“Le iscrizioni in latino di Roma Capitale (1870-2018)” di Antonino Nastasi

Le iscrizioni in latino di Roma Capitale (1870-2018), Antonino NastasiLe iscrizioni in latino di Roma Capitale (1870-2018)
di Antonino Nastasi
Edizioni Quasar

«L’Urbe, come nessun’altra città, presenta sulle superfici di edifici, chiese e monumenti una moltitudine di iscrizioni di ogni tipo, aspetto ed epoca (con una densità che si dirada progressivamente dal centro alle periferie) tale da rendere la scrittura esposta un segno caratteristico e distintivo del paesaggio urbano. Per questa sua peculiarità a buon diritto Roma può quindi essere considerata caput mundi anche per quanto riguarda l’epigrafia, in particolare – com’è naturale – di lingua latina.

Quella dell’epigrafia latina a Roma è infatti una storia plurimillenaria, che soltanto in apparenza può sembrare definitivamente conclusa. Sembra quasi paradossale, eppure la breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870, rappresentò, oltre all’annessione della città al regno sabaudo, anche l’inizio di un nuovo e sorprendente capitolo di questa vicenda: quello delle iscrizioni in latino di ambito laico e civico realizzate dopo l’unità con l’Italia […] Nel giro di una settantina d’anni – dal 1870 al 1940, per limitarsi al periodo in cui tale fenomeno ha visto il più evidente dispiegarsi – Roma ha così acquisito un patrimonio epigrafico che, pur richiamandosi con tutta evidenza al passato a partire dalla scelta della lingua, era sostanzialmente nuovo per contenuti, forme, committenti, destinatari […] così come nuovi erano il ruolo della città, ormai capitale dello Stato unitario, e l’humus sociale dei suoi cittadini, appartenente sempre più a un ceto impiegatizio e borghese. […]

Il ruolo degli architetti fu determinante per lo sviluppo di questa specifica produzione epigrafica. Infatti il più delle volte già nei progetti e nei disegni preparatori appaiono sequenze alfabetiche, se non addirittura frasi di senso compiuto (a volte effettivamente iscritte), nelle parti dei prospetti esterni degli edifici deputati ad accogliere testi epigrafici. […] Fu così che, non soltanto per la spinta degli architetti ma anche per la volontà dei committenti, i palazzi di Roma presero a “parlare” latino, tanto che sembra possibile affermare che avere un’iscrizione sulla propria casa potesse essere considerato uno status symbol da parte della piccola e media borghesia, che vedeva probabilmente in queste epigrafi un elemento di autocelebrazione, promozione e distinzione sociale.

[…] con il passare degli anni si verificò un certo incremento dell’uso del latino anche nelle epigrafi di committenza pubblica, secondo una tendenza certamente acuita dallo scoppio della Grande Guerra. Com’è noto il conflitto alimentò le rivendicazioni e i sentimenti del nazionalismo che, nel solco del mito della Terza Roma, vide nella guerra l’occasione di mostrare che nell’Italia e nel suo esercito si rinnovava lo spirito dell’antica Roma conquistatrice del mondo. Questa temperie culturale non poté che favorire l’impiego di locuzioni latine nel discorso pubblico così come nell’epigrafia […]. Tale mutamento è epigraficamente evidente sul Vittoriano, che è il monumento nazionale per eccellenza. Quando fu inaugurato in occasione del primo cinquantennio di vita del regno, nel 1911, le sole iscrizioni presenti su di esso erano quelle sul basamento della statua equestre di Vittorio Emanuele II, naturalmente in italiano; dieci anni più tardi, una guerra mondiale dopo, la dedica al Milite Ignoto, che rappresenta tutti i soldati italiani morti di cui non fu possibile identificare le spoglie, posta al centro dell’Altare della Patria, non a caso sotto la statua della Dea Roma, fu iscritta paradossalmente in latino. E così in latino è anche il resto dell’apparato epigrafico del monumento, realizzato durante gli anni ’20 e ’30, quando ormai il potere politico era saldamente in mano al regime fascista. È chiaro infatti che l’impiego del latino, nell’epigrafia di carattere tanto pubblico quanto privato, fu avvantaggiato durante il Ventennio dalla propaganda di regime, poiché poteva facilmente essere visto come una delle tante manifestazioni del culto della romanità.

Il rapporto tra fascismo e realizzazione di iscrizioni in latino merita tuttavia una riflessione più profonda. Il senso comune e una percezione diffusa associano tout court tale fenomeno con l’avvento del regime, derubricandolo erroneamente e banalmente a una mera espressione dell’estetica e della mentalità fascista […]. In verità uno sguardo attento all’insieme della produzione epigrafica tra le due guerre rivela distintamente che tra il periodo precedente e quello successivo all’istaurarsi del regime la continuità è assai maggiore delle fratture. Il fascismo infatti si sovrappose e coincise con gli anni del “boom” epigrafico, senza però esserne una causa diretta. In realtà, anzi, bisogna in primo luogo osservare che nell’edilizia privata tale fenomeno raggiunse l’acme alla fine degli anni ’20 per poi scemare subito dopo, proprio negli anni ormai tradizionalmente definiti “del consenso”, nei quali il regime, al contrario, raggiunse la sua massima popolarità: l’elevata produzione di iscrizioni in latino fu allora in qualche modo frutto dello stesso clima sociale che favorì l’ascesa del fascismo e preparò il terreno a quel consenso, ma non ne fu la conseguenza, mentre la sua parabola cronologica ha più a che fare, come già detto, con la storia dell’architettura romana che con quella della politica nazionale. Il regime quindi non fece altro che servirsi in modo strumentale di un’attitudine già presente nella cultura architettonica e letteraria dell’epoca e sfruttare l’enorme potenziale comunicativo della scrittura esposta come mezzo di propaganda per veicolare la propria ideologia.

L’idea che questa stagione dell’epigrafia romana sia eminentemente fascista si è quindi con tutta evidenza formata alla luce della cronologia di gran parte delle iscrizioni prodotte dopo il 1870; tuttavia sono poche quelle che possono essere definite “fasciste” per il contenuto esplicito dei testi al di là di quanto risulta implicito da cronologia, committenza e contesto architettonico e urbanistico. Infatti testi latini d’argomento che si possa univocamente considerare fascista sono piuttosto rari […]. In molti altri casi invece il contributo del fascismo fu quello di adoperare per lo più citazioni da autori classici […], per le quali era il contesto a dare al testo la chiave di lettura, e questa inevitabilmente era quella suggerita dalla propaganda: l’esaltazione di una romanità di maniera e della presunta continuità tra Roma Imperiale e Italia fascista. Ma dopo che tali lenti ideologiche si sono infrante insieme al regime, quel che resta sono frasi e brani dei massimi autori della latinità, i cui contenuti non possono essere certo definiti fascisti.

Quanto alle novità apportate dal fascismo, sicuramente ci fu un mutamento nelle forme grafiche […] ma tale trasformazione solo indirettamente si deve al regime, mentre è diretta conseguenza dell’affermarsi di una nuova e più moderna architettura, questa sì promossa direttamente dal fascismo. Il regista di questa rivoluzione architettonica fu Marcello Piacentini, il quale però, come si è già detto, aveva l’abitudine di corredare i suoi edifici con motti e frasi latine (dovuta alla sua formazione accademica e all’esempio del padre Pio) ben prima di diventare l’“architetto del regime”: ciò dimostra ancora una volta quanto il ruolo degli architetti sia stato decisivo nello sviluppo dell’epigrafia di quegli anni. L’unico elemento di novità indubbiamente e direttamente introdotto dal regime nella prassi epigrafica del tempo fu, a partire dalla fine del 1926, la datazione secondo l’era fascista. Tale uso infatti si diffuse capillarmente e coinvolse l’intera cultura scritta, dalla burocrazia all’editoria fino all’epigrafia appunto, tanto che quasi tutti i palazzi dell’epoca, anche privati, a prescindere dalla presenza di ulteriori iscrizioni o di simboli fascisti, riportano tale datazione, insieme a quella tradizionale o anche senza.

Infine è importante sottolineare un aspetto: il fascismo, come tutti i regimi autoritari, traeva e cercava appoggio e consenso anche e soprattutto dalle masse popolari, per le quali il latino era per lo più poco comprensibile. Infatti, in realtà, l’epigrafia che fu fascista anche e specialmente nei contenuti fu ovunque soprattutto in italiano, con testi che riportavano, come noto, citazioni dei discorsi del Duce o motti molto diffusi nel Ventennio. Per Roma si pensi al quartiere dell’E42, oggi EUR, che presenta quasi esclusivamente iscrizioni in italiano; al Foro Italico, in cui soltanto un’epigrafe (all’interno per altro di un apparato musivo ricco di riferimenti all’antichità) è in latino […]. Tuttavia queste iscrizioni in italiano erano incise su pietra specialmente nei contesti monumentali, mentre il più delle volte erano effimere perché dipinte su intonaco o realizzate su materiale deperibile: di tale produzione epigrafica naturalmente è rimasto molto poco e se ne individuano ancora alcune tracce soprattutto nei piccoli paesi e nelle campagne26. Si può dunque concludere che la politica fascista in generale abbia privilegiato nella scrittura esposta l’uso della lingua italiana, per il contenuto stesso delle epigrafi e per una più immediata comprensione del messaggio, e che abbia invece adottato il latino solo in specifici contesti fortemente marcati da un punto di vista ideologico o già connotati da una consolidata tradizione epigrafica in latino antica e recente, quindi a Roma di più che altrove.

A ogni modo il retaggio fascista fu sicuramente una delle concause che nel secondo dopoguerra portò al rapido esaurimento dell’epigrafia in latino: si trattava infatti di una delle inevitabili conseguenze dell’utilizzo ideologico e propagandistico che il fascismo aveva fatto sia della scrittura esposta sia più in generale della latinità e della romanità imperiale. Per quanto riguarda le iscrizioni su edifici residenziali privati però i motivi di ordine architettonico furono più determinanti di quelli di ordine culturale. […] In ambito pubblico invece si assiste a una più lunga durata – o meglio a una più lenta cessazione – del fenomeno. […] I veri anni che fecero da spartiacque non sembrano quindi essere stati quelli drammatici del 1943 o del 1944, ma piuttosto quello festoso delle Olimpiadi del 1960 […]. Che la produzione epigrafica in latino nella Roma postunitaria si spenga proprio agli inizi degli anni ’60 non può quindi stupire. Gli anni successivi videro infatti una critica progressivamente sempre più radicale ai valori e alle gerarchie sociali vigenti ed ebbero tra gli obiettivi anche un sistema scolastico nel quale il latino era il simbolo di tutto ciò doveva essere cambiato […].

È con un certo stupore dunque che si constata, dopo trent’anni di silenzio, che dagli anni ’90 a oggi vi è stato un risveglio del fenomeno. Le iscrizioni realizzate in questo più recente lasso di tempo hanno sì un carattere maggiormente episodico e sono a volte legate a contesti tali da rendere comprensibile anche la scelta della lingua latina, eppure non può che sorprendere in anni come questi la vitalità di una lingua troppo spesso data non solo per morta ma addirittura per sepolta. Tra queste epigrafi vi sono ad esempio quelle della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Tor Vergata, che dialogano a distanza di tempo e di spazio con quelle della Città Universitaria della “Sapienza” […] Non è per ora possibile dire se questa ripresa, per quanto sporadica e occasionale, avrà continuità nei prossimi anni o meno, ma la storia passata lascia presagire che è sempre troppo presto per scrivere la parola “fine”.»

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