trovare così la loro risoluzione. I nemici di ieri sono riconciliati – in qualche modo – dalle lacrime. Accade per esempio in alcune scene di guerra: come eroi dell’Iliade, i generali piangono sulla loro vittoria per non finire vittime del destino.»
«Roma era una società «piangente». Le reiterate menzioni di lacrime nei testi bastano a convincersene.» Questo testo ci riavvicina alla sensibilità dei romani fornendo una «mappatura delle effusioni romane». A Roma il pianto serve «a dichiararsi innocente, a negoziare, a tramare, a rammaricarsi, a invocare vendetta», le lacrime «attraversano i regimi uno dopo l’altro. Ricompaiono instancabilmente. Sono là. Sunt lacrimae rerum, scrive Virgilio. Tutto piange.»