
Come tutte le questioni tranchant, anche la dicotomia luce-buio applicata al Medioevo, e del resto a qualsiasi epoca storica, è tendenziosa. Può un’epoca lunga mille anni essere considerata come un blocco unico e omogeneo ed essere bocciata in toto come oscurantista? Naturalmente no, non ha alcun senso. Per dare un’idea della complessità della questione basta pensare a due personaggi come Carlo Magno, che muore nell’814, e Lorenzo il Magnifico, che scompare nel 1492: sono entrambi appartenenti, “anagraficamente”, al Medioevo, ma cos’hanno in comune? Nulla, a cominciare dall’aspetto e proseguendo con il contesto storico di riferimento, gli orizzonti culturali e i valori e il modo di pensare. Esiste poi un’epoca che possa considerarsi apoditticamente “luminosa” e senza ombre? No, tanto meno la nostra: la modernità ha conosciuto, e in tempi recentissimi, abissi di tenebre talmente bui – dittature, campi di sterminio, guerre devastanti, genocidi, negazione dei diritti e della dignità dell’uomo – che al confronto il Medioevo impallidisce. Ormai peraltro si considera con crescente fatica la stessa definizione di Medioevo come “Età di Mezzo” e dunque di transizione tra il mondo antico e quello moderno, anzi possiamo dire che è un concetto a livello storiografico in fase di profonda revisione. Di certo non si è più disposti ad accettare il corollario dispregiativo e denigratorio che vuole il Medioevo un periodo di regressione della civiltà, dell’arte e del pensiero. La maggior parte degli studiosi, e mi metto umilmente fra loro, considera al contrario il Medioevo uno straordinario laboratorio, una fucina instancabile e in perenne movimento che, grazie a contatti e contaminazioni tra mondi diversi, ha prodotto i sistemi di pensiero, le lingue, i canoni estetici, le innovazioni tecnologiche, le strutture economiche, politiche e sociali che stanno alla base della nascita dell’Europa moderna. Mi piace pensare al Medioevo come a uno splendido e variopinto mosaico fatto di tessere differenti, ciascuna delle quali concorre a costruire una parte dello scenario completo. Ed è un Medioevo che merita di essere riscoperto, capito e raccontato.
Quando e come nasce la leggenda nera sul Medioevo?
Tutto incominciò tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento con l’Umanesimo, nuova corrente filosofica e letteraria che, come dice la parola stessa, intese dopo l’età classica riportare l’uomo al centro del cosmo e restituire ad esso quella dignità che sembrava aver perso. Ovviamente, a finire sul banco degli imputati furono i secoli dei predominio di un Cattolicesimo che aveva teorizzato una presunta società chiusa, rigida, divisa in tre “classi” (i famosi oratores, bellatores, laboratores) e informata da un sistema filosofico e religioso in cui tutto, anche l’incommensurabile, era definito e spiegabile ricorrendo alla supremazia della fede sui dubbi della ragione. L’odio per il Medioevo come età barbara esplose poi con l’Illuminismo settecentesco: i philosophes, ridando dignità alla ragione svincolata dalla fede, bollarono come retrogradi e anti-progressisti i secoli precedenti inventandosi anche termini dispregiativi che in seguito sono rientrati nell’uso comune. Un esempio per tutti è la parola “gotico”, che indica l’arte prodotta nei secoli centrali del Medioevo, accusata dai padri del Neoclassicismo e dell’arte utile alla ragione di essere brutta e deforme, barbara e irrazionale: non a caso, il termine deriva dal popolo germanico dei Goti che saccheggiò Roma e causò, nella vulgata, il crollo dell’Impero romano. Certo, non bisogna cadere nell’eccesso opposto dell’idealizzazione del Medioevo: la vita era breve, dura e faticosa, guerre e carestie sempre incombenti, l’età media bassa, la mortalità infantile elevatissima, la povertà e l’ignoranza diffuse, le malattie onnipresenti e perniciose. Ma gli orizzonti dell’uomo medievale erano molto meno ristretti di quanto si pensi. La gente, ad esempio, viaggiava eccome, c’era un continuo viavai di persone lungo le rotte mercantili e di pellegrinaggio il che consentiva scambi di idee e incontri, certo non sempre pacifici, tra culture diverse. Non si pensava affatto che la Terra fosse piatta, come pure qualcuno (ma si tratta di gruppuscoli marginali che il buon Dante avrebbe probabilmente confinato in un carnevalesco girone tutto dedicato agli analfabeti funzionali) sostiene incredibilmente oggi. Che fosse sferica era noto da secoli: il greco Eratostene aveva provato a suo tempo persino a calcolarne la circonferenza sbagliando di pochissimo: 40.500 km anziché gli effettivi 40.075. Del resto basta andare (come si dovrebbe fare sempre) alle fonti. Beda il Venerabile, nell’VIII, secolo definì la Terra “un globo collocato al centro dell’universo, tondo non come uno scudo ma piuttosto come una palla”. Al di là dell’errore geocentrico, in cui caddero tutti fino a Copernico, sulla forma il pensiero è chiaro, così come lo è quello dei teologi della Scolastica, che si basavano su Aristotele e Tolomeo, così come di Onorio d’Autun nel suo Elucidarium, scritto nel XII secolo e copiato nei monasteri di tutta Europa, Tommaso d’Aquino, Dante e l’astronomo inglese Giovanni Sacrobosco, autore del Tractatus de sphaera nel 1230. se ciò ancora non fosse sufficiente, si consideri l’iconografia: la Terra appare sferica nei codici del IX secolo che illustrano i Commentari di Macrobio e, tre secoli dopo, il Libro delle Divine opere di Ildegarda di Bingen. Fervidi sostenitori della sfericità terrestre furono anche gli arabi: basti l’esempio del geografo Al-Idrisi che realizzò per il re di Sicilia Ruggero II una sorprendente raccolta di carte geografiche eloquenti in proposito. Al 1492 data infine il primo globo conosciuto, l’Erdapfel (“mela terrestre”): naturalmente è privo del Nuovo Mondo (per non dire dell’Australia), visto che la scoperta dell’America avvenne nell’ottobre di quell’anno e la notizia giunse in Europa solo qualche mese dopo. A proposito di Colombo, di certo quando partì alla ricerca della “via breve” per le Indie non aveva alcun timore che, una volta oltrepassate le Colonne d’Ercole (collocate dalla tradizione dopo lo stretto di Gibilterra e ritenute il limite estremo del mondo allora conosciuto) avrebbe raggiunto il confine della Terra precipitando nel vuoto! Qualcuno purtroppo ne è invece convinto oggi, il che dimostra che non necessariamente il presente sia più “avanzato” del tanto vituperato Medioevo. In certi casi verrebbe anzi da pensare il contrario.
Il Suo libro cerca di cogliere gli aspetti più insoliti e curiosi dell’epoca: ad esempio, cosa si mangiava e come ci si vestiva nel Medioevo?
Con mille anni di storia declinati in una moltitudine di particolarismi locali non è certo possibile nemmeno lontanamente ambire a fornire un quadro completo. Per quanto riguarda il vestiario, possiamo dire che gli abiti di tutti i giorni erano pochi e semplici, si tendeva a vestire a strati, con capi sovrapposti che potevano essere messi o tolti a seconda sia delle stagioni, sia delle esigenze sia della vita quotidiana. La moda nacque nel Duecento di pari passo con l’ascesa, in città, dei nuovi ceti “borghesi”: la maggiore disponibilità economica portò con sé un nuovo edonismo e la necessità di emergere e di farsi guardare e ammirare per quello che si era e si aveva. Il modello di riferimento era quello delle corti e della nobiltà, cui si tentava di assomigliare ostentando sfarzi di stoffe, colori e sete preziose. Questo atteggiamento, insieme a molti eccessi nel trucco e negli ornamenti soprattutto da parte delle donne, spinse le autorità a promulgare, a partire dal Duecento, leggi di morigeratezza nel disperato (e spesso frustrato) tentativo di mantenere le differenze di ceto sociale, e si attirò gli strali dei moralisti e dei predicatori. Tutto questo, però, non significa che l’alto medioevo non conoscesse il gusto per l’estetica o la cura del corpo. Il modo di portare capelli e barba, ad esempio, rivestiva una notevole importanza, così come per le donne erano decisivi cosmetici, ornamenti e gioielli. E mentre monaci ed eremiti sposavano Madonna Povertà rinunciando agli sfarzi e alle lusinghe del mondo, poeti e trovatori cantavano le bellezze della donna angelicata e di pari passo medici e trattatisti consigliavano metodi infallibili per conservare la carnagione chiara, infoltire i capelli, colorare le guance. Per tutto il Medioevo, comunque, l’abito – come si suol dire – faceva il monaco, ossia rispecchiava il ceto sociale di appartenenza e comunicava (anche grazie al colore dei panni) la professione di chi lo indossava. Così i chierici, i regnanti, i professionisti, i mercanti, i pellegrini, i borghesi, ma anche gli esclusi come gli ebrei, gli ammalati, i mendicanti, le prostitute… In ultimo, non si può non ricordare che era diffusa anche nel Medioevo l’abitudine, quando possibile, di travestirsi: un’usanza legata in genere al Carnevale (ma non solo) e che, in una società dove – come si è visto – l’abito faceva il monaco, dava l’opportunità – una tantum – di “cambiare” ruolo. Di solito ci si limitava, semplicemente, a indossare gli abiti di sempre a rovescio, sovvertendo simbolicamente l’ordine, mentre è raro il caso in cui il ricco si spogliava dei suoi preziosi panni per provare l’ebbrezza del contatto coi cenci dei poveri.
Per quanto concerne la cucina, anche qui le declinazioni sono moltissime e le variabili notevoli anche da periodo a periodo perché, com’è ovvio, l’alimentazione è specchio non solo di una cultura e di un contesto socio-economico, ma anche di oggettive condizioni ambientali. Anche in questo caso sono molti i luoghi comuni da sfatare, a cominciare dal fatto che si mangiasse “meglio” nel basso Medioevo piuttosto che nel Mille: prima della grande esplosione delle città, grazie alla grande disponibilità di incolto utilizzato per l’allevamento, anche le classi meno abbienti mangiavano carne più spesso, mentre in seguito il loro consumo diventa sempre di più uno status symbol appannaggio dei ricchi. Non è affatto vero, poi, come invece si continua a sentir dire, che le spezie servissero a camuffare il sapore della carne andata a male. Gli unici (o quasi) a potersele permettere erano i ricchi, che consumavano carne “di giornata” o quasi, cacciata o acquistata nei mercati. Le si usava per ostentare le proprie ricchezze non solo perché costose (addirittura quaranta volte il prezzo pagato dai mercanti all’origine!), ma anche perché si riteneva provenissero da lontani “Paradisi” non meglio definiti. Si pagava in spezie, si usavano le spezie per condire i cibi (secondo i manuali di medicina del tempo miglioravano la digestione perché, sprigionando calore nello stomaco, favorivano una “seconda cottura” dei cibi), si adoperavano per curare le malattie ed erano considerate potenti afrodisiaci. Qualcuno le usa così ancora oggi.
Il Suo libro affronta anche il tema del sesso: come era vissuto nel Medioevo?
L’atteggiamento medievale nei confronti del sesso era ambiguo. Se i teologi in genere lo condannavano, i medici lo consideravano un aspetto essenziale della vita nonché indispensabile per il mantenimento della salute: senza sesso, il corpo rischiava di accumulare un eccesso di umori che poteva risultare dannoso per l’organismo. La visione dominante della Chiesa era che il sesso servisse ad adempiere al comandamento divino di moltiplicarsi e doveva essere praticato nel legame coniugale e senza piacere, altrimenti era una lusinga del diavolo, il quale per tentare l’uomo si serviva della donna, lussuriosa, tentatrice e foriera di perdizione. La verginità, sulla scorta dell’esempio di Maria, era considerata la dote più apprezzata. Spose e madri, una volta compiuto il loro dovere potevano sperare in una “riabilitazione” se trascorrevano l’ultima parte della vita in castità oppure prendevano i voti. La continenza e la moderazione nei rapporti erano sempre auspicati, tanto più che l’intimità, anche fra coniugi, era spesso un miraggio: le case erano piccole, il riscaldamento non c’era e quando si andava a dormire, le famiglie tendevano a farlo assieme. Solo alla fine del Medioevo l’intimità coniugale diventerà una condizione ricercata. La Chiesa vietata ai fedeli di accoppiarsi durante le festività, la notte della domenica, durante la gravidanza e il periodo mestruale della donna: se ciò avveniva esistevano precise prescrizioni, descritte in speciali Libri penitenziali, il più celebre dei quali è forse quello redatto tra il 1008 e il 1012 da Burcardo vescovo di Worms. Condannati senza appello erano l’aborto e la contraccezione, così come le cosiddette “devianze”: omosessualità (sia maschile che femminile), rapporti carnali con gli animali, ma anche atti che, come il coito interrotto o le posizioni sessuali “anomale”, impedivano o mettevano a rischio la procreazione. Quanto all’autoerotismo, la posizione era ambivalente: se la Chiesa, sulla scorta dei testi biblici – che vietavano di disperdere il seme – generalmente lo condannava, un illustre teologo come Alberto Magno ammetteva, nell’adolescenza, che la masturbazione femminile potesse avere addirittura una funzione terapeutica. Comunque, se nell’alto Medioevo non era considerato un peccato grave, dal Duecento iniziò ad essere ritenuto un vizio contro natura, anche se l’autoerotismo femminile continuò ad essere visto come meno grave rispetto a quello maschile.
In ambito laico, negli ambienti di corte a dettare la linea erano il celeberrimo De amore di Andrea Cappellano, vera e propria summa dell’erotismo insieme al Roman de la Rose di Jean de Meung (1270), per i quali l’amore era soprattutto un gioco intellettuale riservato alle élite, ai nobili e ai cortigiani: i contadini erano viceversa ritenuti incapaci di provare il “vero” piacere perché rozzi, incolti e in preda all’istinto come gli animali.
Questo nella teoria. Ma nella pratica si assisteva a copiose licenze. I matrimoni obbedivano a logiche economiche, politiche e sociali, e tradimenti e relazioni extraconiugali non erano infrequenti, come dimostra il numero – imponente – di figli illegittimi. Gli stessi citati penitenziali ci mostrano un universo in cui accadeva di tutto. L’abate Oddone di Cluny in un celebre reprimenda fornisce nel contempo anche la documentazione circa le pratiche sessuali più diffuse (o supposte tali) all’epoca in cui scrive. Apprendiamo dunque che anche nel Medioevo continuavano ad essere utilizzati falli posticci o oggetti simili, già conosciuti sin dall’antichità e diffusissimi nel mondo greco-romano (si legga ad esempio la Lysistrata di Aristofane). La prostituzione era diffusa per quanto malvista ed esercitata in quartieri o strade ben differenziate dal resto della città, così come nei tanti bagni, o stufe che, contrariamente a quanto si pensa erano diffusissimi, e presenti in quasi tutte le città, eredi dirette delle terme romane così come del bagno a vapore amato dalle genti delle steppe, diffusosi anche da noi con le cosiddette invasioni barbariche, per non dire del mondo bizantino e arabo. Allusioni sessuali erano presenti nelle filastrocche e novelle, nelle poesie licenziose, persino ai margini dei manoscritti. E sensuale era pure la moda, che verso la fine del Medioevo portò gli uomini a esaltare la loro virilità indossando piccole protesi di cuoio ripiene di stoffa in corrispondenza del fallo, reso ancora più evidente dall’abitudine di indossare calze aderenti e bluse strette ai fianchi. Le donne facoltose del Quattrocento, dal canto loro, spendevano fortune in abiti eleganti, strascichi lunghissimi, acconciature elaborate, scarpe con zeppe altissime (e cosiddette “pianelle”, altre anche mezzo metro!) e trucchi tanto da scatenare le già citate reprimende dei predicatori – come Bernardino da Siena – e costringere le autorità cittadine a emanare apposite “leggi suntuarie” allo scopo tanto di salvaguardare la moralità pubblica quanto di frenare ostentazioni ed eccessi. Come si vede, il modello di una società medievale del tutto sessuofoba è in larga parte idealizzato: è figlio soprattutto della pruderie tipica della moralità borghese e vittoriana, la stessa che ha inventato il mito della “cintura di castità”, una delle bufale più clamorose della storia.
Come ci si curava nel Medioevo?
Ammalarsi nel Medioevo e nel mondo antico non era una eventualità rara e quando accadeva, purtroppo, erano guai. I medici avevano in genere scarsa conoscenza di terapie e malanni e anzi ignoravano come funzionava, nei dettagli, il corpo umano. La dissezione dei cadaveri a scopo di studio era poco praticata e la teoria più diffusa era quella elaborata dai medici greci Ippocrate (V-IV secolo a.C.) e Galeno (129-216), secondo la quale l’organismo umano è governato da quattro umori diversi (sangue, bile gialla, bile nera, flegma) che, a seconda delle rispettive interazioni o disequilibri (discrasie), determinerebbero la sanità o la malattia. Nulla si conosceva (né si sospettava) a proposito del contagio e quando le epidemie si propagavano, venivano solitamente invocate cause generiche quali miasmi e soffi pestiferi provenienti dall’interno della terra o da località esotiche, quasi sempre poste nell’immaginifico Oriente. Oppure l’intervento divino per punire i peccati dell’uomo. In realtà, la colpa era il più delle volte della dieta malsana e delle condizioni igieniche precarie in cui la maggioranza della popolazione viveva. Ci si lavava (e cambiava) poco, anche se non è vero che non lo si facesse affatto. L’acqua corrente non c’era e quella di fonte o di fiume era usata con molta parsimonia, le fognature (eredi della civiltà antica) erano cadute in disuso o inesistenti, uomini e animali vivevano in promiscuità ed escrementi e deiezioni venivano il più delle volte gettati direttamente in acqua e in strada. Le cure erano empiriche e laddove non riusciva la scienza si ricorreva a pratiche magiche, alle penitenze o alla preghiera. I malati gravi erano segregati in appositi “lazzaretti” ai margini delle città e della società, dalla quale erano di fatto espulsi. A parte questo accorgimento, la profilassi era sconosciuta. Non stupisce dunque che la vita media fosse bassa, la mortalità infantile altissima e le epidemie un pericolo sempre incombente. Tuttavia non è affatto vero, come pure spesso si sente dire, che la medicina non esistesse. Nel Medioevo coesistevano varie tradizioni, latino-greca, araba ed ebraica, i cui esiti culminano nella celebre Scuola Salernitana nata nel contesto del Mezzogiorno longobardo, crocevia di culture diverse: lo dimostra la stessa leggenda di fondazione legata a tre medici, il latino Salernus, l’ebreo Helinus e l’arabo Abdela, unitisi per salvare un pellegrino ferito. In questa Scuola, la prima “università di medicina” d’Europa, insegnarono medici importanti come Alfano, Costantino l’Africano, Pietro da Eboli, Giovanni Afflacio, Nicolò Salernitano, e fu prodotto, nel XII secolo, il celebre Regimen Sanitatis Salernitanum (“Regola Sanitaria Salernitana”), un trattato contenente norme igieniche, preziose indicazioni terapeutiche sulle erbe e consigli sul loro utilizzo che dettò legge per secoli. E alla Scuola Salernitana è legata anche la straordinaria (per quanto controversa) figura di Trotula de Ruggiero, vissuta nell’XI secolo, che diede diede vita, insieme ad altre donne-medico come lei, al “circolo” delle mulieres salernitanae, donne salernitane il cui scopo era curare i malati. Una cosa davvero straordinaria.
La religiosità era davvero onnipresente?
Le religiosità era pervasiva, questo è vero, ma lo era anche nel mondo antico. Tutto sta a intendersi sui principi e i concetti alla base di tale religiosità. Il Medioevo fu fondamentalmente cristiano, questo è vero, con ciò scandendo la vita quotidiana e le tappe fondamentali della vita dell’uomo. Ma ciò non significa che elementi arcaici e pagani non coesistessero con le forme del culto “ortodosso” e anzi, specie nei contesti rurali e periferici, non fossero ancora profondamente radicati nelle abitudini fino a oltre le soglie dell’età moderna, come dimostrano ad esempio fiabe, miti, leggende, credenze e superstizioni citate in prediche e trattati – mi viene in mente il Contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis di Agobardo di Lione, che nella prima metà del IX secolo, testimonia la persistenza di credenze relative a persone capaci di provocare tempeste, tuoni e grandine – e anche i processi di stregoneria. Del resto, il Cristianesimo si propagò anche grazie al sincretismo, ragion per cui le pratiche di culto pagane, così come le festività legate al mondo agreste, acquisirono un significato nuovo su un sostrato precedente che continuò sincretisticamente ad esistere. Nel processo di passaggio ebbero ruolo importante le figure dei santi, che funsero da “traghettatori” dal paganesimo politeista al monoteismo cristianesimo, incarnando in molti casi per interpretatio le caratteristiche delle divinità pagane. È il caso ad esempio di sant’Antonio Abate, figura eremitica di chiaro stampo druidico, che richiama divinità del fuoco e della luce come il Lug celtico (non a caso è invocato contro l’herpes zoster, il “fuoco di sant’Antonio” appunto) che non a caso è raffigurato affiancato da un porcello: nell’agiografia cristiana il maiale fa riferimento alle tentazioni del Demonio (che appariva al santo sotto forma di questo animale), ma nel contesto rurale era, come detto, una risorsa alimentare fondamentale; nelle zone di sostrato celtico, inoltre, era a volte sostituito nelle rappresentazioni dal cinghiale, che un tempo era un animale con valenza totemica.
Qual è l’eredità del Medioevo?
In parte ho già risposto argomentando nei paragrafi precedenti, dove credo emerga almeno in parte quanto di quello che facevano, e pensavano, gli uomini del Medioevo sia ancora presente in noi oggi. Di certo il Medioevo ci ha lasciato il senso forte di appartenenza a una comunità radicata e con precisi punti di riferimento culturali, ma non per questo impermeabile agli apporti esterni. Si può anzi dire che l’identità europea si sia lentamente formata proprio nel Medioevo come identità molteplice e plurale, frutto di scambi, sovrapposizioni, incontri e scontri, in perenne dialettica con se stessa e le proprie radici. Il Medioevo ha recepito a sua volta l’eredità della cultura classica ma la ha rielaborata e rimasticata, ibridandola con elementi che provengono da altri contesti come quelli “barbarici” e orientali e creando, per mezzo dell’affermarsi del Cristianesimo, una nuova cultura comune. Al Medioevo risalgono anche i primi tentativi di ricostruire, sotto l’egida imperiale, un’unità giuridica e culturale del continente, memore della tradizione romana ma con una nuova consapevolezza squisitamente cristiana: mi riferisco in particolare al progetto di Carlo Magno, la cui intenzione e portata sono tuttora oggetto di grande dibattito tra gli studiosi, ma la cui importanza nella formazione di una identità collettiva, pur tra i vari distinguo, è difficilmente negabile. Non a caso è proprio nell’VIII secolo che compare per la prima volta nelle fonti il termine Europeenses. Vi sono poi guerre e migrazioni, esperienze segnanti come la Grande Peste e le Crociate, scissioni traumatiche come quella che si consumò fra il Cristianesimo occidentale e quello orientale, che creò una frattura tra due mondi che perdura tuttora. Nel Medioevo nacquero i Comuni e le Università, si aprirono nuovi orizzonti e mercati, apparvero nuove tecnologie come la carta e la stampa con conseguenze incalcolabili sull’alfabetizzazione, si formò un macrocosmo multiforme e sfaccettato basato sulla perenne dialettica tra elementi comuni e le mille diversità locali. Proprio nel dinamismo, nelle contraddizioni e nelle ambivalenze sta il bello del Medioevo: altro che la lunga epoca cupa e oscurantista che vuole il luogo comune! Del resto, come scrisse il grande storico belga Léo Moulin, “se fosse vera quella vergognosa menzogna dei secoli bui perché ispirati dalla fede del Vangelo, perché allora tutto ciò che ci resta di quei tempi è di così fascinosa bellezza e sapienza?”.
Elena Percivaldi, medievista, saggista e giornalista, è direttore di “Storie & Archeostorie” e collabora con “Medioevo” e “BBC History”. Relatrice in conferenze in Italia e Canton Ticino, cura mostre ed eventi storico-rievocativi sui Longobardi e ha scritto una quindicina di libri, alcuni dei quali tradotti all’estero. Ospite regolare del Festival del Medioevo di Gubbio (Pg), è membro di varie istituzioni e comitati scientifici; suoi interventi sono stati trasmessi su TV2000 e RaiStoria. Sito web: www.perceval-archeostoria.com