
Quando nacque questa unità tattica?
Questa è precisamente la domanda su cui si sono concentrati gli studi sulla coorte repubblicana. La tesi argomentata in questo testo è che negli eserciti romani, almeno dal principio del terzo secolo fino al primo, si possa riscontrare una grande continuità, all’insegna della flessibilità tattica. In questo quadro, sono convinto che si debba ritenere che le coorti siano sostanzialmente coeve allo schieramento manipolare classico. Come semplice gruppo di tre manipoli, infatti, si trovano menzionate in tutta la prima decade di Tito Livio, e non si deve dimenticare, del resto, il fatto che le coorti di alleati latini e italici offrivano senz’altro un modello facile da imitare anche in ambito legionario. La necessità di disporre di corpi di dimensioni inferiori a quelli di un’intera armata è, chiaramente, propria di qualunque esercito, moderno così come antico. Anche in ambito romano tale necessità è chiaramente restituita dalle fonti, che a più riprese, per esempio, parlano del distaccamento di un intero ordo (cioè di una linea di dieci manipoli di hastati o principes o triarii) per determinati scopi tattici. Nel 297, per esempio, Fabio Massimo Rulliano occupò una collina con dieci manipoli di hastati, per accerchiare il nemico (ma manovre simili sono attestate fin dalla metà del quarto secolo). Credo che la coorte sia del tutto assimilabile a questi gruppi di manipoli: si tratta infatti di un raggruppamento di sei centurie (tre manipoli) in grado di portare a termine compiti tattici di minor rilevanza rispetto a quelli che richiedevano l’impiego di un’intera legione (aggiramento, imboscata, foraggiamento, compiti di scorta), e, come tale, non mi paiono assolutamente da rigettare come anacronistiche le menzioni che si riferiscono al periodo precedente le guerre puniche. Tentare di definire un preciso momento di “invenzione” o di “nascita” della coorte, dunque, equivale a mio parere a chiedersi quando l’esercito romano abbia avvertito il bisogno di distaccare gruppi di soldati più piccoli dalla legione. Non penso si debba dubitare, come le menzioni delle fonti fanno intravedere, che tale bisogno sia contemporaneo all’esercito manipolare repubblicano.
Quali impieghi ebbe questa unità, dalle origini fino alle campagne di Giulio Cesare, e come era organizzata?
Quanto all’organizzazione, la coorte si configura come una semplice riunione in un singolo corpo di tre manipoli, uno di hastati, uno di principes e uno di triarii, ovvero di sei centurie (ricordo che nell’esercito manipolare ogni manipolo è composto da due centurie). A partire dalla fine del terzo secolo, la standardizzazione delle armi dei legionari pare a buon punto, e le differenze in merito tra i tre ordini paiono ridotte al minimo: l’ultima menzione di un equipaggiamento dei triarii diverso rispetto a quello degli altri due ordines risale al 222. Pare di poter dire, quindi, che tutte le sei centurie di ogni coorte fossero da questo periodo in avanti sostanzialmente identiche le une alle altre. Quanto alla disposizione in campo e agli impieghi tattici, invece, le cose si complicano. La tesi centrale di questo libro è che l’esercito romano fosse un’istituzione estremamente flessibile e capace di assumere disposizioni e conformazioni diverse a seconda delle circostanze: una malleabilità che, a mio giudizio, lo storico acheo Polibio aveva già ben notato nel secondo secolo. Ritengo che la coorte debba essere di diritto inserita in questo contesto, e che ogni tentativo di ridurla a una conformazione precisa e statica significhi travisare la natura dell’esercito repubblicano (ben diverse saranno invece le coorti del principato). In contesti diversi, infatti, la vediamo mutare notevolmente caratteristiche. Facciamo qualche esempio: nel 211, in Spagna, a L. Marcio, cavaliere romano, toccò il duro compito di raccogliere i cocci degli eserciti dei due Scipioni (padre e zio del futuro Africano) sconfitti da Asdrubale. In un attacco a due campi cartaginesi, l’intraprendente Lucio fece appostare in un bosco, “con inganno punico”, dice Livio, due coorti, insieme ad alcuni cavalieri. Si tratta di un’imboscata notturna, condotta da corpi mobili e agili che dovevano intercettare ogni fuggitivo e impedire le comunicazioni tra i due campi. Facciamo un salto cronologico fino al 206: questa volta, il comandante romano è proprio Cn. Cornelio Scipione, che schiera, apprendiamo da Livio e Polibio, quattro coorti contro gli Ilergeti in rivolta. Questa volta, le unità romane sono quadrate e compatte, anche a causa della strettezza del campo di battaglia; paiono molto diverse da quelle impiegate solo cinque anni prima. Passiamo alle guerre in Oriente, in cui si ravvisa la stessa varietà. Nel 198 T. Quinzio Flaminino ottenne il comando delle operazioni contro la Macedonia. All’assedio della città di Atrax, le sue coorti sono secondo Livio corpi estremamente sciolti e flessibili, che cercano di farsi strada, a ranghi molto aperti, nel fitto muro delle sarisse macedoni. Eppure, appena l’anno prima, Galba, predecessore di Flaminino, aveva impiegato coorti estremamente compatte (“quadrato agmine”, dice Livio) contro arcieri cretesi, nella stessa guerra contro Filippo! Ovviamente i casi che ho riportato qui sono solo alcuni di quelli che si potrebbero citare, ma rendono conto bene, a mio parere, di una situazione molto complessa e continuamente in divenire. L’esercito romano pare essere in grado di adattarsi alle differenti condizioni in cui si trova a combattere, e non posso che trovarmi personalmente d’accordo con Polibio sul fatto che proprio questa caratteristica abbia costituito la sua maggior forza in età repubblicana.
Quali teorie sono state avanzate per spiegare l’introduzione della tattica coortale nell’esercito romano di età repubblicana?
Ad oggi, le teorie sono state fondamentalmente due. La prima ha avuto origine negli studi eruditi di area tedesca ancora alla fine del diciannovesimo secolo, e la sua fortuna è rimasta sostanzialmente immutata fino alla metà del secolo scorso. Secondo questa ipotesi, la coorte come unità tattica legionaria sarebbe stata creata da C. Mario, probabilmente tra la fine della guerra Giugurtina e la campagna del console contro Cimbri e Teutoni (siamo dunque negli ultimissimi anni del secondo secolo a.C.). Tale opinione è in effetti supportata da diversi dati: a) l’importanza di Mario nel completamento del processo che portò al costante arruolamento dei capite censi (cittadini poveri fino a quel momento in linea di massima esenti dal servizio), cosa che potrebbe averlo condotto a inquadrarli in unità nuove; b) il rilievo dato a Mario nelle fonti (in particolare nella Vita plutarchea) come riformatore militare; c) il fatto che nell’opera dello storico Sallustio dedicata alla guerra Giugurtina si trovino le ultime – scarse – menzioni del combattimento in manipoli, che si presume siano stati sostituiti dalla coorte. Si intende che questi argomenti non sono decisivi, fondati come sono in larga parte sul silenzio delle fonti più che su loro esplicite affermazioni. Dalla metà del secolo scorso, dunque, si è affermata una teoria che è oggi largamente maggioritaria, e diffusa specialmente negli studi di polemologia antica italiani. Sulla base delle attestazioni di Polibio e di Livio, si è retrodatata l’introduzione della coorte alla fase spagnola della seconda guerra punica, e in particolare all’azione di P. Cornelio Scipione, il futuro Africano. Questa ipotesi ha avuto l’indubbio merito di approfondire il problema, ricollegando la questione dell’invenzione di questo corpo tattico alla natura delle guerre nell’Occidente spagnolo. La necessità di coniugare una buona flessibilità con la possibilità di concentrazione delle forze in uno schieramento compatto, generata dalla compresenza negli eserciti iberici di guerriglieri in grado di infastidire indisturbati corpi troppo massicci e di potenti fanterie “di linea”, avrebbe spinto il grande comandante ad abbandonare l’ordine manipolare, troppo dispersivo, e a suddividere invece l’esercito in coorti. I trenta convenzionali manipoli della triplex acies romana verrebbero dunque ad essere riuniti nelle dieci coorti (tre manipoli per ciascuna) poi canoniche negli eserciti della tarda repubblica. Dal teatro spagnolo, poi, la novità venne progressivamente esportata in tutti gli altri contesti militari, e la coorte si impose, pare abbastanza rapidamente, come unità tattica fondamentale della legione. A riguardo delle guerre civili sillane, infatti, è chiaramente impiegata da tutti gli storici come unità di conto delle forze dei vari comandanti, soppiantando in questo addirittura la legione (si preferisce spesso dire “venti coorti” invece che “due legioni”).
Quali obiezioni possono essere mosse all’approccio storico tradizionale al problema?
A entrambe queste correnti interpretative possono essere mosse, a mio parere, diverse obiezioni, che mi hanno appunto portato a tentare di offrire una soluzione alternativa. Il dato fondamentale presupposto dagli studiosi che si sono occupati della questione è l’esistenza di una grande riforma tattica (“a major tactical reform”, come si è espresso il fondatore della seconda teoria) dell’esercito romano. Di tale riforma, tuttavia, non si trova alcuna evidenza specifica nelle fonti conservate. Gli autori greci e latini che descrivono le guerre repubblicane di Roma non fanno menzione di una rivoluzione militare all’insegna della coorte, e le fonti antiquarie non parlano di un momento di introduzione (e, come si è visto, questo è tanto più significativo, per il fatto che invece gli antiquari latini si affannavano a ricercare l’origine storica precisa del manipolo e della centuria). Gli storici moderni, insomma, hanno presunto l’esistenza di una riforma tattica per il semplice fatto che le fonti tendono, avvicinandosi alla tarda repubblica, a impiegare sempre meno il termine “manipulus” e sempre più il vocabolo “cohors”. A mio avviso, però, il mutamento di linguaggio non è incompatibile con un’origine molto più antica della coorte, che semplicemente prese a soppiantare il manipolo con il passare del tempo, specialmente in ambito amministrativo. Quanto al metodo di indagine, la storiografia si è attenuta a un’indagine che potremmo definire “statistica”, fondata sulla raccolta delle attestazioni delle varie unità tattiche delle fonti. Solo in ambito italiano c’è stato un tentativo di analizzare in modo più circostanziato il contesto tattico dell’impiego di tali unità, contesto che è a mio parere di gran lunga più importante, per la comprensione di questi problemi, rispetto a una mera analisi terminologica. Volendo però attenersi al metodo ad oggi preponderante, a mio avviso le soluzioni offerte non hanno saputo rendere adeguatamente conto delle menzioni della coorte sparse in modo abbastanza frequente nelle Storie di Livio, negli Stratagemmi di Frontino, nelle Antichità romane di Dionigi d’Alicarnasso (anche se in quest’ultimo caso entrano in gioco valutazioni sulla traduzione in greco dei termini tecnici romani). Pare che, a giudizio di questi tre storici, la coorte esistesse in sostanza fin dagli albori di Roma; e proprio a partire da questa loro convinzione ho tentato di verificare se e in che modo si possa ravvisare l’esistenza della coorte romana nel periodo precedente le guerre puniche.
Gabriele Brusa (Varese, 1995) si è laureato in Antichità Classiche e Orientali presso l’Università di Pavia, dove è attualmente iscritto al Dottorato di ricerca in Storia (XXXV ciclo). Si è occupato di storia militare romana, con particolare riguardo per l’epoca repubblicana. Attualmente, sta studiando i rapporti tra la cultura militare greca e quella romana.