
La risposta più immediata e più corretta che si potrebbe dare è: nulla di nulla.
Elitario ed essenzialmente settentrionale il primo, di massa ed essenzialmente meridionale il secondo; convinto del “primato del politico” il primo, del primato del “tecnico” o dell’“amministrativo” il secondo; gettato – via Resistenza – alla riconquista della dignità nazionale il primo, cullato in un attendismo che la dignità nazionale ritiene di non aver mai perso il secondo; intenzionato a fare, anzi a rifare gli italiani il primo, intenzionato a lasciare che gli italiani si facciano da sé il secondo; esistenzialmente – vorrei dire ontologicamente – antifascista il primo, anti-antifascista il secondo, e così via.
Eppure, indiscutibili queste differenze, tra le due formazioni esistono anche somiglianze paradossali, tutte frutto della finestra storica – quella in cui tanto il Pda quanto l’Uq consumano la loro breve esistenza – aperta nel 1943 e chiusa nel 1948.
Queste due meteore, questi due calabroni della politica, si strutturano – ad esempio – secondo una forma specularmente rovesciata: una grande testa e un piccolo corpo per il Pda, “partito di professori” senza seguito, una testa piccola e un grande corpo per l’Uq, potenzialmente in grado di muovere una grande massa di persone, ma del tutto privo di leaders all’altezza. Entrambi sono partiti eterogenei, confluendo nel Pda uomini di formazione crociana e salveminiana, giellisti e liberalsocialisti, repubblicani e liberaldemocratici, transfughi socialisti e comunisti e nell’Uq monarchici, ex fascisti, nazionalisti, liberali conservatori e moderati, indifferenti e semplici simpatizzanti. Entrambi consumano la propria diaspora riposizionandosi all’interno d’un ampio spettro parlamentare, gli azionisti nei partiti della sinistra laica o marxista, i qualunquisti tra Democrazia cristiana, Partito liberale, monarchici e missini. E poi c’è la questione delle eredità: la scomparsa storica di queste due formazioni non è coincisa con la loro scomparsa ideale, tanto che – come “fiumi carsici” – tanto l’azionismo quanto il qualunquismo hanno accompagnato il corso della storia di questa repubblica.
Come si articolava il progetto politico-culturale delle due forze politiche?
In maniera diametralmente opposta.
Prima di finire elettoralmente triturato il 2 giugno 1946 – ma in realtà i tre partiti di massa l’hanno già messo all’angolo – il Pda s’era pronunciato per un rinnovamento integrale dello Stato. Un rinnovamento che, fatti i conti con il fascismo – là dove una effettiva “epurazione” avrebbe dovuto essere il presupposto d’una effettiva “pacificazione” – e liquidati insieme al ventennio anche i resti della vecchia architettura liberale, puntava ad attuare riforme “di rottura”: politico-istituzionali (la Repubblica, la separazione tra Stato e Chiesa, il decentramento amministrativo, l’Europa federale) come economico-sociali (l’economia a due settori).
Dopo il trionfo del 2 giugno 1946 – 5,3% dei suffragi, quarto partito in termine di consensi, dopo la Democrazia cristiana e i partiti socialista e comunista – e prima del tracollo elettorale del 18 aprile 1948, al netto d’ogni protesta il Fronte dell’Uomo Qualunque aveva abbracciato un progetto di sostanziale continuità statuale – Giannini si ritiene un liberale e all’Italia liberale e pre-fascista si rifà – ritenendo impossibili i conti con il fascismo, professando un agnosticismo istituzionale di vertice ben conscio dell’orientamento monarchico della base, e in campo economico esprimendosi per una classica e piena libertà di iniziativa individuale.
Quali elementi comuni condivideva l’immaginario delle due forze?
Sia o meno coincidente con la realtà, nella loro autorappresentazione le due forze si sono sempre percepite e quindi raffigurate, da vive e da morte, come nemiche per eccellenza: ecco il punto di convergenza. Se è vero che Giannini – perché sul fronte del qualunquismo politico è solo a lui che possiamo rifarci – attacca tutti i partiti politici e tutti i governi del dopoguerra in quanto tali, è altrettanto vero che a un certo punto, tra una boutade e l’altra, identifica nel partito della Resistenza e dei Cln, negli uomini della rivoluzione democratica e della rottura istituzionale, ovvero nel Pda, non un avversario ma l’avversario. Per parte sua – e questo invece è un coro a più voci – la tradizione azionista si è pienamente riconosciuta nel ruolo di alter-ego di Giannini, leggendo in quell’antagonismo un antagonismo dalle radici affondate nella storia d’Italia. E se c’è, ai loro occhi, una raffigurazione per eccellenza – e il fatto che sia mitografica e manichea nulla toglie alla sincerità del loro sentirla – di questo scontro tra bene (il Pda) e male (l’Uq), è indubbiamente il paradigma delle due Italie, che ha il proprio prologo nel più che noto dibattito intorno alla società degli apoti intercorso tra Prezzolini e Gobetti sulle colonne de “La Rivoluzione Liberale” nel settembre-ottobre 1922, il proprio seguito con il Rosselli dell’Italia«moderna, cittadina, industriale» contrapposta a quella «di masse ancora vergini e serve» e il proprio epilogo, ovviamente provvisorio, nella dicotomia tra “contadini” e “luigini” che fa da fil rouge a L’Orologio (1950) di Carlo Levi, il romanzo del siluramento del governo Parri. Provvisorio perché negli anni Cinquanta un non azionista come Pannunzio tornerà a contrapporre i «visi pallidi» post-azionisti ai «visi rosei» post-qualunquisti. Insomma, un gran gioco di maschere, con don Chisciotte e Cyrano da un lato, e Arlecchino e Masaniello dall’altro.
Che rapporti vi furono tra Qualunquismo e Partito d’azione?
Rapporti tremendamente conflittuali.
Limitandosi a Giannini – anche se nel libro ho dedicato tutta una parte al “qualunquismo d’élite dei Prezzolini, Longanesi e Montanelli – nei confronti del Pda il commediografo accumula una serie impressionante di critiche che a ben guardare spesso rimasticano – anche in modo contraddittorio – quelle di ben altre parti politiche. In primo luogo, Giannini accusa tutta la nuova classe politica, dunque anche il Pda – formato dai “più pericolosi settari”, che “si credono tutti padreterni” – di fascismo: di non averlo combattuto, di aver approfittato delle sue prebende e di usare gli stessi suoi metodi. Quindi, facendo propria un’accusa già mossa dai comunisti agli azionisti, taccia il partito d’essere “una accolita di borghesi che non hanno il coraggio di dirsi tali”. E contemporaneamente muove al Pda l’ulteriore accusa – questa volta mutuata dall’area politica liberale – di essere un partito dal “programma bolscevizzante” e organico al partito comunista. Il tutto con un linguaggio da caserma che per l’epoca è una novità e che almeno in parte spiega le ragioni del successo editoriale dell’“Uomo qualunque” (800.000-850.000 copie di tiratura).
Per conto loro, gli azionisti riservano all’Uq un giudizio durissimo, da buoni intellettuali appena mitigato dal tentativo – non ben riuscito – di capire che cosa si muova con e dietro a Giannini. Generalizzando, una parte del Pda legge il qualunquismo come un sentimento, uno stato d’animo, una condizione mentale lungamente latente in larghi strati sociali della popolazione italiana, acuita dai problemi del dopoguerra. Altri paiono più interessati al rapporto tra fascismo e qualunquismo, vedendo nel secondo o la riedizione, o il prolungamento o la parodia del primo. Per quest’ultimi, mentore Giannini, l’Uq è il rifugio degli ex fascisti, più fascisti che ex. In ogni caso, non è difficile riavvicinare questi pezzi di definizione, che infatti l’immaginario azionista ricompone facendo del qualunquismo nell’ennesimo capitolo dell’autobiografa della nazione.
Quale bilancio storiografico si può trarre della parabola azionista e qualunquista nel quinquennio fondativo della Repubblica?
Viene da dire che se la loro parabola è ormai consegnata alla storia quella delle loro eredità si affaccia ancora sul nostro presente.
Si pensi, per quel che riguarda il Pda, alle diverse valutazioni che sono state proposte in merito al peso realmente esercitato da quel partito, o dai suoi transfughi, nella storia della nostra repubblica: c’è chi, come Dino Cofrancesco, l’ha reputato preponderante; chi, come Massimo Teodori, ha espresso il parere opposto; e chi, come Paolo Soddu, ha espresso una posizione – per così dire – mediana tra le due.
E si pensi, per quanto concerne l’Uq, che il termine qualunquismo, una volta entrato nel vocabolario politico, non ne è più uscito, identificando tuttora un modo di pensare intessuto di disprezzo generalizzato verso la politica e verso chi la fa, d’indifferenza per ogni ideologia, di mancanza di senso dello Stato, di rifugio in un privato sempre alternativo al pubblico e di risentimento verso quest’ultimo. Queste stesse caratteristiche dicono che, nonostante una ripresa tout court del qualunquismo non si sia mai verificata, la creatura di Giannini ha lasciato più d’una traccia nella nostra storia patria. D’altronde non può che essere così: il qualunquismo si comporta esattamente come una delle maschere usate per descriverlo – Arlecchino – servendo più padroni perché non ne ha di specifici e mettendo il proprio potenziale a disposizione di qualunque movimento o imprenditore della crisi voglia approfittarne. È vero al punto che, millanteria a parte, viene da dar ragione a quanto Giannini scrisse nel 1951: “Sono ancora vivo: dunque la mia battaglia può continuare; sono sempre forte: dunque posso e debbo battermi nella piena fiducia d’una vittoria che vedo sempre più completa e sempre meno lontana. Questa vittoria sta nel sempre più vasto e più forte affermarsi di quel nuovo modo di pensare politicamente e socialmente che in tutto il mondo ormai si chiama qualunquismo. Anche se dovessi morire fra un minuto il qualunquismo è giunto a un tale stadio da assicurare alla mia famiglia e ai miei amici l’eredità d’un nome e d’un pensiero che mai, nei miei più ambiziosi sogni di giovinezza, avrei osato sperare quali ormai sono”.
E questa, ahimè e ahinoi, è più cronaca che storia.