“Le figlie di Abramo. Una lunga storia: dai testi sacri ai diritti civili” di Massimo Annati

C.A. Massimo Annati, Lei è autore del libro Le figlie di Abramo. Una lunga storia: dai testi sacri ai diritti civili, edito da Jouvence: in che modo Ebraismo, Cristianesimo e Islam trattano e considerano la donna?
Le figlie di Abramo. Una lunga storia: dai testi sacri ai diritti civili, Massimo AnnatiPrima di rispondere c’è bisogno di una breve premessa. Non c’è un unico Ebraismo, Cristianesimo o Islam. Nel tempo e nei diversi Paesi ci sono stati significativi cambiamenti, e lo stesso si può dire, nell’ambito di uno stesso Paese, per le profonde differenze talvolta esistenti tra chi appartiene a diversi gruppi sociali e culturali, oltre che alle varie ramificazioni della religione. Quindi quando parliamo di Islam è molto diverso se si considera il punto di vista di un contadino pachistano o di un professionista turco. Pur partendo da un unico testo sacro vi sono state innumerevoli interpretazioni ed evoluzioni. Lo stesso si può dire nelle terre dell’Occidente cristiano, dove l’atteggiamento della società è sensibilmente diverso rispetto ai dettami della Chiesa, in particolare quella Cattolica.

Detto ciò, bisogna però osservare che le impostazioni originarie hanno comunque lasciato una profonda impronta: in molti dei Paesi dell’Islam la donna è considerata un’eterna minorenne, costantemente sottoposta alla tutela di un familiare maschio. In numerosi sistemi giuridico-religiosi vengono esplicitate anche formalmente delle notevoli differenze che attribuiscono alla femmina un valore diverso, e inferiore, rispetto al maschio: tanto in tribunale, quanto in famiglia.

Nell’Occidente cristiano, invece, l’Illuminismo e le varie Rivoluzioni hanno gradualmente portato donne e uomini ad avere i medesimi diritti e doveri davanti alla legge civile. È stato un percorso molto lungo, sofferto, e non ancora completamente compiuto, ma i profondi cambiamenti esistenti rispetto a soli 50 anni fa sono evidenti. Il comportamento sociale, la percezione di giusto/sbagliato e la cultura hanno influenzato il diritto e la religione (qui intesa come le norme “ufficiali” della Chiesa) e ne sono stati a loro volta influenzati, dando luogo ad una evoluzione che, sia pur con diverse velocità, mostra comunque una comune direzione.

Qual è la presenza ed il ruolo delle donne nei “testi sacri” e nel culto religioso?
In questo campo le differenze tra le tre religioni abramitiche sono notevoli, e da qui conseguono inevitabilmente delle profonde differenze sul piano sociale. Sia nella Torah che nei Vangeli vi è una notevole presenza femminile: le donne hanno ruoli importanti, sono figure di riferimento, che hanno contribuito a costruire le basi stesse su cui le società giudaico-cristiane sono state costruite. Basti pensare all’importanza delle matriarche per gli Ebrei e di figure come quelle di Maria o della Maddalena per i Cristiani. Tuttavia in confronto alle Scritture i commenti dei rabbini sono molto più chiusi, severi con le donne, e lo stesso accade nella cristianità. Anzi, nei Vangeli è singolare la familiarità mostrata da Gesù con le donne, del tutto insolita per la cultura ebraica del tempo, al punto che i discepoli più volte se ne stupiscono e arrivano addirittura a rimproverarlo. Poi le interpretazioni di san Paolo e quelle di generazioni di padri della Chiesa si sono sovrapposte ai Vangeli arrivando a creare per molti secoli una cultura fortemente maschilista che nulla ha a che vedere con quanto possiamo desumere dai Vangeli. Primo tra tutti l’esclusione delle donne dal sacerdozio e dalla predicazione, mentre tra i discepoli figuravano anche donne, e proprio soltanto alle donne si deve l’annuncio della Risurrezione.

Per l’Islam la cosa è parzialmente diversa. Secondo la religione musulmana, il Corano è stato rivelato direttamente da Dio, parola per parola, e non è quindi interpretabile. Di conseguenza per le “femministe” islamiche è difficile cercare di opporsi o di interpretare norme coraniche che esplicitamente subordinano la donna all’uomo senza rischiare l’accusa di apostasia. Vi sono tentativi di apertura, ma sono ancora davvero sporadici.

Nel Cristianesimo l’ordinamento sacerdotale delle donne è consentito soltanto nelle Chiese riformate, in quella Anglicana e per i Valdesi; per l’Ebraismo il rabbinato è aperto soltanto in alcune comunità riformate; nell’Islam le donne imam-mullah-ulema sono pochissime. Nel complesso, ancora oggi, le religioni sono più chiuse, molto più chiuse, di quanto siano le corrispondenti società civili.

Quali aspetti definiscono l’inferiorità femminile nelle norme che disciplinano matrimonio e divorzio nelle tre religioni?
Il diritto di famiglia è probabilmente il primo e più evidente strumento di misura delle disuguaglianze di genere. È anche interessante osservare la co-esistenza in molti Stati di norme religiose e di norme civili, che pur essendosi spesso originate dalle prime, se ne sono poi distaccate. Ad esempio, in gran parte dell’Europa contemporanea il matrimonio religioso e quello civile sono due eventi assolutamente distinti, tanto che l’autorità civile non riconosce gli atti di quella religiosa, e viceversa. Per parlare di divorzio è bene ricordare la differenza tra ripudio e divorzio. Il ripudio islamico ed ebraico è un atto unilaterale, non necessariamente motivato, con cui il marito pone fine al matrimonio. Il giudice – civile o religioso – si limita a verificare che la comunicazione alla sposa sia avvenuta secondo le norme, sia stata pagata la somma risarcitoria prevista dal contratto matrimoniale, e che ci sia un tempo di “garanzia” per assicurarsi che non vi sia una gravidanza in corso. Nel divorzio, invece, l’iniziativa può essere di una delle due parti, o di entrambe, ed è il giudice, sentite le parti, a sancire l’avvenuta conclusione, dopo che siano state rispettate le procedure di separazione, tentativi di riconciliazione, eventuale addebito per colpa, determinazione delle conseguenze patrimoniali e sulla custodia dei figli, ecc. Nell’Ebraismo la donna può essere ripudiata senza alcuna motivazione. Qualora chieda il divorzio il marito può negarglielo senza alcun limite temporale, lasciandola nella situazione di “donna incatenata” (agunath), ovvero a cui è negato non solo un nuovo matrimonio, ma anche la conclusione dell’esistente. È solo dal 2010 che in Israele esiste il divorzio “civile”, ma è limitato alle coppie che non risultino formalmente affiliate ad alcuna religione. Nell’Islam la discriminazione raggiunge aspetti ancora più esasperati: l’uomo può sposare più mogli, può ripudiare la moglie senza alcuna condizione, mantiene la custodia sui figli non appena questi abbiano superato l’infanzia. La donna è oggetto, non soggetto, del contratto matrimoniale, che viene stipulato tra il marito ed il tutore/custode della donna. Una donna musulmana può sposare solo un uomo musulmano, tanto che in caso contrario è necessaria una preventiva conversione formale, mentre l’uomo può sposare anche donne cristiane o ebree. Secondo il diritto civile di molti Paesi, mutuato dalle norme tradizionali, la moglie è soggetta al diritto di correzione da parte del marito, anche attraverso percosse e punizioni, è obbligata all’obbedienza e deve soddisfare incondizionatamente i desideri sessuali del marito. La donna ha diritto alla metà della quota ereditaria che spetterebbe ad un maschio. Vi sono poi addirittura casi in cui sono previste tipologie di “matrimonio a tempo”, che non tutelano minimamente la donna, neppure in caso di gravidanza.

Nel caso di Musulmani che vivono in Occidente, visto che alcuni comportamenti sono leciti secondo la Sharia e le leggi dei Paesi di origine, ma sono decisamente contrari all’ordinamento giuridico e al comune senso del lecito, possono evidentemente sorgere dei seri problemi.

Come disciplinano la poligamia (o meglio, la poliginia…) le tre religioni abramitiche?
La poliginia (un marito con molte mogli, non viceversa) è più volte descritta dall’Antico Testamento, ma è non era regolamentata ed è stata comunque bandita da molto tempo, sia presso i Cristiani che presso gli Ebrei. Nell’Islam invece è consentita dall’ordinamento della maggior parte degli Stati. La regola coranica prevede un massimo di quattro mogli; vengono però poste condizioni importanti, quali il dovere di trattare in modo equo tutte le mogli, al punto che secondo una moderna corrente interpretativa la poliginia dovrebbe esistere solo in condizioni d’emergenza, per assicurare la tutela a orfani e vedove. La realtà è comunque diversa, visto che nella quasi totalità dei Paesi dell’Islam vengono spesso poste delle condizioni limitative alla poligina. In generale un giudice deve valutare se sussistono le condizioni per un ulteriore matrimonio (sufficienti risorse economiche, casa adeguata), e se il contratto matrimoniale con la prima moglie preveda o meno clausole restrittive. In qualche Paese gli ulteriori matrimoni sono soggetti all’autorizzazione esplicita della prima moglie, oppure sono vietati ad alcune categorie (funzionari pubblici, militari). Vi è comunque una notevole variabilità di norme civili ed in ogni caso oggi la percentuale di unioni poligamiche è molto ridotta, salvo che nella Penisola Araba e in alcune zone dell’Africa sub-Sahariana. Da notare che laddove esistano i “matrimoni temporanei” queste unioni non entrano nel computo delle quattro mogli, creando un’ulteriore discriminazione, visto che l’uomo può collezionare a piacimento mogli temporanee (ovvero spesso unioni formalmente legalizzate con amanti o prostitute), ma alla donna è assolutamente vietato.

Cosa stabiliscono le tre religioni riguardo al velo?
In questi ultimi decenni il velo, per la sua visibilità, ha assunto un ruolo più ideologico che religioso. Basterebbe forse dire che nessuno può imporlo e nessuno dovrebbe vietarlo, ma le cose non sono così semplici. In realtà, a partire dalla fine degli anni ’70 con la diffusione dell’Islam più integralista, inizialmente finanziato dalle monarchie del Golfo, si è assistito quasi ovunque ad una crescita sensibile del numero di donne velate. Vi sono Paesi dove è obbligatorio per tutte le donne, come in Iran, ed altri dove dall’obbligo sono escluse le straniere. Non esiste però alcun passo del Corano, né tantomeno alcun Hadith (l’enorme raccolta di quel che Mohammad ha detto o fatto nelle diverse circostanze) che prescriva un velo integrale, e neppure che stabilisca il colore nero o la presenza di guanti. La norma coranica si limita testualmente a invitare le credenti a “coprirsi con i mantelli”, ad essere caste, ad abbassare gli occhi, a coprire il seno con un velo, a non mostrare i propri ornamenti (o le “parti belle” secondo un’altra interpretazione), e a non battere il piede per mostrare gli ornamenti nascosti. Nulla di più. Anzi, Mohammed avrebbe rimproverato un compagno che fissava con insistenza una bella giovane, dicendo a lui di distogliere lo sguardo, e non a lei di coprirsi. Il velo è invece divenuto un simbolo. Indossato per sottolineare la propria religiosità, o per rivendicare l’appartenenza ad una determinata comunità, oppure imposto con la forza sul capo delle donne. Visto l’evidente contenuto ideologico del velo accade anche che quello integrale (niqab o burqa) venga esplicitamente vietato in diversi Paesi, sia dell’Islam moderato che dell’Occidente cristiano-laico. Per le donne cristiane il velo è stato a lungo obbligatorio per partecipare alle funzioni religiose, ma sono ormai molti decenni che, prima per consuetudine e poi per norma, è scomparso, tanto che oggi resta una scelta soltanto per alcuni ordini religiosi femminili. Per le Ebree la norma vieta alle donne sposate di mostrare i capelli ad altri che non siano il marito. Quindi nubili, divorziate e vedove sono esentate dal divieto. Tra le ultra-ortodosse residenti in America o in Europa è abbastanza diffusa l’abitudine ad indossare una parrucca, in modo da rispettare la lettera dell’obbligo, pur senza sembrare estranee alla società in cui vivono. In Israele, invece, sono diffusi fazzoletti, foulard e copricapi vari, mentre fino alla prima metà del XX secolo capitava di vedere donne ultra-ortodosse con veli non molto diversi da quelli utilizzati oggi dalle donne delle comunità integraliste islamiche.

Qual è la condizione femminile dal punto di vista lavorativo e sociale nei paesi musulmani?
Tanto il Corano, quanto i sistemi giuridici contemporanei di gran parte dei Paesi musulmani, nati dall’incontro tra Sharia e leggi importate dall’Occidente, assegnano alla donna un ruolo subordinato, con diritti e doveri diversi rispetto all’uomo. Non dovrebbe quindi stupire che anche nella società civile si incontrino queste differenze. Alcuni Paesi musulmani hanno addirittura rifiutato di ratificare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dove si parla di uguali diritti e libertà, senza distinzioni di sesso, religione, opinione politica, ecc., tanto da produrre in un secondo tempo una Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo. Nella quasi totalità di Paesi a maggioranza musulmana le leggi prevedono che le donne abbisognino, ancor oggi, dell’autorizzazione del “custode” (di volta in volta il padre, il marito, o un familiare maschio) per svolgere un lavoro, per studiare, o per viaggiare.

In questi ultimi anni vi sono stati diversi importanti miglioramenti, quale un maggior accesso delle donne al sistema educativo ed un progressivo allargamento della loro partecipazione al mondo del lavoro e delle professioni. Tuttavia è ancora opinione fortemente diffusa che la donna, se possibile, dovrebbe evitare di lavorare fuori casa. Non si dovrebbe però dimenticare che, da parte cristiana, ancora nel 1930 papa Pio XI definiva in un’enciclica il lavoro femminile extra-domestico come “pessimo disordine”, e che i primi quattro pontefici che hanno regnato nel XX secolo si sono apertamente espressi contro il voto alle donne.

Quali discrepanze si registrano, relativamente alla sessualità, tra il messaggio religioso e la pratica sociale?
Si può tranquillamente affermare che nel mondo reale, in cui tutti viviamo, vi siano profondissime differenze tra le regole enunciate dalla religione ed i comportamenti individuali. Nel campo dell’esercizio della sessualità questo è particolarmente evidente. Spesso si ritiene che le regole della legge, sia essa della Chiesa o del Parlamento, si fermino davanti alla porta della camera da letto, ovvero che la sessualità sia ormai divenuta un fatto esclusivamente privato. In Occidente questa opinione è stata gradualmente riconosciuta anche dalla legge civile a partire dalla seconda metà del XX secolo, eliminando progressivamente le norme che regolavano l’esercizio della sessualità. Un esempio può essere la cancellazione del reato di adulterio che era in precedenza previsto da quasi tutti gli ordinamenti. Ora si tratta solo, eventualmente, di una possibile attribuzione di colpa in caso di separazione/divorzio, ma senza alcuna conseguenza penale. Il caso dell’Islam è invece completamente diverso, visto che le relazioni sessuali prima o al di fuori del matrimonio sono un crimine espressamente previsto dallo stesso Corano e, di conseguenza, riconosciuto come tale anche dagli ordinamenti penali. In alcuni casi è addirittura prevista la pena di morte o la flagellazione. La Torah ebraica ha un’analoga posizione, ma oggi non c’è nessun rabbino, per quanto ultra-ortodosso, che proponga di lapidare gli adulteri…

Del resto, la Torah ed il Corano, ma anche le norme esistenti nell’antica Roma, stabilivano prassi come il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”, che prevedono implicitamente che la sessualità femminile non appartenga dalla donna stessa, ma alla sua famiglia. Val forse la pena di ricordare che in Italia queste due norme sono state abrogate soltanto nel 1981.

Al lato opposto si deve constatare che per l’Islam e per l’Ebraismo l’esercizio della sessualità coniugale è un dono divino, e la ricerca del reciproco piacere fa parte, in qualche modo, del processo di santificazione. Invece la Chiesa Cattolica, sin dai tempi di san Paolo, ha severamente criticato la sessualità, accettandola, sia pur a malincuore, esclusivamente per fini procreativi. È solo in epoca recente, molto recente, che si può riscontrare un diverso atteggiamento, più vicino alla natura umana. Bisognerebbe ricordare che nel Vangelo Gesù condanna con fermezza molti peccati, dalla mancanza di misericordia all’avidità, ma non parla mai di sessualità. L’unicità di questo atteggiamento della Chiesa Cattolica trova un ulteriore riscontro nella condanna della contraccezione, viso che consentirebbe di compiere un atto sessuale riducendo o eliminando la possibilità di una gravidanza, e quindi modificandone intrinsecamente la finalità, da riproduttiva ad affettiva o addirittura “ricreativa”. Per l’Islam – ed è forse una sorpresa per molti – la scelta degli anticoncezionali è assolutamente libera; Mohammad infatti affermava che se Allah ha deciso che da quel rapporto debba nascere una nuova vita, non sarà certo l’intervento dell’uomo ad impedirlo. All’epoca la scienza non offriva metodi certi, ma la norma è rimasta.

Infine, per quanto riguarda la differenza tra Islam e Cristianesimo, forse basterebbe ricordare che nel Paradiso cristiano gli angeli sono creature asessuate che cantano in eterno la gloria del Signore. Per l’Islam il paradiso offre 47 vergini per ogni uomo, mentre delle donne si tace.

Quale evoluzione è lecito attendersi, a Suo avviso, per le prescrizioni religiose relative alla condizione femminile?
Una buona sfera di cristallo aiuterebbe… Battute a parte, il mondo sta muovendosi nella direzione di una maggior uguaglianza tra uomo e donna. Non tutte le società ovviamente stanno cambiando con la stessa velocità e con la stessa profondità. Le leggi civili si stanno adeguando, pur con molte difficoltà, e queste leggi vengono progressivamente applicate e, soprattutto, percepite come giuste da una quota crescente della popolazione. Le religioni stanno anch’esse in larga misura adeguandosi, ma la velocità dei cambiamenti è sensibilmente più lenta di quella delle società. Questa differenza crea una crescente discrepanza. Nei Paesi a maggioranza cattolica molti dei fedeli accoglierebbero di buon grado l’ordinamento sacerdotale delle donne, così come hanno ormai accettato come giusta la contraccezione e l’esistenza di norme civili che regolano il divorzio, contrariamente al parere ufficiale della Chiesa. Nei corsi per i fidanzati tenuti nelle parrocchie la quasi totalità dei frequentatori ormai convive in modo stabile. È quindi forse solo una questione di tempo – anche se probabilmente non così breve – perché vi siano dei cambiamenti che riconoscano parte di questa evoluzione. Nel frattempo questa differenza porta molti ad allontanarsi dalla Chiesa, o comunque a non riconoscerne più l’autorità sul piano etico-sociale. Nelle società contemporanee Ebree e Musulmane si deve invece osservare una progressiva radicalizzazione, ovvero un maggior peso delle componenti più tradizionaliste ed integraliste. Le leggi civili stanno lentamente cambiando in senso più liberale, sulla spinta di movimenti femministi e della pressione di organizzazioni internazionali, ma parti sensibili dell’opinione pubblica non sono sempre favorevoli a questi cambiamenti, talvolta avvertiti come una minaccia alla stabilità della società tradizionale o, peggio ancora, come un cedimento alle pressioni di un Occidente percepito come ateo e moralmente corrotto. Del resto la mentalità non si può cambiare per decreto.

Massimo Annati è un contrammiraglio della Marina Militare in congedo. È stato a capo dell’ufficio di cooperazione internazionale e per 12 anni ha insegnato al corso per i Consiglieri giuridici della Difesa. È autore di diversi libri pubblicati da Mursia, Giuffrè, e come supplementi monografici della Rivista Marittima.
Da sempre interessato alla storia e al diritto, in questa ricerca ha esaminato i cambiamenti vissuti dalle donne delle tre grandi religioni monoteiste attraverso il passaggio dalle norme religiose a quelle civili, analizzando anche la cronaca ed i comportamenti quotidiani delle varie società nazionali.

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