“«Le concordanze delle storie». Il modello degli antichi dall’Umanesimo all’Illuminismo” di Paolo Cherchi

Prof. Paolo Cherchi, il Suo nuovo libro, edito da Viella, si intitola «Le concordanze delle storie». Il modello degli antichi dall’Umanesimo all’Illuminismo: perché il titolo appare tra virgolette? È una citazione?
«Le concordanze delle storie». Il modello degli antichi dall’Umanesimo all’Illuminismo, Paolo CherchiGrazie di cuore per la ripetuta ospitalità e per la cortesia con cui mi accoglie. E per rispondere alla sua domanda, le dico subito che effettivamente si tratta di una “citazione” ricavata da Anton Francesco Doni che usa l’espressione “concordanza delle storie” a proposito di un’opera intitolata Officina di un umanista francese del primo Cinquecento. In quest’opera l’autore — il suo nome Jean Tixier de Ravisy e in italiano noto come Ravisio Testore — raccoglie un numero altissimo di curiosità storiche, dal tipo di calzari usati nel mondo antico e moderno, oppure degli uomini antichi e moderni morti per il morso di un serpente, delle donne antiche e moderne che uccisero i mariti perché ubriachi … e una serie davvero infinita di cose simili, e per ogni dato cita gli autori dal quale li ricava. In questo modo Ravisio Testore “concordava le storie” degli antichi e dei moderni.

Che rilevanza ha quest’operazione di “concordare storie” nel costituire l’argomento di un intero libro?
Da quanto ho appena detto sembra che si tratti semplicemente di raccogliere luoghi comuni, e di questo in fondo si tratta. Ma il modo di raccogliere dati da due mondi o da due culture lontane per stabilire ciò che hanno in comune fu una pratica che getta molta luce sul modo in cui l’Umanesimo e il Rinascimento assunse il mondo antico come modello e la maniera in cui volle imitarlo. Il modello antico di simili “concordanze” è l’opera di Valerio Massimo che fece una raccolta di aneddoti illustranti virtù e vizi dei Romani, e in ogni capitolo aggiungeva una sezione di “externi”, cioè di non-romani, in cui si trovavano le stesse virtù e gli stessi vizi. Fu Petrarca a capire il senso di questo “concordare” culture diverse, e lo traspose nel modello che “concordava” antichi e moderni. Ora, se si ricorda l’importanza che ebbe il mondo antico per Petrarca e poi per gli umanisti, si capisce quanto fosse significativo questo parallelismo fra le due culture: quella antica era “esemplare”, ma quella moderna, imitandola, faceva capire quanto fosse efficace il suo insegnamento. E non solo: faceva vedere che la “humanitas”, pur con le differenze dovute a varie circostanze, è sempre presente nella storia. Se così non fosse, il mondo antico non avrebbe alcuna “esemplarità”. Studiarlo, dunque, significa conoscersi e ritrovarsi in esso. È uno dei principi fondativi dalla cultura umanistica.

Come procedette questo metodo di concordare le storie? Produsse generi letterari particolari?
Certamente. Uno dei generi che combinava antiche e moderni, fu quello delle “visioni” del tipo dei Trionfi di Petrarca e dell’Amorosa visione di Boccaccio, un genere che ebbe una fortuna grandissima nel Quattrocento e non solo in Italia, per non dire della Divina Commedia dove si danno delle “concordanze” ma il modo di interpretarle è alquanto diverso da quello delle “visioni” appena ricordate. Nel Cinquecento questo genere, che si prestava molto a narrative allegorizzanti, tende a scomparire, e prospera invece quella del “luogo comune” come vediamo nell’Officina. Il richiamo al mondo antico era costante e d’obbligo, e produsse repertori che favorivano il rinvenimento di queste similarità che poi affiorano costantemente negli scritti rinascimentali. Il primo capitolo del mio libro ricostruisce la storia di tali “concordanze”, e dei generi letterari che produsse. Un secondo capitolo si concentra sui modi di “vivere” tali concordanze, ricreando il mondo antico in modo da renderlo “sincronico” o “adiacente” con il nostro. Il che vuol dire che si ripeteva il mondo antico in tanti modi che vanno dall’architettura alle scritture in latino, al disegno delle città e al modo di armare eserciti. Quando questo fenomeno cominciò a perdere attualità perché sopraffatto dalla stagione della filologia critica, l’uso di concordare storie fu continuato nei generi della “bibliothecae” ed enciclopedie, come ad esempio quella di Lepinius che concordava non tanto storie, quanto studi che avevano raccolto tali concordanze.

Ora, il fenomeno di concordare storie non si diffuse solo tra le élites culturali, ma informò tutta una cultura. Lo studio di un poeta di provincia, Ganimede Panfilo, prova che la moda delle “concordanze” arrivava anche nelle periferie culturali, segno tangibili della sua diffusione. Tanto per fare un esempio, questo poeta, scrivendo di un suo figlio nato senza ano, ricorda vari casi simili registrati nel mondo antico! Fondamentale in tutto questo è il modo in cui si studiava il latino non solo per accedere a tanta letteratura scritta in latino, ma per farne una lingua di uso quotidiano. Lo provano i manuali, come quello di Juan Luis Vives, fatto di dialoghi in latino sulle situazioni più comuni nel giorno di signorino che chiede al domestico che gli lucidi le scarpe e che gli dia le calze pulite, o che gli prepari una bibita rinfrescante in un pomeriggio torrido, cioè tutto un linguaggio che non è esattamente quello dei classici ma di quello che si immaginava si parlasse a Roma nelle situazioni domestiche. In questo modo si “riviveva” o si “ricreava” il mondo antico, e la storia antica correva parallela a quella moderna.

Ma per quanto riguarda la lingua, i classici erano considerati tutti alla stessa stregua, erano tutti “modelli” di buon latino?
No, e infatti questa domanda è l’oggetto di due capitoli del libro dedicati entrambi allo studio del “canone” degli autori da leggere. Il canone è come una “struttura” e in quanto tale resiste alle modifiche ed è fondamentale per capire le impalcature che regge. E per questo, un problema vitale per la continuità culturale di cui parliamo era lo studio del canone che guidava il processo di acculturazione. Il primo studio segue la storia del canone dalle scuole medievali fino alle proposte di Jacopo Facciolati, del Seminario di Padova nel pieno Settecento. In questo studio si vede come lentamente vennero eliminati tanti autori, come vennero formandosi le nozioni di “età aurea”, “argentea”, e le altre fino all’età “lutea” o di fango che era quella del pieno medioevo. E si nota la tendenza a privilegiare lo studio degli autori dell’età aurea ritenuta la migliore dal punto di vista linguistico. Un altro capitolo è dedicato al canone voluto dalle scuole dei Gesuiti, scuole che si diffusero in tutto il mondo, ed ebbero un ruolo fondamentale nella formazione delle classi culturali mondiali. Nel complesso i Padri Gesuiti si attennero agli autori dell’età aurea, perché la loro lingua era la più chiara. In questo si trovavano d’accordo con gli umanisti, ma a differenza di questi, i Gesuiti “non amavano” i classici perché non ne ricavavano alcun insegnamento morale che invece traevano dalle Sacre Scritture e dall’insegnamento della Chiesa. Ai Gesuiti interessava in modo particolare la lingua come veicolo di comunicazione internazionale per diffondere il messaggio della Chiesa Romana, e in effetti, grazie al loro latino, l’ordine di Ignazio di Loyola portò la lingua di Roma in tutto il mondo conosciuto. Essi sostennero la latinitas dell’età aurea, e seguirono il modello stilistico di Cicerone.

E come si passò ad una nuova cultura non più modellata sul mondo antico?
In parte il successo delle letterature in volgare faceva concorrenza a quelle classiche; in parte il progresso delle scienze — da quella militare a quelle mediche a quelle geografiche – instillavano qualche dubbio sul “sapere” degli antichi; in parte la rivoluzione nel rapporto etica/politica e vari altri fattori di questo genere lentamente erosero la suggestione esercitata dal mondo antico, e si levò qualche voce di indipendenza e di rigetto. Ma le due culture sopravvissero per decenni in modo “vischioso”, un modo in cui la cultura antica esercitava il suo potere di modello che, però, lentamente ma inesorabilmente perdeva dal suo primato. I germi della “querelle” fra gli antichi e moderni erano già presenti verso la metà del Cinquecento. A questo si aggiunse il fenomeno della Riforma e l’avvento della filologia critica che comportò mutamenti profondi, fra questi ricordiamo la scomparsa del greco nella cultura italiana e il suo fiorire nelle culture protestanti.

Qualche episodio culturale in questo senso.
Due capitoli del libro sono dedicati a questo desiderio di liberarsi dal giogo degli antichi. In Italia ci furono gli episodi di Secondo Lancillotti e di Alessandro Tassoni, e in Francia ci fu la ben più rumorosa vicenda della Querelle des anciens e des modernes, che ebbe risonanza europea. E fu soprattutto la rivoluzione scientifica dei Galileo e dei Bacone che contribuì in modo vitale a ridimensionare la grandezza degli antichi e a far apprezzare la supremazia dei moderni. Anche il canone degli autori da studiare e da imitare si restrinse sempre di più agli autori la cui lingua sembra rappresentare il modello linguistico migliore, ed era un latino stilisticamente lontano dalle preferenze stilistiche baroccheggianti.

Come si chiude il libro?
Ho dedicato il capitolo finale ad un episodio che mi sembra che illustri al meglio la parabola di questa soggezione e distacco nei riguardi degli antichi. Ho scelto di studiare le vicende delle Sibille che furono accettate dal mondo cristiano perché alcuni dei loro carmi preannunciavano — o così si credeva — la venuta di Cristo Redentore. Questo mito fu vigoroso durante il Rinascimento, ma l’avvento della nuova filologia critica – quella che, tanto per intenderci, si occupò del Medioevo, della storia della Chiesa, della “storicità” delle narrative bibliche e di tanti altri fenomeni ignorati dagli umanisti – portò ad un progressivo eclissamento delle Sibille, nonché alla diffusione del “profetismo” rinascimentale e seicentesco, e le sibille furono degradate da figure storiche a finzioni antiche.

E scomparvero perché il distacco dal mondo antico era ormai diventato reale a molti livelli. Non si fecero più concordanze delle storie e questo perché anche il concetto di storia era stato modificato dalla cultura illuministica. Per Petrarca e per gli umanisti, la storia era l’inveramento di alcuni principi fermi che sono universali e anteriori e indipendenti dalla storia stessa. E proprio grazie a questa concezione era possibile vedere le “concordanze delle storie” che mettevano in luce il permanere della humanitas attraverso mutevolezza delle storia. La cultura illuministica, invece, vide quei principi come la conquista di una storia che “progredisce”. Da questo punto di vista, le “concordanze” diventavano frutto del caso, ed erano buoni criteri per gli esercizi di retorica, e non si basavano in modo alcuno sul principio fisso di ciò che costituisce la “humanitas”.

Il libro, insomma, illustra da un’angolatura nuova la continuità del mondo antico in quello umanistico rinascimentale. E un modo nuovo di vedere le cose porta alla luce nuovi sensi di cose ben note, e produce soprattutto un’interpretazione inedita di fenomeni noti indicandone il perché si affermarono e perché il come si dissolsero. Credo che questo sia il pregio e l’originalità del libro. E vorrei sperare che venga letto in questa luce.

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