“Le custodi del potere. Donne e politica alla fine della repubblica romana” di Francesca Rohr

Prof.ssa Francesca Rohr, Lei è autrice del libro Le custodi del potere. Donne e politica alla fine della repubblica romana edito da Salerno: qual era la dimensione pubblica e politica delle donne romane?
Le custodi del potere. Donne e politica alla fine della repubblica romana, Francesca RohrIl mio libro prende le mosse da un apparente ossimoro: donne e politica, i due protagonisti del titolo, in Roma antica sono realtà lontane, che solo molto raramente si incontrano. Nella prassi monarchica, certo per quanto si può dire su quel complesso periodo storico, e in quella repubblicana e imperiale le donne erano escluse dai contesti e dagli strumenti della vita politica: non partecipavano alle riunioni del senato e alle assemblee del popolo, non potevano ricoprire le cariche istituzionali, con eccezioni circoscritte, non avevano accesso neanche ai sacerdozi, che permettevano di controllare la politica della comunità. Secondo la mentalità romana la componente maschile e quella femminile della società rappresentavano realtà diverse; erano destinate a compiti differenti e per questi erano state dotate dalla natura di abilità diverse e complementari. Gli uomini erano responsabili della sicurezza e del benessere della comunità e ne dovevano curare la gestione; a questo fine combattevano e amministravano la politica, padroneggiando gli strumenti attraverso cui si attuava, come le magistrature e l’uso pubblico della parola. Le donne, invece, assolvevano in primo luogo il compito di generare ai propri mariti legittimi figli che assicurassero la sopravvivenza della famiglia generazione dopo generazione e nuove forze alla città di Roma. Questi figli dovevano essere allevati secondo i principi codificati dalla tradizione e il compito spettava alle madri, che trasmettevano la memoria familiare e condizionavano il pensiero della propria prole. A questo scopo le donne potevano usare la parola in casa, come gli uomini in pubblico. Le sole interferenze femminili nella vita pubblica rispondevano ai doveri della cultualità per le divinità femminili e familiari, e alla ritualità funeraria, in cui uomini e donne avevano ruoli ben distinti e formalmente riconosciuti. Quando le donne sconfinavano dal perimetro della casa – un confine fisico ma anche un limite ai loro ambiti di competenza – erano condannate perché le loro azioni venivano interpretate come ingerenze improprie e tradimenti della loro identità di genere. Questa bipartizione di competenze e funzioni non era il frutto di una visione maschile imposta alle donne; era invece la condizione accettata dalle donne stesse, esito di una società patriarcale che poneva le donne in una condizione sempre subalterna. Ciò è evidente nelle occasioni dei tumulti per la revoca della legge Oppia nel 195 a.C. o per la cancellazione del provvedimento fiscale straordinario a danno delle matrone nel 42 a.C. Nemmeno in quelle occasioni, che videro le donne scendere in piazza e manifestare per raggiungere i loro obiettivi, esse promossero rivendicazioni di emancipazione e ancora meno di parità dei diritti rispetto agli uomini, ma difesero i propri diritti in nome della diversità. Solo l’emergenza scardinava gli equilibri e le pratiche consuete e imponeva talvolta modi di vita diversi: non cambiava la visione che gli uomini avevano delle donne e queste di loro stesse, ma modificava i comportamenti, come risposta a situazioni e esigenze nuove. Così nella tarda repubblica, nel contesto delle guerre civili, gli uomini spesso disertavano il senato e le assemblee popolari; le magistrature e i sacerdozi rimanevano vacanti perché gli uomini fuggivano dai loro avversari lontano da Roma, venivano assassinati nelle strade dell’Urbe, giustiziati, si sottraevano ai loro doveri civici per le minacce dei loro nemici. E al loro posto agivano le donne. Operavano su mandato dei loro uomini come passive rappresentanti, oppure con loro concordavano le strategie, o, infine, agivano di propria iniziativa e secondo le proprie opinioni. Le donne ora operavano in politica per la devozione che dovevano ai loro padri, mariti, figli, fratelli – la pietas avrebbero detto i Romani – e questa rappresentava la giusta motivazione del loro agire nuovo. Per questo il binomio donne-politica è un aspetto reale della storia della tarda repubblica e il suo studio ci aiuta a capire meglio le dinamiche di questo complesso periodo storico. Ma tale condizione non poteva che essere temporanea, perché il ritorno alla sicurezza e alla pace doveva ripristinare i ruoli degli uomini e delle donne e riportare le donne all’interno delle loro case, anche se forse con qualche libertà in più.

Quale ruolo assunsero tra la fine del II e il I secolo a.C. le matrone?
Quando si parla dell’azione politica delle donne nel mondo romano non ci si può che riferire alle matrone: solo coloro che erano nate e vivevano nella famiglie della classe dirigente romana – di rango senatorio e equestre – avevano gli strumenti per poter incidere nella politica cittadina: avevano ricevuto un’adeguata educazione, che permetteva loro di padroneggiare i codici espressivi della politica; avevano una familiarità con l’amministrazione dello stato e le relazioni ad alto livello per aver assistito agli incontri, alle ambascerie, alle iniziative pubbliche dei loro padri, mariti, fratelli; avevano un’autorevolezza che le rendeva un interlocutore credibile presso referenti importanti; avevano una rete di relazioni che consentiva loro di sostenere efficacemente la causa dei propri familiari e garantiva anche una protezione in caso di pericolo immediato per la loro persona e disponevano delle risorse economiche, che potevano gestire con vincoli sempre più laschi. Queste donne non guadagnarono neanche in questo periodo l’accesso al senato o alle magistrature, ma sfruttarono strumenti di azione diversi. Secondo la tradizione, i matrimoni erano un importante mezzo per siglare e stabilizzare alleanze politiche: ma se in precedenza anche per questi avvenimenti che le vedevano necessariamente protagoniste erano passive, in balia delle decisioni dei loro uomini, ora le donne in non poche occasioni usarono fidanzamenti, matrimoni, divorzi propri, delle proprie figlie, delle proprie nipoti per le proprie strategie. Agirono in questo modo ad esempio Servilia, madre di Marco Bruto, ma anche Terenzia, moglie di Cicerone, e Cerellia, amica dell’oratore di Arpino. L’educazione assicurò uno strumento lecito per condizionare la politica attraverso i figli: Cornelia, ad esempio, condizionò il pensiero dei famosi tribuni Gracchi; ma anche Aurelia incise nella formazione di Giulio Cesare e Azia in quella di Ottaviano. Le esequie dei propri familiari rappresentarono anch’esse un’occasione di intervento politico: anche in precedenza erano le donne a occuparsi delle spoglie del defunto e ad accompagnarlo verso la pira lungo le strade di Roma; ma ora potevano sfruttare questi compiti per promuovere un culto della memoria dei loro familiari, spesso uomini politici assassinati nel corso di scontri di piazza, e organizzare l’azione dei loro sostenitori, come fece Fulvia dopo l’assassinio di Publio Clodio quando ne esibì il corpo insanguinato per chiamare a vendetta i suoi sostenitori; le donne potevano usare anche la loro stessa morte per promuovere determinate cause, come Porcia e Servilia che si tolsero la vita ingerendo carboni ardenti come manifestazione di protesta per la tragica fine dei sostenitori della repubblica. Le donne – mogli e madri – assunsero anche la funzione di rappresentare i loro uomini lontani, come Giunia Seconda che sostituiva il marito cesariano Marco Emilio Lepido a Roma, nelle complesse relazioni con i sostenitori della causa repubblicana. Le donne in questi anni interferivano nelle iniziative dei propri congiunti, imponendo il proprio punto di vista, come Giulia la madre di Marco Antonio che indusse il figlio a escludere lo zio dalle liste di proscrizione. Assunsero le funzioni di mediatrici, intervenendo con autorevolezza tra i propri familiari e i loro nemici, come Mucia madre di Sesto Pompeo che contribuì alla riconciliazione del figlio con i triumviri, assicurando allo stato una seppur temporanea pace. Modalità diverse, quindi, ma interventi che spesso resero determinante l’azione delle matrone.

Quali furono i contesti e le modalità della loro azione?
Come dicevo, il luogo appropriato per le donne era la casa. Questo testimoniano le fonti letterarie, ma anche le laudazioni funebri femminili: una donna perbene era domiseda. La politica si svolgeva, invece, tradizionalmente nelle sedi pubbliche. La diserzione dai luoghi propri della vita politica da parte degli uomini nel tempo delle guerre civili diversamente dalla prassi repubblicana trasferì molte decisioni, numerosi incontri, tante occasioni funzionali alla politica all’interno delle residenze private: qui le donne affiancavano i loro uomini, come Giunia Seconda quando Lepido ospitò a cena Marco Bruto nel contesto degli accordi tra cesariani e cesaricidi dopo le Idi di marzo; ma qui le donne organizzarono anche in proprio summit politici, come Servilia che nella sua casa accolse Cicerone e altri leader di parte repubblicana mentre il figlio aveva lasciato Roma, presiedendo una riunione finalizzata a deciderne le mosse successive del cesaricida. Ma nella tarda repubblica le matrone uscirono anche dalle proprie case e si appropriarono degli spazi pubblici: Fulvia e la suocera Giulia, ad esempio, corsero per le strade di Roma per intercettare i senatori che andavano in senato a votare la condanna di Antonio come nemico pubblico; Ortensia interloquì con i triumviri nel Foro, mentre svolgevano le loro funzioni di giudici, per convincerli a ritirare il provvedimento straordinario con cui avevano tassato 1400 matrone per sostenere le spese della guerra contro i cesaricidi in Oriente. Le matrone si spinsero fino ad agire sui campi di battaglia, luogo esclusivo più di ogni altro per gli uomini: nel contesto della guerra di Perugia Fulvia assunse i compiti di un soldato, cingendo la spada, ma anche le mansioni di un ufficiale, arruolando soldati, dando la parola d’ordine nel campo, definendo la tattica insieme agli ufficiali dell’esercito antoniano. Ma l’appropriazione dei luoghi non esauriva l’acquisizione da parte delle donne di prerogative maschili. Anche gli strumenti adottati per porre in essere queste iniziative solo parzialmente rientravano nel repertorio femminile. Le donne, indirizzate a una condotta riservata, a evitare la visibilità eccessiva, alla moderazione nei propri atteggiamenti, fuori dal loro contesto domestico potevano esprimersi mediante la gestualità e fare ricorso alla voce: lamenti, pianti ma non discorsi. La politica, invece, in Roma si compiva certo attraverso i gesti e i suoni, ma si nutriva soprattutto della parola e in particolare dei discorsi, con cui i protagonisti sulla scena persuadevano i propri interlocutori, facevano valere le proprie ragioni, motivavano le proprie truppe. Nella formazione dei giovani destinati alla politica l’oratoria rappresentava una componente essenziale proprio a questo scopo. Nella tarda repubblica le donne in politica si espressero anch’esse attraverso discorsi: all’interno delle proprie case, ma anche in tribunale, nel Foro, davanti all’esercito. Così ad esempio nel contesto della guerra di Perugia Fulvia arringò le truppe, come avrebbe fatto un comandante in capo. Anche questa iniziativa le valse il disprezzo dei contemporanei, che videro in essa un ulteriore ed estremo tradimento della sua condizione femminile e l’appropriazione indebita di competenze maschili. Ma altre matrone, che pure si resero responsabili di sconfinamenti analoghi, furono risparmiate, perché per i loro legami familiari o la loro autorevolezza, dovevano essere preservate da ogni denigrazione: Ortensia, ad esempio, che parlava ai triumviri nel Foro di questioni economiche con gravi ripercussioni politiche, fu apprezzata perché attraverso di lei, si diceva, era il padre, il famoso oratore Quinto Ortensio Ortalo ormai scomparso, a far sentire il suo pensiero.

In che modo Au­gusto, sedate le guerre civili e instaurato un nuovo modello di governo, tenne conto di queste espe­rienze?
L’età augustea rappresentò un tempo di normalizzazione: il ritorno al mos maiorum e il ripristino dell’assetto istituzionale repubblicano, garanzie della sicurezza e della pace, rappresentarono la linea di indirizzo del principe. Questa era, nella giustificazione di Augusto, la ragione principale del consenso a lui unanimemente riconosciuto e fondamento del suo potere. Nella pratica politica questo processo di recupero del glorioso passato repubblicano conobbe importanti eccezioni, la prima delle quali fu certamente la presenza di un primus inter pares, che acquisì i poteri fondamentali e rese la sua stessa famiglia un centro di potere nello stato. Anche nella definizione del ruolo e degli spazi di azione delle donne Augusto operò in un complesso equilibrio tra la consapevolezza di agire in un mondo profondamente trasformato rispetto all’esperienza della media repubblica e la necessità di contenere modi di azione incompatibili con gli equilibri sociali faticosamente ricostituiti. La nuova posizione assegnata alle donne fu delineata e diffusa a Roma, in Italia e nell’impero attraverso la creazione di modelli di comportamento: le matrone della domus principis, come Ottavia, in un primo tempo, e Livia, in seguito. A costoro fu indicata una linea di condotta precisa, che si ispirasse ai paradigmi antichi, e furono consentite occasioni di visibilità tali da potenziare la loro funzione esemplare. Accanto al recupero del ruolo tradizionale, che voleva la donna moglie, madre, pia, casta, pudica, tacita e lanifica, si individuarono degli spazi di azione confacenti a figure che, come molte donne nello stato romano, avevano tutti i requisiti per contribuire alla vita pubblica. La pratica cultuale, l’attività evergetica a beneficio della comunità e quindi a vantaggio dell’immagine familiare, la consulenza ai propri uomini, pur senza alcun ruolo formalizzato, rappresentarono occasioni importanti per le matrone di età augustea e del primo impero. La documentazione antica testimonia che sconfinamenti nella politica si compirono ancora e che furono spesso deprecati, anche se la polemica difficilmente portò allo scoperto la vera natura degli interventi di questo tipo, derubricando invece queste iniziative femminili all’esito della lascivia e dell’avidità, divenute accuse topiche nella delegittimazione delle Auguste. Così si incrinò l’immagine di Giulia Maggiore e Giulia Minore, certamente attive in politica, e in seguito di Agrippina Maggiore, Messalina, Agrippina Minore. E la persistenza di queste modalità di delegittimazione si dimostra con l’età Antonina. Allora alla presunta lascivia di Faustina Minore si attribuiscono le mancanze del figlio Commodo: un uomo che agiva in modo tanto crudele e a tal punto privo di competenze non poteva essere il figlio biologico del saggio Marco Aurelio, ma certo doveva essere nato da una relazione adulterina della madre, responsabile della trasmissione di un codice genetico inadatto a un imperatore.

La storia delle donne si interseca, quindi, ripetutamente e in tanti modi diversi, con le vicende politiche della Roma tardo repubblicana. Ripercorrere le tracce della loro azione e studiarle, nella consapevolezza delle distorsioni della storiografia antica e con l’attenzione richiesta da un puzzle che manca di tanti tasselli, contribuisce alla definizione di un momento della storia di genere, ma soprattutto ricompone un aspetto della complessa storia politica della transizione tra repubblica e impero.

Francesca Rohr Vio è professore di Storia romana, Storiografia romana e Storia delle donne nel mondo romano presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Si occupa della storia politica di età tardo repubblicana e protoimperiale e di storia di genere in Roma antica. Tra le sue pubblicazioni Publio Ventidio Basso, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2009; Contro il principe. Congiure e dissenso nella Roma di Augusto, Bologna, Patron, 2011; Fulvia. Una matrona tra i ‘signori della guerra’, Napoli, EdiSes, 2013; (con M. Manca) Introduzione alla storiografia romana, II ed., Roma, Carocci, 2019.

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