
È però il caso di ricordare che ci sono differenze significative tra la democrazia attuale e quella ateniese antica. La nostra è una democrazia rappresentativa, con la conseguenza che l’unica decisione che spetta a tutti è quella di scegliere chi deve prendere le decisioni; per questo, in genere, nelle democrazie dei nostri tempi il cittadino comune tende a disinteressarsi della politica proprio perché sa che c’è chi lo fa al posto suo. Nella democrazia diretta di Atene, al contrario, le cose funzionavano in modo differente; la polis non è un ente astratto, impalpabile e impersonale; è invece una comunità tangibile, che appartiene ai cittadini (e non è un caso che, quando gli autori antichi parlano della loro città, non la indicano come Athenai, “Atene”, ma come hoi Athenaioi, “gli Ateniesi”). Se queste sono le premesse, è evidente che poter parlare – e saper parlare bene –, e sapere convincere gli altri della bontà delle proprie opinioni era importantissimo.
Quali erano per i Greci le incredibili potenzialità di peithó?
Dobbiamo innanzitutto ricordare che peithó – che normalmente traduciamo con “persuasione” – non nasce come termine astratto, ma come nome proprio – Peithó dunque –, per indicare una delle divinità che compone il corteggio di Afrodite. Questo significa che Peithó, nella sua forma originaria, è strettamente legata alla dea della bellezza e dell’eros: è seduzione, ovvero quella forma di persuasione che si attua con una parola che ammalia e che incanta. Non stupisce allora che, considerata in questa prospettiva, Peithó si accompagni innanzitutto alle donne, e sia prerogativa esclusivamente femminile. Perché solo le donne sono in grado di sedurre: gli uomini no, della seduzione sono semmai vittime. Qualche esempio? Pensiamo a Ulisse, vinto dalla voce ammaliatrice delle Sirene, di Calipso, di Circe; o ancora a Paride, che venne stregato da Elena.
Divenuto termine astratto, peithó (e il verbo corrispondente, peithein) si arricchisce di una ulteriore sfumatura: e slitta verso l’area semantica della persuasione, che, in quanto tale – e in quanto parente stretta della seduzione – è contrapposta alla forza e alla violenza. E proprio questa persuasione è da subito, sin dai tempi più remoti della storia greca, lo strumento principale a cui gli esseri umani ricorrono per ottenere l’ascolto dei loro simili. È molto significativo che i Greci, almeno in un contesto di dialogo tra pari, non ricorressero mai a termini evocativi dell’idea di “obbedienza”; usavano invece peithesthai, che alla lettera vuol dire “persuadersi, essere persuasi”. L’obbedienza può essere richiesta solo ai sudditi; al contrario gli individui liberi, quali erano i Greci, possono essere indotti a un’azione solo se si riesce a convincerli.
Ma non tutti gli interlocutori sono uguali; e dunque non è detto che una stessa parola sortisca il medesimo effetto su chi la ascolta. Le parole sono un po’ come le medicine – diceva Pitagora: perché abbiano effetto, vanno scelte attentamente sulla base della persona che si ha di fronte. Non solo: le parole possono raggiungere diversi risultati: alcuni nobili, altri meno. Si può infatti persuadere del vero, o convincere a fare una cosa giusta; ma la parola può anche raccontare il falso, ingannare, illudere.
Solo chi conosce la parola, è esperto di logos, può sfruttare le infinite potenzialità della persuasione; e guardarsi, a sua volta, dai rischi che possono annidarsi nella peithó altrui.
In che modo la persuasione permeava l’assemblea democratica?
Ad Atene l’assemblea di tutti i cittadini si chiamava ecclesía. Un termine che continuiamo a usare oggi, nell’aggettivo “ecclesiastico” per esempio, o ancora in “chiesa”, che di ecclesía è la naturale evoluzione. Ma che cosa hanno in comune la nostra chiesa e l’ecclesía ateniese? L’uno e l’altra sono luoghi di raccolta, dove si viene “chiamati” (in ecclesía c’è la radice del verbo greco kaleo, che significa proprio questo). E proprio come per i cristiani è fondamentale recarsi in chiesa, così per gli Ateniesi era impensabile non frequentare l’ecclesía: che è una delle espressioni più alte e significative della democrazia.
Nell’ecclesía si parlava, per discutere i problemi della città, per approvare le leggi, per prendere decisioni in materia di politica interna ed estera, e per molto altro ancora. A deliberare erano tutti i presenti, che votavano per alzata di mano: e, naturalmente, prevaleva il parere espresso dalla maggioranza (dal 50% più 1, diremmo oggi).
Ma chi era a prendere la parola e a convincere i concittadini a intraprendere una determinata azione? Potenzialmente tutti, perché, come abbiamo già visto, uno dei principi fondamentali della democrazia di Atene consisteva nella isegoría, ossia nella facoltà, concessa a tutti e nello stesso modo, di esprimere la propria opinione. Si è però constatato, attraverso l’analisi delle testimonianze disponibili, che le cose forse non stavano esattamente così. A parlare nell’assemblea ateniese, per lo più, erano le persone coinvolte in prima persona e nel modo più attivo nella politica cittadina. Le persone comuni, pure presenti all’assemblea, partecipavano a essa limitandosi a esprimere il loro favore o – più spesso – il loro disappunto, con grida di protesta, verso chi in concreto formulava le proposte.
Tutto questo tuttavia non inficia il principio generale per cui l’assemblea è luogo di persuasione. Anzi. Sappiamo di occasioni nel corso delle quali i cittadini ateniesi seppero ritornare su decisioni prese in modo troppo avventato, perché vennero convinti della bontà di ragioni opposte rispetto a quelle che li avevano inizialmente spinti ad agire.
Quale funzione svolgeva la persuasione nei tribunali ateniesi?
Insieme all’assemblea, il dikasterion, il “tribunale”, era un altro dei luoghi fondamentali della democrazia ateniese. Ed era un tribunale popolare, formato cioè non da giudici togati, ma da comuni cittadini, scelti ogni anno, in numero di 6000, tra gli individui che avessero superato i trenta anni di età e che possedessero nella loro pienezza i diritti di cittadinanza. Ebbene, questi giudici giudicavano praticamente tutte le cause cittadine, con poche eccezioni (i delitti di sangue, per esempio, che erano di competenza del tribunale dell’Areopago e di altre corti speciali in cui sedevano gli ex magistrati).
È importante anche ricordare che ad Atene – e in generale in tutta la Grecia – non esistevano avvocati: erano i cittadini a presentarsi personalmente in giudizio, per accusare o per difendersi. Esistevano, per il vero, dei “logografi”, cioè degli “scrittori di discorsi”, ai quali le parti processuali potevano rivolgersi per la composizione dell’orazione che loro stesse avrebbero recitato in tribunale (e va da sé che l’operazione era costosa, e il compenso dovuto ai logografi era tanto più cospicuo quanto maggiore era la fama e la popolarità del logografo stesso). Ma i logografi non erano esperti di diritto; erano, invece, esperti di retorica, capaci di confezionare per il loro cliente discorsi ben costruiti, e apparentemente inattaccabili.
Attenzione, però: i giudici di Atene diffidavano di chi pronunciava discorsi troppo artificiosi e infiocchettati. Un uso troppo scaltro e malizioso della parola poteva infatti distoglierli dalla ricostruzione della verità, e dunque portarli a giudicare in modo iniquo, a esprimere un verdetto non conforme a quella legge che essi, quando entravano in carica, giuravano di seguire quando ponevano nell’urna il loro voto di assoluzione o di condanna.
Proprio questa considerazione può farci comprendere per quale motivo essi decisero di mandare a morte Socrate, in quel processo che a buon diritto è annoverato come uno tra i più celebri dell’antichità. Socrate viene spesso descritto come vittima innocente di una democrazia ateniese che, in un momento molto difficile della sua storia, doveva trovare un capro espiatorio. In realtà le cose non stavano esattamente in questi termini. Per quanto Socrate cercasse di persuadere i giudici della propria innocenza, essi lo condannarono perché ritennero che avesse violato le leggi cittadine in materia di asébeia (un termine che normalmente, anche se non del tutto correttamente, traduciamo con “empietà”). Insomma, le ben note capacità persuasive e dialettiche di Socrate ebbero la peggio con i giudici di Atene fedeli al giuramento di fedeltà che essi avevano prestato alle leggi.
I sofisti con le loro antilogie fecero della persuasione una vera e propria arte: fin dove spinsero la duttilità delle parole?
Messi alla berlina come ciarlatani e imbonitori, i sofisti furono in realtà dei veri e propri geni, che stravolsero l’etica e le convinzioni tradizionali, che segnarono una rottura profonda con l’età precedente, che scrissero una pagina nuova e indelebile della storia culturale di Atene e della Grecia tutta. Per capirlo, basta guardare al titolo dell’opera di uno dei primi e più importanti sofisti, Protagora: “Della verità ovvero Discorsi Demolitori”. Prima dei sofisti, la verità (meglio sarebbe scrivere: la Verità) era una sola, e poteva essere rivelata ai mortali solo da un dio; i sofisti insegnano invece che la verità non è una, non è rivelata, ma al contrario è oggetto di conoscenza; è un punto di vista che cambia da un individuo all’altro, perché, come lo stesso Protagora insegnava, “l’uomo è misura di tutte le cose”.
Posto dunque che la verità assoluta non esiste, la parola non può servire a comunicare la verità. Serve ad altro: ad ammaliare, a convincere, e – perché no – a ingannare. Per i sofisti – veri e propri acrobati della parola – il logos ha un potere immenso e assoluto; è un “grande sovrano” – diceva Gorgia – “che con un corpo minuscolo sa compiere le imprese più divine”. Per questo la parola va coltivata, conosciuta fino in fondo, per servire agli scopi di chi la usa; che, se è particolarmente esperto, è capace di “rendere più forte anche il discorso più debole” (altra massima di Protagora). C’è un passo famoso di una commedia di Aristofane, le Nuvole, che spiega molto bene di che cosa fosse capace la parola: si tratta di una contesa tra il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto, al termine del quale, a suon di argomenti sottili e spregiudicati, è proprio quest’ultimo ad avere la meglio. Questo non significa però che i sofisti siano stati paladini di ingiustizia, che avessero a cuore solo gli inganni e le furberie. Al contrario: i sofisti sono maestri di persuasione, che hanno mostrato – con insegnamenti che hanno profonde ripercussioni sul nostro stesso modo di pensare e di ragionare – come la parola possa essere usata per indagare i fatti in tutte le loro possibili sfaccettature.
Qual è il lascito dei Greci nel nostro modo di pensare e di confrontarci con il mondo?
È inutile dire che il nostro debito nei confronti dei Greci è enorme. I Greci hanno insegnato a parlare, a ragionare, ad argomentare; hanno inventato la filosofia, la politica e la democrazia; ci hanno lasciato parole che continuiamo a usare nella nostra quotidianità, concetti chiave con cui non abbiamo mai smesso di confrontarci.
Un famoso storico antico, Tucidide, parla della sua opera come di uno ktema eis aiei, di un “possesso imperituro”. In realtà tutta la cultura e l’esperienza dei Greci può essere definita tale. E per questo, come ho scritto nelle battute iniziali del libro, dobbiamo concederci il lusso di studiare, osservare, apprendere da un popolo che ancora oggi, a 2500 anni di distanza, ha ancora molto da dirci e da insegnarci.
Laura Pepe insegna Diritto greco all’Università degli Studi di Milano. Oltre a numerosi saggi accademici, è autrice di diverse edizioni di grammatica latina di approccio didattico innovativo e di due manuali di storia per la scuola secondaria superiore, pubblicati con Mondadori Education. Per Laterza ha scritto Gli eroi bevono vino. Il mondo antico in un bicchiere (2018), mentre per Zanichelli ha pubblicato Atene a Processo. Il diritto ateniese attraverso le orazioni giudiziarie (2019). Collabora inoltre come divulgatrice scientifica con il canale televisivo Focus.