Le commedie di Plauto

«Tito Maccio Plauto (o Macco; Tìtus Màccius Plàutus, ca. 250-184 a. C.) fu un autore romano di commedie. Nato a Sàrsina, in Umbria, era presumibilmente di condizioni modeste. Venti delle 130 commedie che gli furono attribuite sono sopravvissute, tutte comprese nelle 21 indicate da Varrone come autentiche. Della ventunesima, la Vidulària (La commedia del bauletto), rimangono solo un centinaio di versi.

Le commedie sono tutte adattamenti da testi della Commedia Nuova greca del IV e III secolo a. C., ora perduti; si è accertato che tre o quattro derivano da Menandro, due da Difilo, due da Filemone e una certamente da Alessi. Esse riproducono la vita greca, ma la realtà romana si fa spesso largo fra le maglie dell’intreccio. Furono conosciute tra i Romani come fàbulae palliàtae. Non fanno quasi mai della satira sulle vicende pubbliche. Il successo di Plauto nel conseguire l’approvazione del pubblico si basava sulla libertà e naturalezza con le quali trattò gli originali greci. In pratica egli rifece completamente queste opere, semplificando o riducendo la trama, rendendone vivace lo svolgimento e introducendo nel contempo altri elementi volti a piacere al suo pubblico romano contemporaneo.

Si tratta di brevi scene di repertorio, in cui i personaggi si scambiano minacce o insulti; di motivi fissi come quello dello «schiavo che corre» che entra in scena per consegnare un messaggio (apparentemente in fretta ma compiendo una gran quantità di azioni secondarie); dello schiavo nel ruolo del comico popolaresco, audacemente franco e impertinente, talvolta in contrasto con uno schiavo fedele che manifesta buoni sentimenti verso i suoi padroni; di facezie vicine al gusto quotidiano, di una gran quantità di allitterazioni, battute e di continui giochi di parole. Inoltre, invece di spettacoli basati quasi interamente sul dialogo parlato (divérbium), Plauto accrebbe molto (fino a circa due terzi della commedia) gli elementi del canto e del recitativo (càntica), cosicché gli spettacoli rassomigliavano a commedie musicali. La parte parlata era scritta principalmente in senari giambici, ma la scansione era molto meno regolare che negli autori più tardi ed era fondata in gran parte non sulla quantità ma sulle figure foniche e ritmiche. La parte cantata era scritta in un grandissimo numero di metri lirici. Queste commedie si fanno soprattutto apprezzare per la loro straordinaria ricchezza linguistica e metrica e per l’estrema vivacità con cui l’autore crea continue figure di suono e di pensiero: lo stile di Plauto è inconfondibile.

Le commedie presentano varietà di tipi: commedia sentimentale nei Captìvi, familiare nel Trinùmmus, avventurosa nella Rùdens, burlesca nell’Amphìtruo e farsesca nel Mìles gloriòsus. La maggior parte degli intrecci si fonda sugli espedienti di uno schiavo intraprendente per secondare gli affari d’amore del suo giovane padrone, che è ostacolato dal rivale, un mezzano o un padre severo, La ragazza in questione è di solito una schiava-prostituta che alla fine si scopre essere nata libera e in condizione così di sposare il suo innamorato ateniese. Spesso l’eroina era stata rapita nella fanciullezza e il suo riconoscimento costituisce il culmine della commedia. Tra i caratteri di repertorio possono essere inclusi il soldato vanaglorioso, il parassita e il cuoco. Le più conosciute sono: Amphìtruo, Aululària, Bàcchides, Captìvi, Menaéchmi, Mostellària, Mìles gloriòsus, Pséudolus, Rùdens, Trinùmmus. Sono meno popolari: Asinària, Càsina, Cistellària, Curcùlio, Epìdicus, Mercàtor, Pérsa, Poénulus, Stìchus, Truculéntus.

Queste commedie sono quasi l’unica testimonianza che abbiamo sulla lingua latina in quel periodo. Furono molto ammirate nella tarda repubblica e sotto i primi imperatori, ma persero il favore del pubblico più tardi per la difficoltà del linguaggio.»

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