“Le Feste Medicee del 1565-1566. Riuso dell’antico e nuova tradizione figurativa” di Nicoletta Lepri

Dott.ssa Nicoletta Lepri, Lei è autrice del libro Le Feste Medicee del 1565-1566. Riuso dell’antico e nuova tradizione figurativa edito da LoGisma: in occasione di quale evento si tennero le celebrazioni fiorentine del 1565-1566?
Le Feste Medicee del 1565-1566. Riuso dell'antico e nuova tradizione figurativa, Nicoletta LepriCosimo I de’ Medici, di cui ricorrono quest’anno i cinquecento anni dalla nascita, volle e studiò accuratamente le feste del 1565-1566 (semplicemente 1565 secondo l’anno fiorentino, che terminava il 25 marzo dell’anno successivo) in occasione delle nozze del figlio Francesco con la principessa Giovanna d’Austria, sorella dell’imperatore Massimiliano II.

Era la seconda occasione per la famiglia fiorentina dei Medici di imparentarsi con la stirpe imperiale, dopo il matrimonio del duca Alessandro de’ Medici, nel 1536, con Margherita d’Austria figlia naturale di Carlo V d’Asburgo. L’ambizione del Medici di imporre lo Stato fiorentino sulla scena europea erano tali da sollecitare, nell’organizzazione degli spettacoli, impareggiabile grandiosità di concezione, grande investimento economico, sforzo di novità ideativa. Tanto che le celebrazioni nuziali rimasero un modello e un ineludibile riferimento per gli analoghi eventi italiani ed europei.

Per quell’occasione furono compiute a Firenze anche altri importanti opere urbane destinate a rimanere patrimonio cittadino, quali il sollevamento e la pavimentazione dei lungarni su cui doveva passare il corteo della sposa al suo ingresso in città, e la decorazione di alcuni ambienti del palazzo ducale, Palazzo Vecchio. Si portò per esempio a compimento il soffitto a cassettoni della sala grande – il rinnovato Salone dei Cinquecento – , si decorò con affreschi e stucchi il primo cortile, che Cosimo il Vecchio aveva voluto far “riparare” troppo austeramente da Michelozzo a metà del Quattrocento. Si provvide inoltre alla canalizzazione e conduttura di acqua sorgiva per le nuove fontane cittadine e si avviarono i lavori di adeguamento alle norme del Concilio di Trento delle principali chiese cittadine appartenenti agli ordini mendicanti, Santa Croce e Santa Maria Novella. Infine l’artista di corte Giorgio Vasari progettò e costruì in appena cinque mesi il sorprendente passaggio sopraelevato tra la residenza ducale e Palazzo Pitti, il noto Corridoio vasariano.

Nell’entrata della principessa, il 16 dicembre 1565, gli allestimenti festivi compresero una serie di costruzioni effimere distribuite dal bastione della Porta al Prato fino a Palazzo Vecchio, una ventina tra archi di trionfo all’antica con inserti pittorici e scultorei, e iscrizioni in italiano e latino prodotte dagli intellettuali di corte Giovan Battista Adriani, Pietro Vettori e Fabio Segni. E poi statue isolate e tre fontane effimere. Tra queste ultime, la grande vasca della piazza già detta della Signoria, assemblata intorno al gigantesco Nettuno marmoreo dell’Ammannati e destinata ad avere anch’essa, negli anni successivi e per volere dell’ormai granduca Francesco, una versione architettonica definitiva.

Chi fu l’artefice e il regista dell’apparato celebrativo?
Gli apparati per ingresso in città della sposa ebbero come iconologo e supervisore l’erudito Vincenzio Borghini (1515-1580), monaco benedettino priore dello Spedale degli Innocenti e luogotenente del duca Cosimo nell’Accademia del Disegno. Il progetto e la responsabilità degli edifici effimeri furono affidati allo stesso Vasari, eccetto che in due casi rilevanti: il primo arco alla Porta al Prato, infatti, fu progettato e decorato in buona parte da un Alessandro Allori appena trentenne che, ci dicono le lettere scambiate nel “cantiere” festivo, aveva ai suoi comandi ben ventidue artisti, tra pittori, scultori, decoratori e intagliatori. Il complicato arco al Canto dei Carnesecchi, dedicato alle glorie toscane, fu ideato invece da Vincenzo de Rossi, scultore e architetto tenuto in grande considerazione presso la corte medicea.

Il controllo generale della messa in opera, infine, venne affidato al solerte Giovanni Caccini, soprintendente delle fabbriche ducali pisane, fatto appositamente giungere nella capitale medicea.

Opera di Vasari fu anche il teatro ligneo smontabile assemblato nella sala grande di palazzo, dove il giorno di Santo Stefano fu rappresentata una commedia, abbellita da intermezzi spettacolari di Giovan Battista Cini affidati alle scenografie di Bernardo Buontalenti.

Giorgio Vasari, quasi alter ego del principe, dovette rivedere ogni cosa insieme a Borghini. Si pensi che mentre lavorava per le feste, Vasari era impegnato personalmente anche nei dipinti del salone di palazzo e a seguire la costruzione del corridoio. Disegnò, con Baldassarre Lanci, anche i carri di una dei tre ricchissimi cortei in maschera che sfilarono per Firenze nel carnevale successivo, la Mascherata della Genealogia degl’iddei de’ gentili.

Quali artisti parteciparono alla realizzazione dei programmi iconografici?
Furono impegnati tutti gli artisti dell’Accademia del Disegno, istituita appena tre anni prima. E non soltanto i già immatricolati, ma una serie di altri artisti giunti o chiamati in città per l’occasione e iscritti alla consorteria artistica medicea proprio grazie ai riconoscimenti ricevuti e all’opera prestata nelle feste. Né mancarono gli artefici di passaggio e che lasciarono presto la città, terminate le celebrazioni all’inizio della quaresima. Tuttavia l’omogeneità stilistica che si ricercò è una conferma di quei caratteri di confluenza inventiva che già aveva dominato gli Accademici del Disegno nei lavori del 1564 per le esequie trionfali di Michelangelo e il suo seppellimento in Santa Croce.

Tale armonizzazione è peraltro da considerare talvolta un vero e proprio mezzo di controllo ideologico da parte di Cosimo. In buona parte della produzione pittorica fiorentina di questi anni, il soggetto principale è nel cuore di una scena vivamente animata, così come il potere istituzionale si manifesta come motore di forze centripete, al centro di una concorrenza di presenze, anche in campo artistico. La rappresentazione più ovvia dell’atteggiamento cosimiano è quella offerta dal grande tondo di Vasari nel soffitto della Sala di Cosimo I in Palazzo Vecchio, con Il duca tra i suoi letterati ed artisti (1556-1559).

Per quali ragioni le celebrazioni fiorentine del 1565-1566 rappresentano un capitolo fondamentale della storia dell’arte, dello spettacolo e del gusto stesso?
Gli spettacoli nuziali compresero anche l’attacco a una fortezza sulla Piazza di Santa Maria Novella e la Sacra Rappresentazione dell’Annunziazione allestita nella chiesa di Santo Spirito, aggiornando i congegni scenici inventati da Filippo Brunelleschi un secolo prima per la chiesa di San Felice in Piazza. Un secondo teatro ligneo, dove si tennero giostre e spettacoli equestri, fu fatto erigere da Paolo Giordano Orsini presso la chiesa di San Lorenzo, luogo privilegiato di memoria medicea. La gamma degli intrattenimenti fu varia e adatta a ogni pubblico, come si direbbe oggi. Il potere mediceo vi seppe agitare ad ogni livello le proprie simbologie, seppe modulare i suoi incanti e i suoi richiami, affilando ulteriormente le lame ideologiche che Borghini aveva abilmente riconosciuto in un lungo elenco di relazioni di feste precedenti, rielaborate a Firenze e rese più fini nella forma, più abbaglianti nella bellezza artistica.

La memoria degli spettacoli fu sapientemente affidata ad alcune pubblicazioni prodotte dai tipografi che si alternavano al servizio della corte, i Giunti e i Torrentino: il testo della commedia di Francesco D’Ambra, già messa in scena nel 1544 ma mai pubblicata, le Descrizioni dell’entrata, dell’apparato teatrale e degli intermezzi, di Domenico Mellini, che affermava imminente anche la stampa delle musiche; un’altra di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, con lievi differenze testuali. Uscirono anche le relazioni delle tre mascherate. Per la Genealogia degl’iddei era previsto si stampassero i circa trecento disegni di costumi prodotti da Alessandro Allori e dalla sua bottega, anche se l’edizione di musica e costumi fu poi rimandata e accantonata a causa delle enormi spese già sostenute. La mascherata della Genealogia, “invenzione” del colto protomedico di corte Baccio Baldini, divenne comunque talmente nota che molti dei suoi personaggi, basati su ricercatissime e a volte cervellotiche interpretazioni dell’antico, e su tutti i testi interpretativi allora più conosciuti, furono assunti dai principali trattati di iconologia successivi, a cominciare da quello di Cesare Ripa.

Insomma: un’enorme documentazione editoriale diventava lo strumento di un’affermazione dinastica, superiore a quella di qualunque altro avvenimento analogo del tempo. Ciò seguiva una precisa strategia di attestazione celebrativa avviata da Carlo V nella sua incoronazione imperiale a Bologna, nel 1530, e amplificata dalle relazioni delle sue entrate trionfali in varie città italiane durante il viaggio con cui l’imperatore risalì la penisola sbarcando a Messina dopo la vittoria di Tunisi. Ma a differenza che nelle entrate dell’Asburgo, dove ci fu continuità formale dovuta all’impiego di consorterie di artefici specializzati in rapido spostamento da una città all’altra, a Firenze si cercò di considerare ma anche di perfezionare e superare i modelli precedenti.

Qualcuno dei testi prodotti, ognuno dei quali ebbe immediatamente ristampe e revisioni, finì in ogni casa fiorentina dotata in una biblioteca. Alla fine del secolo gli inventari cittadini ne registrano i titoli, vicino alla descrizione di oggetti e di opere artistiche che continuavano a riprodurne certe iconografie e certi personaggi divenuti familiari da allora e ripresentati, magari, ma con minor “segno”, anche in celebrazioni successive.

Gli eventi del 1565-1566 servirono come speciale palestra artistica. Mascherate e spettacoli di piazza misero in azione anche quanti, tra accademici, sarti, ricamatori e altri artigiani, erano rimasti parzialmente o totalmente esclusi dalle realizzazioni precedenti. La confluenza e, allo stesso tempo, la competizione artistica cittadina, sortirono il massimo impegno nel perseguire risultati estetici che rimasero un “risultato” permanente della Firenze medicea.

Nicoletta Lepri ha un doppio curriculum di studi: storica dell’arte e iberista, si interessa anche agli aspetti della storia dello spettacolo e della letteratura più prossimi alle arti visive. Già docente di Storia dell’Arte nella Scuola di Alta Formazione dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ha curato traduzioni (L. de Granada, Libro dell’orazione e della meditazione; R. de la Cruz, Clementina; D. de Sagredo, Misure Romane), edito testi storico-artistici (V. Capponi, Studi, notizie e documenti per la Storia della Pittura a Pistoia), organizzato convegni (Vasari tra capitale medicea e città del dominio, 2012; Percorsi di arte e letteratura tra la Toscana e le Americhe, 2016), pubblicato numerosi articoli di storia dell’arte e della traduzione.
Tra le ultime monografie:
Cultura visiva e Nuovo Mondo, 2015; Sebastiano Vini: ripetizioni, perdite e alcuni ritrovamenti, 2018. In uscita: Alfio Rapisardi, 1929-2018.

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