“Le gioie del sanscrito” di Giovanna Ghidetti

Dott.ssa Giovanna Ghidetti, Lei è autrice del libro Le gioie del sanscrito edito da Neri Pozza: innanzitutto, perché studiare un idioma antico dell’India, tanto lontano nel tempo e nello spazio?
Le gioie del sanscrito, Giovanna GhidettiIl sanscrito è una tra le lingue attualmente parlate più antiche al mondo: ne esistono testimonianze risalenti al 1500 a.C., quando è attestata in India come lingua rituale e letteraria. Ma non è esatto dire che sia lontana nel tempo e nello spazio. Innanzitutto perché è studiata e usata ancora oggi come strumento di cultura e di fede, e anche come lingua di prestigio: si insegna nelle scuole e nelle università di tutto il mondo e viene utilizzata come mezzo di comunicazione internazionale in ambienti accademici e religiosi.

In sanscrito è composta una moltitudine straordinaria di opere religiose, trattati filosofici, poemi epici e lirici, drammi teatrali ma soprattutto una gigantesca messe di testi scientifici che hanno costituito per millenni il crocevia tra le culture orientali e quelle occidentali, veicolo di saperi dei quali la nostra civiltà è tuttora impregnata.

Nell’evoluzione linguistica il sanscrito precede la hindī e altre lingue moderne del subcontinente indiano, così come il latino precede le lingue romanze. Tuttavia è difficile collocarla tra gli idiomi antichi: non è una lingua naturale, ma non è certo artificiale né tanto meno è tenuta in vita artificialmente. Esiste la lingua sanscrita ma non esistono “i sanscriti” né un “popolo sanscrito”. Viceversa, gli indiani sono gli abitanti dell’India e parlano molte lingue, ma non esiste la “lingua indiana” o peggio ancora “l’indiano”.

Dal punto di vista storico e formale, è una lingua esemplare in quanto «perfettamente confezionata» (saṃskṛta), ovvero sancita da studi grammaticali minuziosissimi.

Però è anche un regno dei paradossi: non è una lingua morta, ma non è per nessuno una lingua madre. È antica di millenni, ma è sempre appresa come una seconda lingua. È tuttora uno degli idiomi ufficialmente riconosciuti dalla costituzione indiana, ma non esiste un luogo preciso in cui si parli. È una delle lingue culturalmente più prestigiose del mondo, esiste persino una versione di Wikipedia in sanscrito: ma in Google Translate non c’è.

Quali caratteristiche rendono straordinario il sanscrito e la sua grammatica?
Per chi studia le lingue, il sanscrito costituisce una sfida affascinante. Una scrittura complessa, a metà tra quella sillabica e quella alfabetica. Una fonetica minuziosamente classificata. Un numero indefinito di declinazioni per i diversi temi nominali, con otto casi: nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo, ablativo, locativo e strumentale.

Dieci classi verbali, sei tipi di participio, tre numeri, tre diatesi (singolare duale plurale, attivo medio passivo); e per ogni verbo oltre alla coniugazione primaria (agisco) c’è anche quella causativa (faccio agire), desiderativa (desidero agire), intensiva (continuo ad agire); oltre ai verbi denominativi, derivati cioè da un nome (azionare).

Ma è nella capacità di creazione delle parole, attraverso meccanismi di derivazione e di composizione, che si dispiega l’immensa potenza e l’originalità sofisticata di questo idioma. La relazione tra gli elementi di un’azione, di un accadimento, di una situazione – insomma la rete semantica di cui va in cerca non solo l’etimologista ma anche chi progetta o studia l’intelligenza artificiale – può essere espressa implicitamente nella costruzione di una parola. Le relazioni logiche tra gli atomi di senso, in questa lingua raffinatissima non rientrano nella formazione della frase ma nella formazione della parola: la morfologia è sintassi.

Anche le teorie letterarie classiche si basano sul sottile rimando di significati tra ciò che è esplicito e ciò che è implicito. Nei componimenti artistici era molto apprezzato il gioco di parole, l’inganno d’ombra e luce sul significato, che fosse linguisticamente celato nella formazione della parola oppure che fosse alluso in un senso secondario del termine o ancora fosse deducibile solo dal contesto. Stuoli di commentatori e traduttori si sono misurati nella comprensione e nell’esegesi di parole che, a seconda di come si sciolgano i composti, possono avere significati molto differenti. Se poi si aggiungono le complicate figure retoriche e le architetture di doppi sensi e ambiguità, la possibilità di lettura dei testi si moltiplica. Ogni termine accostato agli altri sa generare ulteriore senso che può riverberare usi antichi, significati traslati, citazioni implicite, allusioni mitologiche, metafore e metonimie, ossimori e paradossi, accostamenti suggestivi: in un caleidoscopio affascinante e ipnotico.

In che modo il sanscrito rappresenta uno strumento fondamentale per capire il funzionamento del linguaggio e della mente umana?
La complessità talvolta è solo un modo un po’ più lungo e preciso di rappresentare le cose, semplici sempre solo in apparenza. E così anche lo studio di questa lingua affascinante – o meglio della sua grammatica – si rivela in realtà un metodo per studiare il linguaggio e i suoi meccanismi.

I grammatici indiani, infatti, sin dal V secolo a.C. hanno analizzato i fenomeni ricorrenti nella umana comunicazione e ne hanno steso una descrizione minuziosissima.

Il più autorevole tra loro, Pāṇini, è stato anche il massimo linguista dell’antichità, e forse oltre: è quello che ha lasciato la più completa e sistematica analisi del funzionamento di una lingua, ed è colui che ha posto le basi della moderna filosofia del linguaggio. Anche per questo, lo studio non solo della lingua sanscrita ma soprattutto della linguistica indiana è di strettissima attualità.

Pāṇini infatti non redige una grammatica prescrittiva, ovvero con tutte le indicazioni per poter parlare correttamente, ma una grammatica descrittiva della lingua esistente. Quindi non esprime norme precise a proposito di precise parole come siamo abituati a imparare nelle nostre scuole, ma con metodo scientifico ricava dall’osservazione una classificazione precisa degli elementi che la compongono e un’analisi delle trasformazioni che in questi elementi avvengono nel formare le parole e le frasi. Da tale osservazione desume le leggi, analoghe a quelle della fisica, che serviranno per creare potenzialmente qualsiasi parola o frase e dunque esprimere qualunque concetto possibile. Proprio come fa la matematica che non analizza specifiche combinazioni di numeri ma individua e verifica regole universali, che permettano di compiere le stesse operazioni con qualsiasi possibile combinazione di numeri.

Quali vicende hanno accompagnato la scoperta di questa «lingua perfetta»?
La conoscenza del sanscrito in Occidente ha seguito diverse correnti in diversi momenti ed è stata oggetto di mistificazioni e falsi miti. Quando iniziarono gli studi comparativi sulle lingue antiche, fu erroneamente considerata la progenitrice delle altre lingue indoeuropee. Il comparativismo linguistico, però, consisteva prevalentemente nel raccogliere elementi lessicali, morfologici o fonologici nelle diverse lingue e confrontarli per poter ricostruire a ritroso l’evoluzione degli idiomi classici. Gli studi europei erano allora concentrati sulle lingue occidentali, e così la conoscenza del sanscrito non fu un obiettivo in sé ma divenne la chiave strumentale che apriva le porte della glottologia: conoscere il sanscrito negli ambienti accademici era segno di competenza, e nei salotti colti un vezzo molto elegante.

Seguì poi la fase degli studi indologici, concentrati sul contenuto delle opere religiose e filosofiche come il Ṛgveda, le Upaniṣad e laBhagavadgītā o il pensiero alla base del buddhismo. Questo fece conoscere in Occidente molti testi tradotti dal sanscrito, ma d’altra parte offuscò e ritardò la conoscenza delle opere scientifiche, soprattutto quelle matematiche ma anche mediche, fisiche, astronomiche e ingegneristiche, che già erano filtrate in Europa attraverso le traduzioni arabe, ma che in gran parte rimangono ancora da riscoprire. L’imperialismo britannico e la predicazione religiosa, poi, offuscarono le conoscenze sulle opere mitologiche e devozionali di cui la cultura asiatica è intrisa.

In tempi più recenti infine, se da un lato la linguistica, gli studi di logica e persino le ricerche informatiche stanno riscoprendo le basi della speculazione in sanscrito, d’altro canto si assiste a un fenomeno di avvicinamento molto divulgativo dovuto alla diffusione dello yoga e delle pratiche di meditazione che si richiamano a discipline indiane.

In che modo una cultura così apparentemente estranea è presente nella nostra vita quotidiana?
Esistono miriadi di occasioni per avvicinarsi a un’infarinatura di sanscrito, ma il livello e l’attendibilità scientifica sono molto varii. Oltre ai corsi universitari, si tengono lezioni amatoriali nei centri religiosi hindu e buddhisti, presso le associazioni di cultura orientale dove si pratica la meditazione o nelle scuole di yoga. Alcuni pretendono di instillare verità eterne, altri più umilmente si propongono di insegnare a pronunciare correttamente i termini tipici della disciplina e a conoscerne il significato. Altri fanno riferimento alla passione per l’etimologia o si rivolgono a devoti cui promettono di leggere e tradurre testi religiosi o di addentrarsi nella filosofia buddhista o nella mitologia hindu. Diffusi sono corsi esoterici che attraversano tutte le culture e le lingue ripercorrendo miti universali.

Oltre alle discipline orientali, però, molto della cultura indiana è già presente e radicato nella nostra vita di tutti i giorni: concetti matematici e astronomici ereditati dagli studiosi medioevali – quali lo zero, l’infinito e i numeri irrazionali – e non solo la logica che sta alla base della moderna filosofia del linguaggio e degli sviluppi tecnologici.

E inoltre oggetti di tutti i giorni, che sono arrivati a noi dall’Oriente ereditando i loro nomi da questa lingua bellissima: lo zucchero e il riso, la giungla e lo shampoo, il sandalo e l’arancia. Ma persino concetti più complessi come mantrakarma e avatarnirvana e guru. E purtroppo anche termini completamente travisati che ci hanno lasciato un ricordo tragico – quali il concetto di razza ariana e il simbolo della svastica – frutto di una manipolazione tutta europea che nulla ha a che fare con l’origine sanscrita delle parole.

Giovanna Ghidetti, giornalista e scrittrice, è esperta di lingue antiche e contenuti digitali. Ha studiato linguistica e sanscrito a Milano e Parigi e tecnologie al Politecnico di Milano. Ha traversato varie volte l’Atlantico a vela e vinto il premio Marincovich per la cultura del mare. È autrice, fra l’altro, di Linguistica (Milano, 2001) e coautrice di Naufragi, storia d’Italia sul fondo del mare (Milano, 2017).

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