
Da giurista, non posso che interrogarmi ogni giorno su quanto proprio il diritto abbia avuto e continui in parte ad avere un ruolo determinante nella costruzione di un sistema che si fonda su asimmetrie di potere. Se pensiamo al codice civile francese napoleonico del 1804, dal quale trae origine gran parte del nostro diritto privato, quel codice era pensato intorno ad una figura, l’unica giuridicamente presa in considerazione, di maschio, bianco, eterosessuale, abile e appartenente ad una classe sociale medio-alta. Il diritto nasce dai maschi per i maschi, e come tale si sviluppa non solo fotografando, ma riproducendo disparità e ingiustizie. Sempre da giurista, d’altra parte, cerco di capire quanto invece il diritto possa, al contrario, dispiegare una forza trasformatrice capace di ribaltare i fenomeni di oppressione. Lo strumento delle c.d. “azioni positive” va in questa direzione, è lo spirito dell’eguaglianza sostanziale del nostro art. 3, comma 2 della Costituzione: rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana significa sradicare quelle condizioni che storicamente, talvolta implicitamente, determinano diseguaglianze che non verrebbero mai rimosse se ci si limitasse a trattare tutti nello stesso modo, a rifugiarsi nell’idea astratta della “legge uguale per tutti”.
Qual è la fenomenologia delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere?
Le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere presentano una fenomenologia multisfaccettata. Si va dalle discriminazioni “di fatto”, prima tra tutte l’omo-transfobia, oggi com’è noto oggi amplificata nei suoi effetti devastanti dal fenomeno del cyber-bullismo, ma consistenti anche nei comportamenti di soggetti privati che, ad esempio, operano discriminazioni nella conclusioni di contratti (guardando fuori dal nostro contesto pensiamo alla nota vicenda, giunta di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti, del pasticcere che rifiuta la preparazione della torta nuziale per una coppia di sposi dello stesso sesso), fino alle discriminazioni “di diritto”, si pensi a quelle in ambito sanitario, come il divieto di donazione di sangue sulla base dell’orientamento sessuale, con lo stigma che evidentemente ne deriva, a quelle in ambito previdenziale o lavorativo, progressivamente, va detto, rimosse grazie all’impegno profuso dalla Corte di Giustizia europea e in generale all’adozione, soprattutto a partire dagli anni Duemila, di alcune norme di diritto antidiscriminatorio relative anche alle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale.
Ma certamente molte discriminazioni permangono, e sono particolarmente pesanti quelle che colpiscono le soggettività trans. Come sottolinea molto bene uno dei contributi contenuti nel libro, quello di Anna Lorenzetti, collega di Bergamo che da anni si occupa di “diritti in transito”, come lei li definisce, l’identità di genere non è stata espressamente inclusa in alcuna delle Direttive europee antidiscriminatorie. Certo, la Corte di Giustizia ha esteso le tutele previste nell’ambito del lavoro per le discriminazioni di genere anche per chi ha cambiato sesso, ma va detto che la condizione di chi ha effettuato la rettificazione del sesso non è sovrapponibile alla condizione trans. Il legislatore italiano, a differenza di quanto fatto in altri ordinamenti, non ha inserito l’identità di genere tra le condizioni tutelate dal diritto antidiscriminatorio. E questo stona se si considera che proprio le persone transgeneri sono soggette al più alto rischio di essere vittime di discriminazione. Basti pensare alle frequenti discriminazioni riscontrabili in ogni fase del rapporto di lavoro, dall’accesso, alla conservazione della posizione occupazionale, spesso infatti alla transizione corrisponde un demansionamento. Inoltre, a seguito del cambiamento di sesso, vi sono alcune difficoltà nella ricongiunzione delle contribuzioni per la modifica identitaria che il sistema non riconosce. Va aggiunto che la persona trans si trova molto spesso vittima di episodi di molestie (molestie e molestie sessuali sono, oltre che comportamenti penalmente rilevanti, veri e propri atti di discriminazione) e di mobbing, nonché di licenziamento. L’aspetto preoccupante è che sia per le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, sia per quelle relative all’identità di genere, il contenzioso nei tribunali è Questo significa che a fronte dell’esistenza di molti casi di discriminazione, questi non arrivano di fronte ai giudici. Come sottolinea Anna Lorenzetti nel libro le ragioni sono molteplici: tra queste in particolare la limitata conoscenza da parte delle vittime degli strumenti che la legge mette a loro disposizione, ma anche da parte degli operatori del diritto, e la volontà di sottrarsi all’esposizione pubblica della propria storia personale; per queste ragioni le vittime di discriminazione tendono a preferire la transazione, ottenendo un rapido ristoro economico, per quanto scarso, ciò che di fatto garantisce l’impunità sostanziale di chi ha operato la discriminazione.
Come si manifestano e quanto sono diffuse le discriminazioni in ambiente accademico?
Purtroppo non è facile dare una risposta che si fondi su dati certi e documentabili. Le discriminazioni in ambiente accademico sono rilevate prevalentemente dalla figura della consigliera (o del consigliere) di fiducia. La consigliera di fiducia (il mio Ateneo l’ha istituita nel 2018, su impulso del Comitato Unico di Garanzia, che mi trovo a presiedere dal 2017) ha il compito di prevenire e contrastare discriminazioni e molestie in ambiente accademico. È un soggetto terzo, selezionato per le sue competenze in ambito giuridico, psicologico, di mediazione, a cui possono rivolgersi tutte le persone che studiano o lavorano all’interno dell’Università, anche il personale precario che spesso è più soggetto a comportamenti discriminatori e abusi di potere. Il ruolo della consigliera è importante perché può raccogliere testimonianze, accedere agli atti amministrativi che riguardano il caso preso in considerazione, può proporre incontri di conciliazione e mediazione e suggerire interventi che servano a realizzare un ambiente di lavoro rispettoso della libertà, dell’eguaglianza e della dignità delle persone coinvolte. Ci sono però vari problemi: in primo luogo non tutti gli Atenei si sono dotati di questa figura, che non è obbligatoria per legge. In secondo luogo, anche dove la consigliera di fiducia è presente, il numero di accessi non corrisponde mai all’effettiva presenza di discriminazioni, perché spesso le vittime di discriminazione, soprattutto se questa si manifesta all’interno dell’ambiente di lavoro, non ne parlano e non chiedono un intervento per paura di ritorsioni o di causare un peggioramento del malessere lavorativo che già sperimentano. Certo quello della consigliera di fiducia non è l’unico canale attraverso il quale è possibile rilevare e comprendere la dimensione del fenomeno delle discriminazioni (in particolare di genere e a questo riconnesse, come quelle fondate sull’orientamento sessuale e l’autodeterminazione di genere) in ambiente accademico. Gli stessi CUG spesso ricevono segnalazioni; e per quanto riguarda la popolazione studentesca gli sportelli d’ascolto istituiti in pressoché tutte le Università si trovano anche ad raccogliere segnalazioni di discriminazioni subite da parte del corpo docente in particolare. Ma manca un dato completo e sistematizzato.
Quali misure concrete gli Atenei possono mettere in campo per offrire autentica cittadinanza agli studenti in vario modo non conformi al paradigma eteronormativo?
La prima fondamentale misura è quella di cui si parla nel libro, oggetto principale della mozione inviata alla Crui a seguito del convegno svoltosi a Pisa nel gennaio 2019 e i cui lavori il libro raccoglie, cioè l’identità alias all’interno degli Atenei. Diverse Università negli ultimi anni hanno introdotto strumenti come doppio libretto e carriera alias per gli studenti in transizione. Vale a dire strumenti che consentono allo studente o alla studente che non si riconosce nel sesso-genere anagrafico assegnato, e abbia intrapreso un percorso per la rettifica, di vedersi riconosciuto all’interno dell’Università con la sua identità “scelta”. Il significato dello strumento va davvero al di là di quanto si possa intuire. Spesso studenti trans sono portati all’abbandono degli studi per le piccole enormi difficoltà che incontrano nella vita quotidiana all’interno dell’Università: dagli appelli d’esame in cui si trovano a rispondere ad un nome che non corrisponde alla loro immagine, con i conseguenti sguardi, e le domande che li pongono a differenza di tutti gli altri nella costante impossibilità di vivere con riservatezza la loro dimensione personale e identitaria, fino all’utilizzo dei bagni. Pensate ai ragazzi trans, costretti ad utilizzare i bagni “delle femmine” perché sono gli unici dove si trovano i contenitori per gli assorbenti, dato che spesso è necessario un po’ di tempo perché le terapie determinino la scomparsa del ciclo mestruale nel percorso di transizione dal genere femminile a quello maschile.
Il problema è che ancora quasi tutti gli Atenei che riconoscono doppio libretto o carriera alias lo fanno imponendo ai richiedenti di corredare la loro istanza con la documentazione medica che certifica la loro disforia di genere e l’avvio di un percorso di rettificazione anagrafica.
Le riflessioni di cui anche il libro dà conto ci hanno condotti a proporre una diversa soluzione, capace di offrire, appunto, autentica cittadinanza agli studenti transgender all’interno degli Atenei. A Pisa questa soluzione è stata di recente introdotta con il regolamento per l’attivazione e la gestione delle carriere alias, approvato dal Senato accademico poche settimane fa, che prevede che l’attivazione di una carriera alias possa essere richiesta da tutti/e i/le componenti della comunità universitaria, docenti, studenti, personale tecnico-amministrativo, dirigenti, componenti esterni/e degli organi collegiali e quanti/e a vario titolo operano, anche occasionalmente e temporaneamente, nelle strutture dell’Ateneo, semplicemente con la presentazione di un’istanza e la conseguente sottoscrizione di un accordo di riservatezza tra richiedente e Ateneo, a prescindere dal fatto che sia documentata o meno l’attivazione di un percorso di cambiamento di sesso. Questo significa offrire la massima tutela possibile al diritto all’autodeterminazione di genere, e anche ampliare il lato soggettivo della tutela, che riguarda oggi non soltanto la popolazione studentesca, ma tutte le persone che vivono e lavorano nell’Ateneo.
Certamente quello della carriera alias non è l’unico strumento, ma deve essere accompagnato da altri necessari interventi: mi riferisco in particolare ad un’effettiva integrazione nelle dimensioni della ricerca e della didattica di contenuti che facciano riferimento alle questioni relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale; e alla realizzazione di percorsi formativi destinati al personale accademico, docente e ricercatore, che possano stimolare l’adozione di buone pratiche, e favorire relazioni rispettose delle persone e delle identità.
Elettra Stradella, nata a Genova nel 1980, mamma di due bambine, Fiammetta e Benedetta, è professoressa associata di diritto pubblico comparato del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. È Presidente del Comitato Unico di Garanzia per la promozione delle pari opportunità e del benessere lavorativo dell’Università di Pisa e coordinatrice di un progetto europeo Jean Monnet su “European Law and Gender” (2019-2022). È autrice di più di 100 pubblicazioni scientifiche di rilevanza nazionale e internazionale.