“Le destre europee. Conservatori e radicali tra le due guerre” a cura di Marco Bresciani

Prof. Marco Bresciani, Lei ha curato l’edizione del libro Le destre europee. Conservatori e radicali tra le due guerre pubblicato da Carocci: quali percorsi segnarono l’avanzata dei movimenti fascisti in Europa a cavallo tra le due guerre?
Le destre europee. Conservatori e radicali tra le due guerre, Marco BrescianiVorrei chiarire subito che in questo libro si parla molto di fascismo, ma che questo non è un libro sul fascismo. Infatti, con questa raccolta di saggi, composta da una varietà di contributi di studiosi italiani ma soprattutto non italiani, ho cercato di dare un nuovo respiro agli studi sul fascismo – troppo schiacciati sulla specifica esperienza italiana oppure troppo proiettati in una dimensione astratta da ogni contesto, fino a farne la cifra generale di un’epoca intera. Questa duplice tendenza, a mio avviso, dipende dal fatto che non di rado questi studi si sono limitati a dialogare soltanto con sé stessi, e perciò si sono rivelati incapaci di confrontarsi con altre storiografie. Peraltro, per quanto dichiaratamente animati da prospettive antifasciste, molti di questi studi hanno spesso avuto l’esito paradossale di adottare consapevolmente o meno l’autorappresentazione stessa del fascismo e dei fascisti. Il problema della definizione storica e ideologica del “fascismo” inteso in senso generico, e di conseguenza il problema del rapporto tra l’esperienza storica del fascismo italiano e altri movimenti, gruppi o regimi dittatoriali che al fascismo italiano si sono ispirati o richiamati, restano tuttora aperti. Ma l’obiettivo principale del volume è un altro.

Per sviluppare il mio approccio alla questione del fascismo, è stato decisivo l’intreccio di tre diversi elementi.

Il mio punto di partenza è stata la riflessione di Mark Mazower consegnata alla sua fortunata opera, Le ombre dell’Europa. Nel momento in cui scriveva (nella seconda metà degli anni Novanta), lo studioso britannico, esperto soprattutto di Grecia e Balcani, mirava a stemperare il clima di euforia che si era diffuso con la fine della Guerra fredda, e a ricordare che la storia d’Europa era tutt’altro che riducibile ad un’inarrestabile ascesa della democrazia liberale. Le pagine da lui dedicate agli anni Venti e Trenta sono illuminanti, e costituiscono un notevole contributo alla critica di una visione esclusivamente focalizzata sull’“espansione del fascismo”, spostando l’attenzione sui significati e sulle implicazioni della “crisi della democrazia liberale”. Eppure, non hanno conosciuto riflessi e sviluppi significativi nella storiografia sui fascismi. Seguendo le suggestioni di Mazower, ho invece cercato di porre al centro dell’attenzione il vario, contraddittorio spettro di destre radicale e conservatrici, caratterizzato da dinamiche di interazione, collaborazione e contrapposizione nell’Europa tra le due guerre.

In secondo luogo, questo volume è una derivazione – si potrebbe dire, una deviazione – da un progetto di ricerca più circoscritto e approfondito, tuttora in corso, dedicato alla crisi politica e sociale e ai conseguenti conflitti nella regione alto-adriatica dopo il crollo dell’Austria-Ungheria nel 1918, alla transizione di sovranità e alla riconfigurazione dell’ordine statale ed economico a Trieste e in Istria sullo sfondo dell’Europa centrale post-asburgica. Nell’ambito di questo progetto mi sono a lungo confrontato con due nuovi filoni storiografici che hanno conosciuto una recente, importante fioritura: quello dell’eredità di violenza che scaturì dalla Grande guerra, quello delle continuità sopravvissute al crollo degli imperi continentali (in particolare, dell’Impero asburgico). Porsi all’intersezione di questi filoni di ricerca – rappresentati ad esempio da opere come La rabbia dei vinti di Robert Gerwarth e L’impero asburgico di Pieter Judson – significa discutere criticamente il 1918 come anno di avvento della pace e di trionfo degli stati nazionali. Di più, significa ripensare il nodo dell’ascesa delle destre europee tra le due guerre mondiali alla luce delle continuità e discontinuità in termini di pratiche paramilitari belliche e post-belliche e di progetti insieme nazionalisti e imperiali.

Non da ultimo, alle origini di questo lavoro stanno le preoccupazioni e le questioni dettate dall’ascesa di nuovi movimenti nazional-populisti e dalla crisi dei processi di integrazione europea e globale che li hanno prodotti o alimentati. Ritengo poco utili, se non fuorvianti, le analogie tra il passato e il presente, tra la crisi degli anni Trenta e i nostri giorni, tra le destre di ieri e quelle di oggi. Invece credo che il presente ci incoraggi sempre a interrogare il passato in modi nuovi. In questo senso mi pare che oggi sia più chiaro di quanto non fosse in passato che l’ascesa delle forze di destra radicale dipende strettamente dalle scelte e dalle strategie delle destre conservatrici, e che quindi queste ultime devono essere analizzate in relazione con le prime. Tutto questo risulta evidente se si guarda, per esempio, ai rapporti (di segno diverso e spesso mutevole) del Partito repubblicano con Donald Trump, dei conservatori francesi con il Front National o della CDU con l’AfD. Ma non è meno evidente se si indagano i rapporti tra conservatori e radicali di destra nell’Europa tra le due guerre mondiali.

L’insieme di queste considerazioni spiega l’ottica europea che caratterizza il volume, con una prospettiva particolarmente attenta alle dinamiche dell’Europa centro-orientale e sud-orientale, senza escludere uno sguardo laterale proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico.

Quale reticolo di interrelazioni tra movimenti di ispirazione comune e quali spazi di contrapposizione tra destre conservatrici e radicali dominarono il periodo tra le due guerre?
Da molti punti di vista non è più possibile scrivere storie esclusivamente “nazionali”. Ormai da tempo si è fatta strada la tendenza, anche negli studi sui “fascismi”, ad adottare un’ottica transnazionale, europea e globale. Tuttavia, molti studi sul fascismo continuano a prendere le mosse dal 1919, data di fondazione dei Fasci di combattimento a Milano, oppure dal 1922, momento di ascesa al potere del movimento di Mussolini con la marcia su Roma. Nella mia introduzione ho invitato i contributori del volume a considerare il 1918 come uno snodo fondamentale della storia europea – uno snodo però segnato più da continuità che rotture con le precedenti esperienze belliche, e ancor più con le eredità imperiali precedenti al 1914. Dalla dinamica di distruzione e ricostruzione scatenata dalla lunga Grande guerra (1911-1923) occorre partire, a mio avviso, per comprendere la varietà di percorsi delle destre europee interbelliche.

Per altro verso, ho preferito evitare di concludere questo volume con il 1945, data che risponde perfettamente alla logica interpretativa del periodo interbellico fondata sulla contrapposizione tra fascismo e antifascismo, cristallizzata dall’affermazione del secondo sul primo. In questo modo si rischia di attribuire una curvatura teleologica alle battaglie politiche e ideologiche dell’Europa interbellica, oltre che a quelle della Seconda guerra mondiale. Per evitare questo rischio, ho scelto di adottare come punto d’osservazione il 1941, vero e proprio spartiacque nella storia europea. I rapporti tra destre conservatrici e radicali furono alterati in modo decisivo dall’occupazione nazista e dall’instaurazione del Nuovo ordine hitleriano.

All’interno di questa cornice cronologica i casi di studio del volume si propongono di analizzare i mutevoli rapporti tra le varie destre sulla base di contesti specifici e di “questioni” politiche, sociali, economiche e culturali che via via si sono imposte e che sono state al centro di un’opera innovativa e intrigante di Holly Case (L’età delle questioni). Gli studi passati si sono focalizzati soprattutto sulle forme di fascismo o di radicalismo di destra, con l’intento di misurare la conformità di queste variegate esperienze di destra al modello del fascismo italiano. In questo modo altre tipologie di destra, in particolare le varie destre conservatrici, sono rimaste ai margini o al di fuori dell’attenzione degli studiosi. Invece il conservatorismo interbellico è un fenomeno complesso di grandissimo interesse. A dispetto delle loro intenzioni più o meno dichiarate e dei loro obiettivi programmatici, i gruppi o partiti conservatori dovettero mutare profondamente rispetto al periodo precedente il 1914, per far fronte alle novità introdotte dalla Grande guerra e dalla sua eredità.

È difficile ricapitolare in poche righe i percorsi tortuosi che legarono e insieme distinsero le destre conservatrici e quelle radicali tra le due guerre. Con un certo grado di approssimazione si può dire che nel corso degli anni Venti, con l’eccezione italiana del movimento poi regime di Mussolini, le destre conservatrici riuscirono a contrastare le spinte alla destabilizzazione ulteriore dell’ordine europeo, sia pur a fatica ricostruito, ed emarginare l’ascesa dell’estremismo di destra. A costo però di accettare che la stabilizzazione di un nuovo ordine postbellico implicasse un significativo adattamento del conservatorismo a nuove condizioni che rendevano impossibile un semplice ritorno al 1913. Al contempo, sui gruppi più marginali delle estreme destre il modello fascista cominciò ad esercitare un certo fascino, circolando attraverso i confini e proponendosi come insieme di soluzioni radicali alle questioni politiche, sociali, culturali ed economiche emerse con le striscianti violenze del 1911-1923 e con il crollo dei grandi Imperi continentali (russo, asburgico, tedesco e ottomano), a partire dai cicli rivoluzionari russi e dall’ascesa del nuovo regime sovietico. Solo dopo la Grande depressione del 1929 e l’affermazione della Germania nazista le varie correnti del radicalismo di destra conquistarono spazi politici e sociali sempre più ampi. I modelli del fascismo di Mussolini e del nazionalsocialismo di Hitler suscitarono anche fuori dall’Italia e dalla Germania entusiasmo ed emulazione, mobilitarono gruppi paramilitari circondati da qualche consenso di massa, ispirarono le idee di un ordine europeo in antitesi rispetto a quello post-1918. In questo senso, almeno in alcune formazioni nazionaliste radicali giovanili polacche, ucraine, rumene, si può parlare di un processo di “fascistizzazione”, come ha sostenuto Aristotle Kallis. Eppure, a ben vedere, in larga parte d’Europa neanche allora le forze del radicalismo di destra – almeno nominalmente – riuscirono a prevalere sulle nuove forze del conservatorismo che si erano affermate fin dagli anni Venti e che ora dovevano riadattarsi alle dinamiche di disintegrazione dell’ordine precedente. Mentre gruppi e movimenti di estrema destra operavano per un’accelerazione e radicalizzazione di questo processo di disintegrazione, partiti e circoli conservatori furono via via impregnati delle culture e delle pratiche politiche delle forze radicali, appropriandosi dei loro linguaggi e delle loro strategie sia pur in un ultimo, spesso disperato sforzo di stabilizzazione. Di fatto, solo la politica di espansione da parte delle forze naziste e fasciste, che a partire dal 1938-1939 mandò in frantumi l’ordine di Versailles, determinò una svolta che alterò i rapporti tra conservatori e radicali di destra a favore dei secondi e che culminò nel nuovo ordine europeo del 1940-1941.

In che modo dinamiche conservatrici e radicali si scontrarono nel fascismo italiano?
Sul fascismo italiano esiste una bibliografia ormai sterminata, per cui è molto difficile elaborare nuove chiavi di lettura. Ho quindi cercato di mettere a fuoco alcuni punti ciechi nelle interpretazioni correnti e fin qui prevalenti. Anzitutto, una cornice interpretativa nuova, europea, ma con una particolare attenzione per l’Europa centrale e sud-orientale che consente di osservare in una prospettiva inedita aspetti cruciali della crisi postbellica e dell’ascesa del fascismo sulla penisola italiana. Considerata come una delle potenze vincitrici della Grande guerra e parte integrante del mondo europeo occidentale, l’Italia si trovò ad affrontare una situazione incerta e difficile, satura di tensioni e violenze, prossima a quella dei paesi sconfitti, tipica soprattutto dell’Europa centrale e sud-orientale. Da un lato, il crollo imprevisto del nemico per eccellenza del “Risorgimento” italiano, l’Impero asburgico, con la sua persistente eredità culturale, amministrativa e sociale aprì un ciclo di conflitti nell’alto Adriatico, che portò alla diffusione di gruppi paramilitari come in altre regioni post-asburgiche, segnando l’ascesa dei primi gruppi squadristi a Trieste e in Istria. Dall’altro lato, le campagne diventarono il teatro di scontri e rivolte nel dopoguerra, alimentando prima l’ascesa del socialismo rivoluzionario poi la risposta armata del fascismo, soprattutto nella Pianura padana.

Quindi, ben più di quanto non si sia fatto in passato, cerco di richiamare l’attenzione sul fatto che la nuova definizione della questione nazionale/imperiale e della questione contadina – ereditate dall’Italia liberale – si trasformò in uno strumento particolarmente efficace per la mobilitazione di consenso non solo da parte fascista, ma anche da parte nazionalista. Qui si innescò una dinamica insieme di competizione e collaborazione, di assimilazione e distinzione che, dopo la formale confluenza dell’Associazione nazionalista nel Partito nazionale fascista (1923), continuò a influenzare la costruzione della dittatura di Mussolini. Questi rapporti complessi, che dopo il 1925 si spostarono all’interno della nuova cornice del regime fascista, si tradussero in spinte contraddittorie alla stabilizzazione e alla radicalizzazione, così come si rivelarono tanto nella politica rurale quanto nella politica estera. Da un lato, il processo di formazione di piccola proprietà contadina, che si sviluppò nel corso degli anni Venti in forme comparabili ad altre società rurali dell’Europa centro e sud-orientale, costituì uno dei pilastri sociali del nuovo sistema politico. Dall’altro, il crollo dell’Impero asburgico aprì un vuoto di potere che indusse nazionalisti e fascisti a riformulare progetti di influenza e di conquista imperiale in Europa centrale e balcanica, con un impulso radicalizzante che portò ad una politica di guerra dalla metà degli anni Trenta in poi.

Quali vicende segnarono l’ascesa della destra radicale in Iugoslavia?
È anzitutto necessario considerare che il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (costituito nel 1918, poi diventato formalmente Jugoslavia dal 1929) era la risultante insieme complessa e fragile dell’espansione del Regno serbo e dell’unificazione di territori un tempo appartenenti all’Impero asburgico e all’Impero ottomano. Peraltro, quest’area balcanica era entrata in una sequenza di convulsioni e crisi fin dallo scoppio delle guerre del 1912-13. Le linee di frattura interne contribuirono perciò ad alimentare le tensioni centripete e centrifughe che attraversarono l’esperimento statale jugoslavo tra le due guerre. Una particolare attenzione è stata dedicata, soprattutto in tempi recenti, all’evoluzione fascistizzante del movimento croato ustascia, formazione nazionalista radicale e insieme revisionista finanziata e sostenuta dal regime fascista in chiave anti-jugoslava, poi nucleo generatore dello Stato indipendente croato tra il 1941 e il 1945. Tuttavia, il capitolo di Mark Biondich riesce ad ampliare questo quadro, con l’intento di ricostruire un ben più variegato e frammentato mondo di destra: quello delle destre conservatrici (jugoslave) con il loro progetto di modernizzazione autoritaria e quello delle destre nazionaliste (serba e croata) con il loro atteggiamento aggressivo verso la democrazia parlamentare e lo stato centrale jugoslavo. La radicalizzazione interna delle forze nazionaliste, cominciata sotto la dittatura di Alessandro I, ma accentuatasi dopo il suo assassinio nel 1934, non fu sufficiente per realizzare una presa del potere che sarebbe avvenuta solo con la distruzione dello stato unitario jugoslavo nella primavera del 1941, a seguito dell’invasione delle potenze dell’Asse.

Come si sviluppò il nazionalismo integrale ucraino?
Il volume è attento a spiegare una varietà di casi “nazionali” e al tempo stesso la circolazione transnazionale di modelli, pratiche e culture che ispiravano o condizionavano le diverse destre interbelliche in tutta Europa. La specificità dei primi si misura solo sullo sfondo della seconda: in questo senso nessuna spiegazione storica di un singolo caso “nazionale” è autosufficiente rispetto ad un contesto più generale, perlomeno europeo. Tutto questo è particolarmente evidente se si considera ad esempio il nazionalismo integrale ucraino, irriducibile ad uno stato esistente nell’Europa tra le due guerre (come il movimento nazionalista slovacco oppure quello ustascia croato). Infatti, le diverse formazioni nazionaliste radicali ucraine che presero a modello il fascismo (in particolare, OUN) si svilupparono soprattutto nelle regioni orientali dello stato polacco, segnate dalle eredità degli Imperi asburgico e russo e dalle successive, violentissime convulsioni (soprattutto in Galizia), mentre erano ovviamente bandite dall’Ucraina sovietica. Questo caso, così com’è inteso e analizzato da Oleksandr Zaitsev, consente di seguire più da vicino una traiettoria di fascistizzazione di un movimento che non è esclusivamente riducibile al fascismo né all’indipendentismo nazionale. In questo modo Zaitsev si posiziona all’interno di un dibattito accesissimo circa il rapporto tra fascismo e nazionalismo in Ucraina, rinfocolato dalla rivoluzione di Euromaidan e dalla conseguente crisi russo-ucraina (dal 2013-2014 in poi). Le forze conservatrici cattoliche (uniate), anche se riconoscevano nell’anticomunismo un terreno comune con i movimenti nazionalisti, furono per lo più opposte al nazionalismo integrale. Tra i nazionalisti integrali un ruolo eminente fu svolto da Dmytro Dontsov, che dalla metà degli anni Trenta si accostò sempre più al fascismo come modello per la costituzione di uno stato indipendente ucraino, anche se l’OUN, almeno fino all’invasione nazista dell’Unione Sovietica nel 1941, conservò tratti ambigui.

In che modo in Polonia la cultura di destra diventò fascista?
Il fatto che la Polonia fosse stata vittima dell’aggressione nazista alle origini dello scoppio della guerra del 1939 ha a lungo contribuito a occultare il suo passato di destra. Anche a seguito della recente evoluzione dei governi nazionalisti del PiS, e soprattutto di una stagione di intense ricerche sul suo passato meno recente, si può dire invece che la Polonia costituisca un caso di notevole rilevanza. Nonostante potesse ascriversi tra i vincitori della Grande guerra, il nuovo stato che si pretendeva polacco rispecchiava, in realtà, una varietà di retaggi imperiali e multietnici che derivavano dall’Impero russo, tedesco e austriaco crollati tra il 1917 e il 1918. Ne scaturirono contraddizioni e tensioni crescenti, che alimentarono un contro-illuminismo cattolico, intriso di antisemitismo, articolato in una varietà di movimenti e gruppi nazionalisti polacchi. Il capitolo di Grzegorz Krzywiec indaga la vasta circolazione di una subcultura di destra fascistizzante che, anche se non riuscì a prendere il potere politico, finì per informare associazioni giovanili studentesche e partiti politici estremi come Democrazia Nazionale o la Falanga. In forme non troppo dissimili da quanto avveniva in Ungheria e in Romania, in Polonia questa costellazione organizzativa delle destre radicali, che restò eterogenea e frammentata, per quanto fosse a stento contenuta da forze conservatrici ispirate da un antisovietismo sempre più intransigente, puntava a condurre una guerra aperta contro le comunità ebraiche e su scala minore contro le altre minoranze nazionali.

Quali divisioni caratterizzarono le vicende della destra francese?
Questo volume dedica un gran numero di saggi a casi di studio dell’Europa centrale e sud-orientale, spostando l’asse delle vicende degli anni Venti e Trenta verso est. In questo contesto si riprendono anche casi di studio più tradizionali, non solo l’Italia, ma anche la Francia, la Spagna e il Portogallo, per cercare di illuminarli da una prospettiva inedita. Ad esempio, il caso francese è stato al centro di infuocate discussioni. Invece di soffermarsi sulle radici francesi del fascismo, seguendo Zeev Sternhell (pur riconoscendone l’importanza del contributo), Sean Kennedy considera la variegata costellazione di forze della destra francese che, dal 1918 in poi, fu animata da una costante dinamica di frammentazione e ricomposizione delle sue diverse componenti, conservatrici e radicali. Per meglio comprendere questa dinamica, occorre metterla in relazione con il declino della potenza francese tra le due guerre, nonostante la vittoria militare del 1918, e con la conseguente diffusione di associazioni reduciste e nazionaliste. Per lo più organizzate in ligues, le forze nazionaliste estreme (come le Croci di fuoco), anche alimentate da transfughi della sinistra, destabilizzarono periodicamente il sistema politico. In questo modo, però, finirono col saturare con le loro parole d’ordine intolleranti e violente larga parte della scena pubblica francese. Il culmine di questa offensiva antidemocratica e antiparlamentare fu l’attacco all’Assemblea nazionale il 6 febbraio 1934. Nonostante la rumorosità dei loro proclami e la pericolosità delle loro azioni, i militanti di questa composita galassia di destra radicale si rivelarono incapaci di abbattere le istituzioni della Terza Repubblica. Le formazioni conservatrici, per quanto sempre più inclini all’anticomunismo e al pacifismo filonazista, riuscirono in larga misura a contenerne la spinta destabilizzante. Solo l’invasione nazista nel 1940 (la “divine surprise” evocata da Charles Maurras, fondatore dell’Action française), mutò i rapporti di forza esistenti a destra.

Che rapporto vi fu tra il Portogallo e l’esperienza italiana del fascismo?
Più che cercare di misurare la conformità dei movimenti e dei regimi dittatoriali di destra all’esempio del fascismo italiano, può essere utile verificare la circolazione di questo modello, delle sue culture e delle sue pratiche su una scala transnazionale, se non europea. Il capitolo dedicato da Giulia Albanese al Portogallo della dittatura di Sidonio Pais prima e dell’Estato Novo di Antonio Salazar poi, consente di adottare una prospettiva mediterranea. Per quanto eccentrico rispetto ai principali teatri della Grande guerra, il Portogallo fu colpito dalle conseguenze dell’esperienza bellica, che determinarono la crisi della Prima Repubblica e l’avvio di una fase di instabilità e crisi. I legami tra il movimento e il regime di Mussolini e le destre portoghesi maturarono soprattutto sul terreno del cattolicesimo conservatore e del nazionalismo radicale. Per questa ragione, il nazionalismo italiano, grazie soprattutto a Luigi Federzoni, svolse una funzione decisiva di mediazione nella trasmissione del modello fascista, di cui il sistema corporativo diventò sempre più elemento cardinale nel corso degli anni Trenta. Paradossalmente, però, quella medesima costellazione di elementi che in Italia costituì la base politica, sociale e culturale della dittatura di Mussolini in Portogallo contribuì a impedire la diffusione di movimenti fascisti lusitani e a stabilizzare il regime di Salazar. A riprova che la mera applicazione della categoria di “fascismo” a tutti i fenomeni di destra radicale non risolve una complessa questione storica, che ci riguarda ancora da vicino.

Marco Bresciani è docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze. È studioso di fascismo e antifascismo, socialismo e antitotalitarismo in Italia e in Europa. Di recente ha pubblicato Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà (Carocci, 2017) e ha curato Conservatives and Right Radicals in Interwar Europe (Routledge, 2021), ora tradotto con il titolo Le destre europee. Conservatori e radicali tra le due guerre (Carocci 2021).

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