“Lana, linum, purpura, versicoloria. I legati «tessili» fra diritto romano e archeologia” di Francesca Scotti

Prof.ssa Francesca Scotti, Lei è autrice del libro Lana, linum, purpura, versicoloria. I legati «tessili» fra diritto romano e archeologia edito da Jovene: quale importanza avevano, nel mondo romano, le attività di filatura e tessitura?
Lana, linum, purpura, versicoloria. I legati «tessili» fra diritto romano e archeologia, Francesca ScottiNel mondo romano la filatura e la tessitura ebbero sempre un grande valore sia simbolico, sia socio-economico.

Sotto il primo aspetto, bisogna osservare che il lavoro tradizionale tessile svolto dalle matrone e avente per oggetto la lana fu concepito in tutta l’antichità romana come emblema delle virtù femminili, le quali si possono enucleare in una serie di aggettivi ricorrenti sia nelle opere letterarie, sia nelle epigrafi funerarie: “casta”, “pudica”, “pia”, “frugi”, “domiseda” e “lanifica”. In particolare l’attributo “lanifica” dalle origini fino a tutto il iv sec. a.C. dovette alludere sia alla filatura, sia alla tessitura (svolte normalmente entro le mura domestiche), a partire dal iii sec. a.C. alla sola filatura.

Da un punto di vista storico, economico e sociale, fra l’età monarchica e la prima metà del iii sec. d.C., la filatura e la tessitura della lana vennero via via assumendo “volti” diversi, come confermano tra l’altro una serie di passi del Digesto di Giustiniano. Nel primo periodo, cioè fra la monarchia e gli inizi della repubblica, ciascun nucleo familiare usava produrre autonomamente gran parte dei tessuti da impiegare per la realizzazione di vestiti, il che significa che era indispensabile filare e tenere un telaio in casa.

Già dalla seconda metà del iii sec. a.C., tuttavia, si assiste a un progressivo cambiamento nei metodi della produzione tessile, consistente nel passaggio da una manifattura domestica su piccola scala a una su base più ampia, addirittura al di fuori del contesto familiare, organizzata in vere e proprie officinae di tessitura, le c.d. “textrinae” o “textrina”, ove era impiegato personale specializzato, per lo più femminile, di condizione servile oppure libera e retribuita: lanificae, lanipendae o lanipendiae (pesatrici della lana), quasillariae (filatrici), textrices o stamnariae (tessitrici), sarcinatrices e vestificae (sarte). In queste textrinae, del resto, vi erano, oltre a lanipendae, anche lanipendi ed entrambe le categorie avevano il compito di attribuire una certa quantità di lana da filare, il c.d. “pensum”, alle quasillariae di cui controllavano l’operato. Mentre, tuttavia, alla tessitura potevano essere addetti anche gli uomini, la filatura era competenza esclusiva delle donne. Alcune di queste textrinae erano autonomamente gestite da liberte, talvolta insieme ai mariti, pure liberti. Comunque è probabile che esistessero altresì spazi destinati al solo svolgimento della filatura, detti “lanifici”, in cui le quasillariae filavano ognuna il rispettivo pensum di lana quotidiano, loro consegnato previa pesatura dei bioccoli di lana.

In ogni modo, nonostante il consolidarsi di una manifattura tessile artigianale, ancora nel ii sec. a.C. nelle città si continuava a filare e a tessere nelle abitazioni private ove di regola le ancillae svolgevano queste operazioni sotto il controllo della matrona. Parallelamente vestiti e tessuti sia economici, sia costosi si vendevano nei negozi e nei mercati; in particolare, gli abiti già confezionati erano di qualità assai più varie di quelle degli indumenti fatti in casa e si caratterizzavano per uno sprettro di colori più ampio.

Si può dunque pensare che nell’ultima parte della repubblica la produzione tessile urbana avvenisse in parte su larga scala, in parte nella sfera domestica. Ma si deve anche rilevare che nelle villae di campagna le schiave venivano sfruttate con il ruolo di “lanificae” per la lavorazione della lana e la sua trasformazione in abbigliamento per la familia rustica, com’è confermato da qualche testo del Digesto (D.33.7.12.5 e 6 Ulp. 20 ad Sab.; D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat.).

Per quanto attiene all’età imperiale, occorre distinguere fra diversi contesti: quello domestico urbano e rustico e quello artigianale, urbano e rustico.

A Roma, anche se a partire dall’età augustea la consuetudine di confezionare abiti in casa divenne sempre meno diffusa fino a essere avvertita come superata, le iscrizioni sepolcrali urbane sembrerebbero cionondimeno attestare la persistenza dell’uso di realizzare i vestiti in casa, pur con modalità spesso diverse rispetto all’epoca precedente. È possibile infatti che a Roma il lanificium fosse eseguito (1) nella famiglia imperiale e in quelle aristocratiche dal personale servile sotto la guida di lanipendi, cioè di schiavi che provvedevano anche alla pesatura e all’assegnazione, alle ancillae quasillariae, dei pensa quotidiani di lana da filare; (2) nelle famiglie abbienti, ma non nobiliari, e in quelle della classe media, ad opera di schiavi sotto la supervisione di lanipendae, nella posizione di vere e proprie governanti; (3) nelle famiglie di ceto più basso dalle stesse matres familias magari con l’assistenza di ancelle. Forse, in qualche caso, nelle grandi familiae urbanae, la filatura e la tessitura erano destinate a scopi commerciali, così com’è possibile che, talvolta, le medesime finalità fossero perseguite in contesti più modesti.

Comunque, anche se risulta improbabile che le matrone aristocratiche si dedicassero continuativamente alle loro lane, la responsabilità del lanificium, pur in presenza di lanipendi, restava di per sé a loro carico, il che trova un interessante riscontro in alcuni frammenti del Digesto (D.24.1.29.1 Pomp. 14 ad Sab.; D.24.1.30 Gai. 11 ad ed. prov.; D.24.1.31 pr. e 1 Pomp. 14 ad Sab.).

In campagna, nelle villae rusticae, la tessitura in particolare doveva essere un’attività ancora ampiamente praticata e i telai dovevano rientrare fra le dotazioni di queste: qui le vilicae avevano il compito, che un tempo era stato delle mogli dei proprietari terrieri, di sopraintendere al lavoro di filatura e tessitura delle ancillae lanificae per la confezione dell’abbigliamento destinato alle vilicae stesse, agli schiavi sorveglianti e agli altri degni di rispetto, il che è comprovato da qualche passo del Digesto (D.33.7.12.5 e 6 Ulp. 20 ad Sab.; D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat.). Resta ancora da capire se la realizzazione di stoffe nelle grandi fattorie fosse votata alla sola autarchia o anche a produrre un surplus riservato all’esportazione.

È altrettanto possibile che nelle zone rurali e meno urbanizzate il lanificium domestico avesse luogo in contesti familiari meno abbienti: erano molte, infatti, le famiglie nelle campagne i cui membri usavano vestiti creati dalle donne di casa.

Quanto ai contesti artigianali urbani, mentre la filatura continuò a essere prerogativa di donne e bambini, la tessitura diventò appannaggio per lo più degli uomini: i tessitori, infatti, che lavoravano in laboratori erano più spesso maschi (“textores”), il che si può anche spiegare con il fatto che si trattava di un’attività fisicamente più pesante che implicava una tecnologia più avanzata di quella richiesta per la filatura. La filatura, peraltro, fu sempre considerata attività più “femminile”, al punto che la filatura finì con l’essere concepita come l’occupazione muliebre per eccellenza alla quale fu impossibile per gli uomini essere associati senza essere tacciati di omosessualità.

Non si può, infine, escludere che un’artigianato a conduzione familiare sia fiorito anche in certe zone dell’agro italico (soprattutto nelle piccole fattorie).

In che modo il diritto romano disciplinava i legati di lana, linum, versicoloria, vestis o vestimenta?
La fonte più significativa da cui ha preso le mosse il mio studio è il lungo fr. 70 D. 32, tratto dal xxii libro del commentario di Ulpiano ad Sabinum, dove si effettua un’analisi terminologica delle diverse fibre, sia animali (come la lana di pecora, lepre, capra, inclusa la piuma d’oca), sia vegetali (come il cotone e il lino), destinate a essere lavorate ai fini soprattutto della confezione di stoffe, vestiti e accessori, lasciate in legato.

Questo testo presenta pesanti problemi interpretativi, il che ha indotto Mommsen, nell’edizione critica dei Digesta (maior e minor), a proporre in nota alcuni rilevanti cambiamenti, che furono ripresi dagli editori del c.d. “Digesto Milano” e in piccola parte anche da Lenel nella Palingenesia Iuris Civilis e che consistono, ad esempio, nello spostamento di intere frasi da un paragrafo all’altro all’interno del frammento. Basti dire, in questa sede, che tali proposte rendono il testo comprensibile e chiaro e non soltanto tengono conto del normale ordine di successione delle fasi di lavorazione della lana e del lino, ma sono anche in grado di ripristinare una coerenza logica all’interno di pr.-4, 11 e 12 D. 32.70 e fra questi e altri passi del Digesto e delle Pauli Sententiae in materia di legati di vestis o vestimenta. Per questa ragione ho scelto di accogliere tali suggerimenti suffrangandoli con notizie tratte dalle fonti letterarie o dai risultati delle scoperte archeologiche. E la grandezza dello studioso è amplificata dal fatto che questi, all’epoca in cui formulò tali congetture, non poteva contare né sull’apparato di studi antichistici innovativi e aggiornati, né sulla messe di risultanze archeologiche di cui si dispone attualmente.

Nella parte introduttiva di questo frammento (pr.-4) emerge che la “lana” oggetto di legato era intesa da Ulpiano prima di tutto come lana di pecora, purché non artificialmente colorata. Essa peraltro, ad avviso del giurista, poteva trovarsi sotto forma di

  • lana grassa appena tosata o strappata (“sucida”);
  • lana lavata, eventualmente lavorata con l’olio e quindi sottoposta a districatura (“lota” e “inpectita”);
  • lana cardata o pettinata (“pectita”);
  • lana filata («neta»);
  • lana i cui fili dell’ordito erano montati sul telaio e quelli della trama avvolti nella c.d. “bambolina” o nella spola, senza che tuttavia la tessitura avesse avuto inizio (“ad telam perventa”).

È plausibile inoltre che il giureconsulto, nell’accennare alla “tela” intendendola come “telaio”, alludesse alla tipologia di telaio “a doppio subbio”: siamo infatti in un periodo (prima metà del iii sec. d.C.) in cui quest’ultimo era ormai generalmente diffuso per la tessitura della lana, mentre è verosimile che quello a pesi fosse ancora impiegato per la tessitura del lino.

Successivamente Ulpiano (D.32.70.5-7) fornisce una serie di indicazioni relative alle lane che, pur di pecora, non si possono tuttavia annoverare nella “lanaeappellatio. Fra queste, egli cita innanzi tutto il «tomentum» (§ 5), cioè il residuo di lana ovina che aderiva ai calderoni di bronzo al termine del processo di pulitura a caldo e che, una volta staccato, veniva impiegato soprattutto come imbottitura per materassi e cuscini. Ma del legato di lana, a parere di Ulpiano (§ 6), non fa parte neanche la lana adoperata per realizzare specie di vestiti utili a riparare il corpo dal freddo (“quasi vestimenta facta valetudinis gratia”) oppure raffinati ed eleganti, destinati a trasmettere sensazioni di piacevolezza e gradevolezza («vel deliciarum gratia»). Non sono poi comprese nella nozione di “lana legata”, secondo il giurista (§ 7), neppure le lanae utilizzate come fasciature o destinate a usi medicinali (lanae «quae fomentationis gratia parata sunt vel medicinae»).

Vengono viceversa annoverati da Ulpiano (§§ 8 e 9) nella nozione di “lana legata” alcuni generi ‘speciali’ di “lana” per conformazione o composizione organica, come le pelli di pecora con il vello («pelles lanatae»), la lana di lepre (“leporina lana”), la piuma d’oca (“anserina lana”), la lana di capra (“caprina lana”) e il cotone (“de ligno lana”).

Tali circostanziate osservazioni non sono presenti nella totalità dei testi pervenutici connessi alla tematica in oggetto: ad esempio le Pauli Sententiae (III 6.82) includono nel legato di lana soltanto la lana sucida, quella lavata ed eventualmente passata nell’olio e districata, quella colorata (ma, come si vedrà, non di purpura), quella pettinata ma non filata. Ulpiano e il giurista delle Pauli Sententiae, per contro, convengono nell’ammettere che il legato di lana si distinguesse da quello di vestis o vestimenta perché soltanto nel secondo era compresa la pezza di stoffa interamente tessuta (D.34.2.22. Ulp. 22 ad Sab.; D.32.52.5 Ulp. 24 ad Sab.; Paul. Sent. III 6.79; III 6.85).

Riguardo, poi, al legato di lino, Ulpiano (D.32.70.11) sostiene che questo avesse per oggetto il lino non pettinato (ossia quello allo stadio di fibra), quello pettinato (cioè quello totalmente privato della scorza), quello filato e quello che, filato, era in opera sul telaio ma di cui non si era ancora terminata la tessitura; in ultimo egli afferma che si dovesse considerare “lino legato” anche quello «tinctum».

Dunque il giurista distingue i legati di lana e di lino sotto vari aspetti. Da una parte, infatti, mentre il lino si poteva lasciare in legato anche montato sul telaio e in corso di tessitura, la lana si poteva legare tutt’al più ordita sul telaio, purché non se ne fosse iniziata la tessitura. Dall’altra, se il lino si poteva legare tinctum, la lana doveva deve essere sempre legata nel suo colore naturale.

Nella parte conclusiva del frammento (§ 12) Ulpiano si occupa dei legati dei c.d. “versicoloria”, termine in cui fa rientrare i filati artificialmente colorati che non fossero in corso di tessitura e tanto meno fossero interamente tessuti. Sono esclusi da tale nozione, invece, i filati naturalmente bianchi, neri o di altro colore, mentre vi sono compresi i filati tinti di “purpura” o di “coccum” perché questi erano coloranti artificiali. Si tratta peraltro di indicazioni di massima, che potevano essere disattese dal testatore.

A proposito, in particolare, del termine “purpura”, Ulpiano (§ 13) afferma innanzitutto che questo include “omnis generis purpura”, compresi i c.d. “fucinum” e “ianthinum”, ma escluso il c.d. “coccum”: il primo doveva essere la tinta purpurea che si traeva della pianta del “fucus thalassion” (un lichene dal colore rossiccio), il secondo una particolare tonalità purpurea tendente al viola e derivante dall’unione dei succhi di pelagio e buccino (entrambi molluschi di due varietà diverse di porpora marina), il terzo il colore rosso tratto da quella che erroneamente gli antichi identificavano con una bacca della quercia o del leccio (in realtà un insetto parassita, detto “Coccus ilicis”).

Ciò significa che il giurista includeva nella nozione di “porpora” sia le porpore marine, come, ad esempio, il ianthinum, sia quelle erbacee o terrestri, come il fucinum, a eccezione del coccum.

Ma per “purpura” Ulpiano (§ 13), oltre al colore, intendeva anche il prodotto finale dell’operazione di tintura, cioè la lana grezza lavata e il filato («subtemen factum», cioè il filo di “trama fatta”) colorati con i succhi dei relativi molluschi. È possibile che il filato cui alludeva il giureconsulto fosse in primo luogo quello di lana. Ma tra questi filati tinti di porpora potrebbero rientrare anche quelli di lino: non soltanto Ulpiano in precedenza (§ 12) aveva sottolineato che questa fibra si poteva pure legare tincta, sia filata che già in corso di tessitura, ma gli stessi esperti informano che, sotto forma di filato, il lino veniva colorato di porpora.

Dei legati di versicoloria si occupa anche Paolo (D.32.78.5 2 ad Vitell.), il quale vi include ciò che è colorato di «coccum», «coracinum», «hysginum» e «melinum»», senza nulla specificare in ordine alla porpora. È dunque verosimile che in questo contesto i termini “coccum”, “coracinum”, “hysginum” e “melinum” alludessero a ciò che era stato colorato con tinture non a base del succo di porpore marine. Del “coccum” si è già parlato nella risposta alla domanda 3): esso era prodotto dal succo di pseudo bacche della “quercus coccifera”; “coracinum” era ciò che era stato tinto di nero corvino con una lumaca di mare così denominata (ma non annoverata dagli antichi fra le porpore marine pur essendo un mollusco gasteropode), con l’estratto di noci di galla unito ad allume o ad atramentum (cioè il solfato di ferro o di rame), con il nerofumo oppure con il bitume (tutte sostanze di origine animale, vegetale, minerale e organica); “hysginum” era ciò che era stato colorato di un rosso violaceo tratto dal succo delle bacche nero-azzurre di un arbusto di montagna detto “hyacinthus”, originario della Gallia, forse il “Vaccinium Uliginosum”, utilizzato soprattutto per l’abbigliamento servile (porpora erbacea); “melinum” era ciò che era stato tinto di un color zafferano o giallastro ottenuto dal succo ricavato da vari tipi di piante (non rientranti nelle porpore erbacee).

Dunque, mentre a parere di Paolo la purpura comprendeva soltanto ciò che era tinto con il succo di porpore marine in contrapposizione a ciò che era colorato con coloranti vegetali (tra cui anche un tipo di porpora erbacea), minerali od organici, che davano il rosso scarlatto (coccum), il nero corvino (coracinum), il porpora (hysginum) e il giallo zafferano (melinum), ad avviso di Ulpiano essa includeva le porpore sia marine che erbacee, a eccezione, come già visto, del coccum.

Ma la peculiare visione di Paolo a proposito del legato di versicoloria si ricava altresì da un altro frammento (D.34.2.32.6 2 ad Vitell.) in cui il giureconsulto, interpretando un legato avente per oggetto “il vestiario, tutto il corredo femminile e tutti gli ornamenti femminili, la lana, il lino, la purpura e tutti i versicoloria ‘lavorati’ e ‘non lavorati’ insieme ad altre cose” («… ‘vestem mundum muliebrem omnem ornamentaque muliebria omnia lanam linum purpuram versicoloria facta infectaque omnia’ et cetera. …»), conclude che nei versicoloria rientravano non soltanto i filati di lana colorati, ma anche la lana grezza lavata e quella tessuta che fossero state colorate, purché non di porpora marina (la purpura, infatti, figurava nella disposizione come bene a sé, distinto dagli altri). Lo stesso, fra l’altro, si legge in Paul. Sent. III 6.82, secondo cui il legato di lana non poteva contenere la lana lota (lavata) tinta di purpura: il che, fra l’altro, rende fiduciosi sulla effettiva paternità paolina del testo.

Sempre dal passo di Paolo appena citato (D.34.2.32.6) emerge inoltre che secondo questo giurista si poteva legare anche la lana artificialmente colorata, mentre, come già visto, ad avviso di Ulpiano (D.32.70 pr.) poteva rientrare nel legato di “lana” soltanto quella mantenente il proprio colore naturale. Al contempo, tuttavia, Ulpiano riteneva possibile (§ 13) che il legato di purpura comprendesse la lana (lavata) tinta di porpora o il filato colorato di porpora.

Quanto al regime relativo ai legati di vestis o vestimenta, vi è una serie di fonti che rivelano che il legato di lana si distingueva da quello di vestis o vestimenta perché soltanto nel secondo era compresa la pezza di stoffa interamente tessuta (D.34.2.22 22 Ulp. ad Sab.; Paul. Sent. III 6.79; D.32.52.5 Ulp. 24 ad Sab. – parte introduttiva –; Paul. Sent. III 6.85).

Non manca neppure una serie di testi di natura casistica tecnicamente complessi, ma pure ricchi di allusioni al contesto sociale ed economico.

Alcuni passi, anche non di diritto ereditario, che richiamano la lavorazione delle fibre (D.24.1.29.1 Pomp. 14 ad Sab.; D.24.1.30 Gai. 11 ad ed. prov.; D.24.1.31 pr. e 1 Pomp. 14 ad Sab.), fanno talora riferimento a dimore urbane in cui il lanificium veniva concretamente svolto dalle ancelle sotto la supervisione, per i ceti più bassi, della mater familias, per le classi medio-alte ma non nobili, della c.d. “lanipenda”, e, per l’aristocrazia, del c.d. “lanipendus”.

Passando invece ai frammenti di stretto diritto successorio, si può osservare che alcuni attengono a un contesto familiare di città, probabilmente abbiente. In un caso, ad esempio, l’ereditando, dopo aver disposto un legato di lana, ha con questa fatto realizzare un vestito: il dubbio, risolto in modo vario dai giuristi, è se l’abito rientri comunque nella disposizione mortis causa, benché nel legato si parli soltanto di lana (D.32.88 pr. Paul. 5 ad leg. Iul. e D.30.44.2 Ulp. 22 ad Sab.).

Altri testi, invece, ove si menzionano schiave specializzate, le c.d. “lanificae” (rientranti nell’instrumentum fundi, se non addirittura nell’instrumentum dell’instrumentum fundi), riguardano l’ambiente delle villae rusticae: come già osservato, queste lanificae in genere provvedevano alla filatura e alla tessitura delle fibre per la confezione dell’abbigliamento degli altri schiavi, anche se non è da escludere che una parte del prodotto tessile semilavorato o lavorato fosse in certi casi riservata alla vendita esterna (D.33.7.12.5 e 6 Ulp. 20 ad Sab.; D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat.).

Ci sono poi passi più generici, ipoteticamente attribuibili sia alla sfera delle grandi villae rustiche, sia a quella di fattorie più modeste, che trattano di legati di uso o di usufrutto di greggi di pecore (D.7.8.12.2 Ulp. 17 ad Sab.; D.22.1.28 pr. 2 Gai. rer. cott. sive aur.).

Si possono inoltre ricordare frammenti nei quali i testatori lasciano in legato alle proprie mogli abbigliamento, corredo femminile, lana, lino, profumi o aromi: essi sono probabilmente riferibili alla cerchia sia delle grandi villae, sia delle fattorie di dimensioni più ridotte, sia delle case di città di un certo livello economico (D.33.2.39 Scaev. 6 resp.; D.7.5.11 Ulp. 18 ad Sab.).

Ma si è pure individuato qualche passo da cui risulta che, salvo volontà contraria del testatore, alla moglie, legataria di lana, lino o porpora, di regola non spettasse la parte di questi beni che il pater familias in vita era solito destinare all’attività commerciale. In uno di questi frammenti, in particolare, si può ipotizzare che il disponente fosse un commerciante di lana, titolare di un laboratorio, non si sa se di una grande città o di un modesto centro abitato di campagna, in cui la fibra veniva filata e tessuta a scopo di vendita ma anche per esigenze puramente interne (D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat.). In un altro, invece, appare più verosimile trattarsi del testamento di un mercante di lane colorate di città (D.33.2.32.2 Scaev. 15 dig.).

È infine particolarmente importante una serie di testi da cui emerge l’abitudine dei patres familias più facoltosi di lasciare in legato alle rispettive consorti purpura o purpurae, talvolta acquistate personalmente o tramite liberti in Asia Minore o in generale in provincia (D.32.58 Ulp. 4 disp.; D.34.2.4 Paul. 54 ad ed.). In questi frammenti il termine “purpura”, a seconda delle fattispecie, potrebbe alludere sia alla lana grezza lavata, sia ai filati di lana e di lino tinti di questo colore. Un’ulteriore conferma della fama acquisita nel mondo romano classico dalla porpora di Tiro come quella di migliore qualità e maggior prezzo, si trae anche da un famoso passo gaiano in tema di pluris petitio (Gai. IV 53d).

Come si vede, tutti questi testi sono difficilmente comprensibili senza l’aiuto delle fonti letterarie e dell’archeologia. Per questo, un’ampia parte del volume è dedicata proprio a mostrare il significato dei termini tecnici citati dai giuristi attraverso il richiamo a una serie circostanziata di notizie che proviene da queste fonti sia sulle tecniche di lavorazione della lana e del lino, sia sui coloranti tessili.

Come avveniva la lavorazione della lana e del lino nel mondo romano?
Le informazioni relative alle diverse fasi di lavorazione della lana sono indispensabili per comprendere appieno la terminologia e le problematiche giuridiche sottese a D.32.70 pr.-4 Ulp. 22 ad Sab. e a Paul. Sent. III 68.2.

Il ciclo di lavorazione della lana si può fare partire dalla c.d. “lavatura”, anche se non tutti sono d’accordo sul punto, in quanto alcuni, ad esempio, preferiscono iniziare con la tosatura. Seguono (l’eventuale) colorazione, la cardatura e/o pettinatura, la filatura e la tessitura.

Vale comunque la pena di spiegare brevemente in che cosa consistesse la c.d. “tosatura”, anche se è probabile che, almeno nella fase più risalente della storia di Roma, il vello venisse di regola strappato, piuttosto che tosato. La tosatura avveniva in genere fra l’equinozio primaverile e il solstizio d’estate, quando, cioè, le pecore cominciavano a sudare; da qui l’aggettivo “sucida” (presente in D.32.70.4 e Paul. Sent. III 68.2), che designava la lana grassa appena tosata. Il taglio del manto, che richiedeva una speciale cesoia a molla, il c.d. “forfex”, cominciava dalla testa dell’animale, continuava sul dorso e sotto la pancia per terminare sul collo. La tosatura presentava il grande vantaggio di far sì che il vello venisse tolto in un unico pezzo, senza alcuno spreco di lana, per poi essere arrotolato in una balla compatta destinata al trasporto.

Lavatura. La lana sucida veniva dapprima “purgata”, cioè privata di gran parte della lanolina e delle impurità. La si metteva in ammollo in tre quarti d’acqua e uno di urina per privarla dello sporco e del grasso; in seguito, al posto dell’urina, venne utilizzata la saponaria e la lavatura avveniva verosimilmente in calderoni di bronzo. Il vello veniva quindi risciacquato con acqua corrente e steso ad asciugare. Il lavaggio, in ogni caso, non liberava la lana dai piccoli pezzi di sterpaglia pungente, dalle lappole o dalle spine delle erbacce, che si dovevano perciò togliere a mano. La lana, una volta asciutta, veniva eventualmente lavorata con l’olio per evitare l’infeltrimento e quindi sottoposta a districatura, che, eliminando i nodi, serviva a selezionare le fibre più sottili da quelle più grezze. L’aggettivo “lota”, riscontrabile in D.37.70.4 e in Paul. Sent. III 68.2 non può che essere inteso alla luce della spiegazione appena fornita.

Colorazione. Nell’antichità, la lana veniva di solito tinta prima di essere filata, anche se non è da escludere che la colorazione potesse in alternativa avere per oggetto il filato o la stoffa appena tessuta. Sulle tecniche di colorazione e sui colori utilizzati mi soffermerò oltre, in occasione della risposta alla domanda 4). In D.32.70 pr.,4 il participio “tinctus” e in Paul. Sent. III 68.2 l’attributo «uersicoloria» riferito alla «lana legata» non possono che intendersi alla luce delle procedure di colorazione.

Cardatura e/o pettinatura. La cardatura e/o pettinatura costituiva la fase finale della preparazione della lana per la filatura. Entrambe le operazioni avevano l’effetto di districare la lana per togliere i nodi e così separare le fibre le une dalle altre sino a renderle parallele, oltre che di liberarla da tutte le impurità: la cardatura si faceva con cardi selvatici (ma anche con cardi di metallo consistenti in pettini con più denti e provvisti di manici), mentre la pettinatura con uno strumento molto simile a un pettine con denti uncinati. Se nella pettinatura le fibre si allineavano le une alle altre in modo da ottenere un filato più fitto, nella cardatura esse venivano semplicemente divise così da creare una specie di bioccolo da cui si sarebbe tratto un filato più morbido. Non è da escludere che la cardatura servisse a districare velli con fibre corte, mentre la pettinatura si applicasse a velli a fibre lunghe. In D.32.70.1, se riletto alla luce delle proposte di modifica del testo di Mommsen, gli aggettivi “pectita” e “inpectita” si possono intendere conformemente alle informazioni appena esposte sulla pettinatura della lana. Altrettanto si può dire dell’attributo «pectinata» riferito alla «lana legata» in Paul. Sent. III 68.2.

Filatura. In linea generale, la filatura era un insieme di operazioni con cui si tendevano e si torcevano le fibre in un filo continuo. Gli strumenti impiegati erano la “conocchia” o “rocca” e il “fuso”. La prima (la conocchia o rocca o “colus”) consisteva in uno stelo, in genere di giavazzo o di ambra, lungo fra i venti e i trenta centimetri, che serviva a sostenere una certa quantità di bioccoli di lana destinati a essere gradualmente trasformati in filato e trasferiti nel fuso durante l’operazione di filatura. Il secondo (il fuso) era formato da una bacchetta sottile di legno o di osso lunga fino a un massimo di trenta centimetri, il cui diametro aumentava in corrispondenza dell’impugnatura. Lo spessore del fuso, inoltre, variava a seconda della fibra più o meno grezza da trasformare in filato: più ruvida e grossa era la fibra, più spessa era l’asta del fuso. Faceva parte del fuso anche il c.d. “fusaiolo” (o “verticillus”), un piccolo disco pesante che di regola si infilava alla base del fuso per renderne regolare la rotazione; i fusaioli più comuni erano in coccio, ma ne esistevano anche in pietra, piombo, giavazzo, argillite e osso; il loro diametro non superava i cinque centimetri. Talvolta in cima al fuso si trovava un gancio cui veniva legato il primo pezzo di lana che si staccava da quella attorcigliata intorno alla rocca, ma in generale la punta era piatta, salvo che in alcuni fusi, in cui essa consisteva in un vero e proprio elemento ornamentale intorno al quale si legava la fibra con un nodo. Quanto al processo vero e proprio di filatura, il più diffuso nell’Europa romana era quello che si attuava con il fuso a sospensione (cioè con un fuso che pendeva liberamente). Queste osservazioni aiutano a intendere il significato dell’aggettivo “neta”, riferito alla lana, in D.32.70.2 anche alla luce delle proposte di cambiamento avanzate da Mommsen.

Tessitura. La tessitura consisteva nell’intrecciare i fili verticali dell’ordito (stamen) con quelli orizzontali della trama (subtemen): per realizzare ciò, i fili verticali dell’ordito dovevano essere fissati a un telaio e i fili della trama essere fatti passare sopra e sotto quelli dell’ordito tramite una “navetta”. Nell’antichità si tesseva al telaio c.d. “verticale”: i più diffusi erano quello “a pesi” e quello “a doppio subbio”, di cui il primo tipico del contesto romano (e, prim’ancora, fenicio) e dell’area mediterranea in generale, il secondo dell’ambito egiziano, anche se presente pure a Roma a partire dal i sec. d.C. Nel telaio a pesi la pezza (di tessuto) si tesseva dall’alto verso il basso, in quello a doppio subbio dal basso verso l’alto. Chi lavorava al telaio a pesi di regola stava in piedi (ma talvolta anche seduto), mentre chi lavorava al telaio a doppio subbio si sedeva. È verosimile che il telaio a pesi rimase in uso in Italia e nei Paesi di lingua celtica almeno sino alla fine del ii sec. d.C., mentre non si hanno notizie di quale fu il suo destino nelle province del nord-ovest. In ogni caso si può ipotizzare il perdurare, anche dopo il ii sec. d.C., dell’impiego del telaio a pesi per la tessitura di determinati tipi di stoffe, come, ad esempio, il lino, nonostante in molti campi fosse ormai in atto il processo di sostituzione con il telaio a doppio subbio. Questa spiegazione aiuta non soltanto a comprendere i sostantivi «stamen» e «subtemen», insieme ai participi, “contexta” e “detexta”, che Mommsen proponeva di inserire nello stesso D.32.70.2, ma anche a ipotizzare come il più attendibile significato di “tela” citato in D.32.70.3 quello di “telaio a doppio subbio”. Alla luce di queste spiegazioni, inoltre, si intendono con maggiore facilità soprattutto i termini presenti in alcuni testi sui legati di abbigliamento, come, ad esempio, D.34.2.22 Ulp. 22 ad Sab. («detextum», «pertextum vel detextum, contextum», «stamen» «subtemen»), Paul. Sent. III 6.79 («texta»), D.32.52.5 Ulp. 24 ad Sab. – parte introduttiva – («detexta»), Paul. Sent. III 6.85.

Lino. Il lino nel mondo antico era meno diffuso della lana perché, mentre le pecore procuravano un’utilità multipla (oltre al vello, carne e latte) e prosperavano in climi e suoli molto diversi fra loro, quello, sin dalle epoche più risalenti, fu oggetto ricercato di coltura, commercio e industria senza, tuttavia, poter essere coltivato ovunque (ad esempio, si esitava spesso a coltivarlo nelle terre fertili adibite a grano perché si diceva che il linum le esaurisse). La pianta del lino, alta fino a un metro, forniva sia la fibra, che veniva tolta dallo stelo, sia i semi, dalla cui spremitura si otteneva un olio, e presentava rami soltanto in cima, dove produceva una serie di infiorescenze, mentre strette foglie lanceolate si alternavano in punti diversi dello stelo.

Il lino coltivato al tempo dei Romani era di una qualità (Linum usitatissimum) che si era sviluppata nel tempo da diverse varietà di lino selvatico.

Preparazione e lavorazione del lino. La conoscenza delle fasi di lavorazione del lino è indispensabile per comprendere appieno la terminologia impiegata da Ulpiano in D.32.70.10 e 11 (“pectitum”, “inpectitum”, «in tela est», «detextum»; «tinctum») e le questioni giuridiche sottese a questa parte del frammento, rivista alla luce delle proposte di cambiamento mommseniane.

Quando il seme si gonfiava o l’arboscello cominciava a ingiallire, le piante venivano sradicate dal suolo e raccolte in piccoli fasci che erano messi a seccare al sole, appesi con le radici in alto, per un’intera giornata; quindi, per altri cinque giorni, esse venivano sospese con le cime dei fasci le une contro le altre in modo che i semi cadessero a terra. Successivamente, dopo la mietitura del grano, gli steli di lino venivano immersi in acqua tiepida e lì tenuti schiacciati da un peso; dopo che la scorza si era rammollita, essi venivano rovesciati e appesi come prima a seccare al sole; quando erano del tutto disidratati, venivano percossi su una pietra con un apposito martello da stoppa (“stupparium malleum”), in modo che le fibre venissero separate dalla parte centrale legnosa. I fusti del lino così trattati venivano cardati con pettini di ferro ai fini dell’eliminazione totale della scorza. La fibra interna che rimaneva era quindi pronta per la filatura, che era considerata un’attività dignitosa anche per gli uomini. Dopo la filatura, i fili venivano immersi nell’acqua e poi martellati a più riprese con una pietra per essere assottigliati. Seguiva quindi la tessitura; la pezza di tela veniva infine battuta con un bastone per essere migliorata. Si ricorda che anche il lino veniva colorato benché senza molto successo a causa della difficoltà di far assorbire il colore a questa fibra. Pare che in ogni caso si preferissero tingere di porpora i filati, piuttosto che le stoffe, perché i risultati erano decisamente migliori.

Quali erano i coloranti e i metodi di colorazione nell’antichità romana?
Anche lo studio dei colori e delle tecniche di tintura è funzionale alla comprensione della terminologia e delle problematiche giuridiche sottese a D.32.70.12 e 13 (“versicoloria”, “purpura”, “coccum”, “fucinum”, “ianthinum”), Paul. 2 ad Vitell. D.32.78.5 (“versicoloria”, «coccum», «coracinum», «hysginum», «melinum») e D.34.2.32.6 («lanam linum purpuram versicoloria facta infectaque omnia»), oltre che in D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat. («purpura»), D.33.2.32.2 Scaev. 15 dig. («purpura»), D.32.58 Ulp. 4 disp. (“purpurae”) e D.34.2.4 Paul. 54 ad ed. (“purpurae”).

Nella tintura tessile del mondo antico esistevano almeno tre tipi di colori considerati “artificiali”: i colori di origine animale (principalmente tratti dai molluschi – si pensi, ad esempio, al murice e alle porpore –), i colori di orgine vegetale (come, ad esempio, quelli che si ricavavano dal coccum, erroneamente ritenuto dagli antichi una bacca della quercia, in realtà un insetto parassita della stessa pianta, il c.d. “Chermes”/“Kermes”, “Coccus ilicis” o “cocciniglia”), i colori di origine minerale (come, ad esempio, l’atramentum, cioè il solfato di ferro o di rame, che dava il nero se unito con l’estratto delle noci di galla, oppure il gesso, che dava il bianco).

La porpora, in particolare, veniva estratta, lungo tutto il perimetro del Mediterraneo, da due tipi di molluschi, rispettivamente, il “murice” (appartenente al tipo c.d. “a trombetta”), detto “murex” o “bucinum”, e la “porpora” (del genere “porpora”), detta “purpura” o “pelagia”. In particolare, pur essendo i due termini “murex” e “purpura” riservati all’inizio a varietà diverse, essi venivano spesso utilizzati per alludere in generale a tutti i molluschi della porpora, di qualsiasi tipo questi fossero. Il medesimo vocabolo “purpura” aveva una portata ancor più generale: esso alludeva tanto al mollusco della porpora in sé, quanto all’insieme di questi molluschi, ma anche alla sostanza industriale e al colore. Inoltre, parole come “concha”, “conchylium” e “ostrum”, che di per se stesse indicavano innanzi tutto la “conchiglia”, erano talvolta impiegate (insieme ai loro derivati) nel senso di “conchiglie della porpora” o addirittuta di “colore della porpora”.

Oggi, peraltro, la terminologia appare invertita rispetto a quella degli antichi. Il “murex” o “bucinum” corrisponde all’attuale “Thais (= “Purpura”) haemastoma”, mentre il “bucinum minor” all’odierno “Heraplex trunculus”, ex “Murex Trunculus”, il murice comune. La “purpura”, invece, coincide con il “Murex (= “Bolinus”) brandaris” di adesso. Questo rovesciamento della terminologia è una delle ragioni delle incertezze, delle domande e degli errori che dall’epoca moderna in poi hanno avuto luogo nell’ambito degli studi in materia.

Le purpurae, dette “pelagiae” (“marine”), erano di vario tipo a seconda del genere di alimentazione e delle peculiarità del terreno su cui ciascuna prosperava (“genus” “lutense”, “algense”, “taeniense”, “calculense” e “dialutense”).

Il colore che si ricavava dal murice e dalla porpora era un prodotto di lusso, equiparabile, per valore, alle perle. Del resto, la porpora si caratterizzava per le sue tonalità brillanti e soprattuto per la sua stabilità: mentre ad esempio i coloranti vegetali nel lungo periodo sbiadivano sotto l’influenza della luce, la porpora non degenerava, anzi, assumeva con l’invecchiamento riflessi nuovi.

Le porpore migliori provenivano da Tiro e Sidone (nella provincia d’Asia), da Meninge (nella provincia d’Africa), dalla costa dell’Africa nord-occidentale abitata dai Getuli e dalla Laconia (in Europa), come risulta anche da qualche frammento del Digesto (D.32.58 Ulp. 4 disp.; D.34.2.4 Paul. 54 ad ed.) e da un passo delle Istituzioni gaiane (Gai. IV 53d) da cui emerge in particolare l’allusione alla fama acquisita nel mondo romano classico dalla porpora di Tiro come quella di migliore qualità e maggior prezzo rispetto a tutte le altre.

Tralasciando in questa sede la tecnica di cattura delle porpore, che variava a seconda della diversa anatomia delle conchiglie e dei molluschi della purpura e del bucinum, è opportuno procedere alla descrizione delle modalità con cui la porpora veniva impiegata come tintura delle fibre. Ai molluschi si toglieva innanzi tutto la vena bianca, che risiedeva in una specie di ghiandola in mezzo alle fauci, contenente un liquido prezioso che riluceva di un colore rosa scuro. Si lasciava quindi macerare tale vena per tre giorni nel sale; poi questa veniva fatta passare sotto l’acqua per essere purificata, quindi fatta bollire (con acqua e sale) in contenitori di piombo ed evaporare a un calore moderato nel cunicolo di una lunga fornace. Grazie a questa cottura, della durata di nove giorni, il tessuto muscolare rimasto inevitabilmente attaccato alle ghiandole dei gasteropodi si separava trasformandosi gradualmente in una sorta di schiuma. Al decimo giorno si filtrava la poltiglia da cui si toglieva tale spuma e vi si immergeva, a titolo di prova, un po’ di lana lavata, cioè previamente messa a macerare in una soluzione di allume, “anchusa” o saponaria, ognuno dei quali fungeva da mordente, facendosi scaldare il tutto fino al raggiungimento della tonalità desiderata. La lana veniva quindi lasciata nel bagno di colore per cinque ore (sempre a caldo); dopodiché veniva fatta asciugare e cardare per essere nuovamente immersa nel colore (a caldo) ove rimaneva fino alla saturazione. È possibile che la lana venisse mossa nel liquido colorante dagli operai sia con le mani che con uno strumento di legno.

In linea generale, le varie tonalità erano il frutto di reazioni fotochimiche ottenute in seguito all’asciugatura al sole della fibra impregnata dei succhi dei molluschi già macerati e bolliti. La materia colorante prodotta dal bucinum si trasformava, a contatto con l’aria, in giallo per diventare color porpora con un’ulteriore ossidazione; pertanto la fibra immersa nel liquido diventava prima gialla, poi, una volta esposta alla luce del sole e all’aria, subiva una serie di mutamenti fino a trasformarsi in rosso purpureo o scarlatto. La purpura, invece, si convertiva fotochimicamente in un violetto blu profondo.

Ma gli artigiani ottenevano varie sfumature e tonalità anche mescolando insieme in quantità diverse i succhi dei due tipi di mollusco (“bucinum” e “pelagium”). Si pensi, ad esempio: 1) al “coccum” (detto anche “phoenicius” o “poenicius”), cioè il “rosso scarlatto” (una tinta carica e duratura, molto ricercata e considerata di maggior pregio); 2) all’“amethystinum” (detto così dalla pietra omonima), cioè il colore “ametista”, la cui tonalità era molto simile a quella della viola della qualità “purpurea” (“purpurea”), in greco “‡a” (da cui l’appellativo “ianthina”, detto del colore della “vestis”), altrimenti chiamato purpuraianthina”, “hyacinthina” o “violacea”.

In alternativa si conseguivano gradazioni differenti di colore sottoponendo le fibre a bagni separati di succhi dei molluschi. Si consideri, ad esempio, 1) la c.d. “purpura dibapha” o “purpura Tyria” (“porpora tiria”), ottenibile imbevendo la lana prima di “pelagium” (quando il prodotto non era ancora maturo ed era verdognolo), poi di “bucinum; 2) il c.d. “Tyrianthinum”, che si ricavava da un primo bagno nel hyantinum seguito dal doppio bagno tiriano (prima nel pelagio, poi nel buccino) e il cui nome era il risultato della fusione delle denominazioni, “hyantinum” e “purpura Tyria”, dei due coloranti che ne formavano parte.

Accanto ai colori che si traevano dalle porpore e dal buccino, esistevano quelli “di conchiglia”. I colori di conchiglia erano tenui e delicati e per la colorazione delle fibre il procedimento era identico a quello precedentemente descritto per la porpora, salvo che in questo caso non si utilizzava il buccino, ma il succo della purpura appartenente al “genus” «calculense» (chiamato così dai sassolini – “calculi” – del mare) insieme ad acqua e in parti uguali urina umana con l’aggiunta, per metà, di “medicamina”, che, secondo gli autori antichi, potevano essere, ad esempio, il miele, la farina di fave o, soprattutto, il “phycos thalassion”, cioè il fuco marino, simile alla “lattuga” (“phycos” era la latinizzazione del greco “fàkoj”, mancando in latino una parola equivalente: “phycos”, infatti, allude a un “arbusto”, mentre con il latino “alga”, che forse si potrebbe avvicinare a quel vocabolo, ci si riferisce alle “erbe marine”). Vi erano alcuni tipi di phycos thalassion, di cui il più diffuso era quello che cresceva sulle coste rocciose cretesi e la cui qualità migliore veniva da quelle settentrionali: doveva trattarsi di un lichene (inteso come associazione simbiotica tra un fungo e un’alga), dal colore rossiccio, oggi detto “Roccella tinctoria” od “oricello”, che serviva a tingere di rosso se usato da solo e trattato con urina fermentata e ossido di calcio.

Vi era poi l’“hysginum”, dalla tonalità rosso violacea, che nasceva dalla colorazione con la porpora tiria di ciò che è già stato tinto di rosso scarlatto con il “coccum”, identificato erroneamente dagli antichi con una bacca prodotta da una determinata quercia (quercus coccifera), anche se in realtà si trattava di un insetto (Coccus ilicis) che viveva su quell’albero. Si trattava dunque di una cocciniglia, i cui esemplari femminili, nel portare in grembo le uova (destinate a liberare il colore), assumevano l’aspetto di bacche (cocci) pendenti dai rami: queste femmine venivano raccolte prima della schiusa delle uova stesse, uccise tramite esposizione all’aceto, messe a essiccare e poi immerse nell’acqua in modo che il principio colorante vi si sciogliesse e, a seconda del successivo contatto con sostanze alcaline o acide, desse tonalità comprese fra il rosso mattone e il violetto. Dunque, per ottenere l’hysginum, era necessario che le fibre venissero prima colorate con il succo ottenuto dalle pseudo bacche contenenti le uova, schiacciate e liquefatte, delle femmine del Chermes, poi tinte una seconda volta con un miscuglio di mordenti di orgine minerale e di porpora tiria.

Ma l’hysginum poteva anche derivare dal c.d. “hyacinthus” della Gallia, forse il “Vaccinium Uliginosum”, cioè il mirtillo di palude, identificabile con un frutice delle zone umide di montagna dalle cui bacche azzurro-nerastre si traeva un colore purpureo (rosso violaceo) per l’abbigliamento servile.

Talvolta, poi, la “creta argentaria” (una marna calcarea bianca dalla consistenza molto fine) veniva aggiunta al bagno di porpora insieme ai tessuti di lana da tingere. La creta argentaria assorbiva il succo più velocemente delle lane: ne nasceva così un colore, il “purpurissimum” (usato anche in pittura), che era il risultato della fissazione della tinta di “purpura” sulla creta. In questo modo la lana si tingeva di una tonalità meno intensa di quella che si avrebbe avuto in mancanza della creta nel bagno di porpora.

Il fucus e il coccum (intesi entrambi come coloranti vegetali) venivano anche utilizzati da soli per imitare, rispettivamente, il colore della porpora e il rosso vivo e brillante derivante dall’unione, entro certe proporzioni, del succo del pelagio con quello del buccino (pare tra l’altro che le pseudo bacche della Galazia, dell’Africa e della Lusitania fossero impiegate per colorare di un rosso scarlatto i “paludamenta” dei generali vittoriosi). A queste tinte si dovevano aggiungere quelle simili ai colori della porpora tiria e di conchiglia e a tutte le altre sfumature che gli abitanti della Gallia Transalpina riproducevano grazie all’uso di erbe, tra le quali si può ricordare, ad esempio, il summenzionato Vaccinium Uliginosum.

L’unico inconveniente era che tutte queste tinte vegetali tendevano a perdere vivacità con l’utilizzo. Esse rientravano fra i c.d. “medicamina terrena”: presso gli antichi, infatti, esisteva una vera e propria distinzione fra le porpore c.d. “erbacee” o “terrene” e le porpore c.d. “vere” o “marine”, di cui le prime prive della principale caratteristica delle seconde, cioè la durevolezza.

Si può forse ritenere che tra le porpore erbacee si annoverasse anche la radice della robbia oppure l’unione di indigo e Kermes o di robbia e indigo. Ma anche l’erba di guado pare che fosse utilizzata in Macedonia per ottenere nel campo tessile una tinta simile a quella della porpora, il che accadeva naturalmente quando si aveva bisogno del colore porpora a prezzi contenuti.

Un vegetale che, unito a un mordente, attribuiva alle fibre una gamma di colori che andavano dal marrone al rosso era la “robbia” (l’attuale “Rubia tinctorum”) o “garanza”, la quale, in presenza di condizioni molto particolari, dava anche un colore paragonabile a quello della porpora marina o del coccum. La robbia, alta più di sette centimetri e mezzo, presentava molte radici che, dopo che la pianta aveva raggiunto un’età compresa fra i diciotto e i ventotto mesi, in autunno (in seguito alla caduta delle foglie) venivano tagliate, fatte seccare, private dello sporco e della pelle esterna e infine polverizzate. Sembra che la robbia venisse utilizzata dai Romani per tingere di rosso gli indumenti militari.

Ma il rosso si poteva altresì ottenere con l’ “Anchusa”, il “Phykos” o “Lichen rocella” e il “Sandyx”.

Vi erano inoltre l’“alcanna spuria”, la cui radice era d’un rosso violetto, e il fiore del melograno selvatico, tendente pure al rosso.

Per gli azzurri pare che si utilizzasse l’indaco, che si otteneva triturando foglie e piccoli rami di una pianta leguminosa che veniva sia dall’Africa che dall’India (da qui il termine “indicus”).

Il blu si realizzava o con l’indaco o con l’erba di guado trasformata in poltiglia e bollita, la quale all’inizio assumeva un delicato color grigio, che, per ossidazione all’aria, si trasformava in blu.

Il giallo si estraeva dall’erba guada o reseda (“reseda luteola”), dallo scotano, dal cartamo (pianta erbacea con infiorescenze color zafferano), dallo zafferano, dalla curcuma, dalla ginestrella o baccellina (o “Genista tinctoria”), dal croco o dal bagolaro (detto a Roma, ai tempi di Plinio, “lotus”, attualmente “Celtis australis”). Si noti che il giallo (“luteum”) era molto apprezzato nei tempi antichi ed era la tinta dei veli nuziali delle donne.

Il colore che partiva dal giallo scuro per passare al nocciola fino ad arrivare al marrone, invece, si otteneva dal mallo delle noci.

I verdi erano il risultato della mescolanza fra erba reseda (che dava un giallo puro) e indaco (che offriva l’azzurro); sembra che si impiegassero anche altri verdi vegetali che tuttavia sviluppavano un colore non molto solido.

Per avere il nero, si usavano, oltre ai coloranti di origine animale (mollusco del coracinum), vegetale (noce di galla) e minerale (atramentum), altri di origine organica, come il nerofumo o il bitume.

Per ottenere il bianco, si diluiva il gesso nell’acqua.

Per esigenze di spazio, mi limito qui a osservare che nell’antichità esistevano verosimilmente quattro modi per tingere le fibre: tintura diretta, tintura con soluzioni di colore diluito, tintura preceduta da mordenzatura, tintura di colori resistenti. Tali procedure sono trattate nel libro.

Nella stragrande maggioranza dei casi la tintura dei vestiti avveniva a livello artigianale, salvo qualche rara eccezione in cui essa veniva svolta in casa. Sui diversi generi di tintori e officinae in cui rispettivamente l’ars tinctoria e quella purpuraria si svolgevano si rimanda al volume.

Francesca Scotti è ricercatrice di ruolo di Diritto romano nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È stata titolare per affidamento del corso in lingua inglese LW/SO300 – “Roman Law and Common Law: Two Jurisprudential Traditions in Comparison” presso USC-International Curriculum dal 2017 al 2020. È professore aggregato di Istituzioni del diritto romano nella Facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza dal 2018.

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