
Nel Suo libro Lei traccia la storia dell’oggetto libro: in che modo e perché si è arrivati alla forma attuale?
I nostri libri cartacei sono oggetti direttamente derivati dal codice, che cominciò a sostituire il rotolo (ampiamente utilizzato per la trasmissione di testi letterari nel mondo greco-romano) intorno al I sec. d.C. Le ragioni più semplici e immediate della progressiva supremazia del codice furono probabilmente quelle di ordine pratico (dalla maggiore capienza alla superiore versatilità, data dalla sua costituzione in fascicoli); occorre considerare, inoltre, che il codice riprendeva la forma del supporto più tipico della tradizione romana, la tabula, adoperata quotidianamente per scrivere conti, ricevute, messaggi, sostituita da un oggetto che utilizzava materiali molto più leggeri e dotati di un miglior grado di leggibilità come il papiro o la membrana. Infine, vi furono certamente motivazioni di carattere simbolico: il libro «a pagine» era percepito come un oggetto diverso e contrapposto al rotolo e alla sua grande tradizione, strettamente legata alla cultura ufficiale pagana, ed esprimeva simbolicamente la nascita di un nuovo mondo che comunicava attraverso un nuovo modello di libro: la civiltà del cristianesimo.
Prima dell’invenzione della stampa i libri erano copiati a mano: ritiene che la diffusione dei supporti digitali, computer e smartphone, produrrà una sorta di analfabetismo di ritorno? Perderemo le abilità di scrittura manuale?
Alla fine del ‘400, nel momento in cui il libro a stampa affiancò e poi sostituì il libro manoscritto, l’uso della scrittura a mano non fu penalizzato, ma potenziato dallo sviluppo della nuova tecnologia, che provocò una più ampia diffusione dell’alfabetismo; c’è da considerare, inoltre, che fin dalle origini della stampa sorse una produzione “popolare” (data ad esempio da almanacchi o libretti di contenuto pratico) che prevedeva una forte interazione tra scrittura tipografica e scrittura a mano. Il quadro attuale appare sostanzialmente diverso: il rischio di “dimenticare” la pratica della scrittura manuale è concreto, anche se la partita si giocherà soprattutto nell’ambito della scuola. E, almeno per ora, al di là degli esperimenti condotti in alcuni paesi europei come la Finlandia, in cui imparare a scrivere a mano non è più obbligatorio, nelle aule scolastiche si continuano ad usare carta e penna. In ogni caso, la questione non deve essere valutata in un’ottica puramente funzionale: la prassi dell’autografia rappresenta un’espressione insostituibile della nostra identità personale e per questa ragione c’è da augurarsi che duri ancora a lungo.
Lei parla delle varie forme che il libro ha assunto nella storia: volumen, codex, tutti termini che, nella loro derivazione italiana (volume, codice) sono oggi divenuti sinonimi di libro. Cosa significavano in origine e da cosa deriva il termine “libro”?
La parola volumen indicava il rotolo e deriva dal verbo latino volvo, che indicava le azioni di svolgimento e avvolgimento richieste dal suo uso (il lettore lo prendeva nella mano destra e, sollevando con la sinistra la sua parte iniziale iniziava a srotolarlo: la destra aveva il compito di svolgere la parte ancora da leggere e la sinistra di riavvolgere la parte già letta). Quanto al termine codex, deriva dal latino caudex, che in origine significava «tronco» e in seguito passò ad indicare il libro di tavolette e, per estensione, il codice su supporto morbido. Ad esso si lega anche la parola libro, dal latino liber, che indicava la parte interna della corteccia che, se opportunamente disseccata, poteva essere utilizzata come supporto scrittorio.