“La vita nella Costituzione” di Anna Alberti

Prof.ssa Anna Alberti, Lei è autrice del libro La vita nella Costituzione edito da Jovene: quali differenze sussistono tra il paradigma cattolico e quello laico riguardo al valore della vita?
La vita nella Costituzione, Anna AlbertiPer il paradigma cattolico, quale risulta dai documenti ufficiali del Magistero ecclesiale, la vita è un dono di Dio, sacro e indisponibile. Di conseguenza, devono essere condannate le pratiche eutanasiche e di aiuto al suicidio, nonché l’aborto. È lecita soltanto l’interruzione delle cure mediche sproporzionate e inutili, tramutatesi in accanimento terapeutico.

Il paradigma laico, invece, ragiona “come se Dio non ci fosse”. Il principio ispiratore di questa concezione è la libertà, l’autodeterminazione individuale. Ciascuno è libero di decidere per sé, ponendo la propria scala di valori e disponendo della propria vita: può perciò darsi legittimamente la morte o chiedere legittimamente a terzi un aiuto eutanasico. Anche l’interruzione di gravidanza è attratta nella sfera della legittima autodeterminazione individuale, in quanto atto libero e consapevole della donna sul proprio corpo.

Quale tutela riceve la «vita» nella Costituzione?
Dal punto di vista del diritto costituzionale la contrapposizione tra i due paradigmi si traduce nel problema dogmatico se la vita sia un valore costituzionale obiettivo, di cui gli individui non dispongono, oppure un diritto costituzionale soggettivo, rimesso alle libere determinazioni individuali. La mia tesi è che nel dettato costituzionale vigente convivano le due dimensioni della tutela, obiettiva e soggettiva, e che, di volta in volta, prevalga l’una o l’altra in relazione a quale vita venga in rilievo. Mentre la vita propria è un diritto costituzionale soggettivo, invece la vita altrui è un valore costituzionale obiettivo.

La dimensione oggettiva della vita, la sua sacralità e indisponibilità si evince indirettamente da numerose disposizioni costituzionali. Anzitutto dall’art. 27, comma 4°, Cost., che vieta la pena di morte. La vita, inoltre, è il presupposto di ogni diritto soggettivo, il quale è sempre il diritto di un soggetto “vivente”. Ad esempio, gli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost., in tanto possono garantire la libertà, dignità, inviolabilità, salute e pieno sviluppo della persona, in quanto implicitamente e preliminarmente ne assicurino la vita, la quale dunque è un bene intrinsecamente “costituzionale” e “costitutivo”, in quanto fine principale per il quale uno Stato esiste (o deve esistere).

Tuttavia, ritengo altresì che la nostra Costituzione riconosca il diritto soggettivo di disporre pienamente della propria vita, sino al punto di poterne determinare la fine. È ormai pacifico che il comma 2° dell’art. 32 Cost., a mente del quale «nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge» debba interpretarsi come se riconoscesse il rango costituzionale del diritto negativo alla salute, cioè del diritto di rifiutare le cure mediche. Il legislatore può, sì, bilanciare questo diritto con altri beni costituzionali, in primis la salute e quindi la vita altrui, come succede nei casi in cui la legge prevede misure di vaccinazione obbligatoria. Ma questo bilanciamento deve essere proporzionato, ragionevole e in ogni caso rispettoso dei «limiti derivanti dal rispetto della persona umana». Orbene, il diritto costituzionale di non subire trattamenti sanitari obbligatori (che non siano finalizzati alla tutela della salute altrui) contiene necessariamente anche la libertà di morire. Se è vero che la persona può rifiutare un trattamento sanitario e ciò anche nell’ipotesi in cui fosse indispensabile per la sua sopravvivenza, allora è altresì vero che può, in piena autonomia, decidere di morire.

Quali questioni solleva il problema dell’aborto in relazione alla tutela costituzionale della vita umana?
Il caso dell’aborto è quello che meglio di altri fa emergere il doppio livello di tutela della vita nella Costituzione, cioè sia come diritto soggettivo che come valore obiettivo. Per un verso l’interruzione di gravidanza è una decisione sulla vita altrui, quella del concepito e dell’embrione (o del feto); ma per un altro verso è anche una decisione della donna sulla propria salute psico-fisica, cioè sulla vita propria. Da ciò deriva il peculiare regime legislativo cui deve essere assoggettata la fattispecie: un regime che, in conformità con la Costituzione, da un lato consente alla gestante di disporre del proprio corpo, ma che dall’altro non lascia il concepito, cioè la vita altrui, del tutto sguarnito di tutela. Infatti, il diritto di interrompere la gravidanza è subordinato a condizioni cronologiche ben precise, che ne indeboliscono la garanzia in relazione allo scorrere del tempo, al fine di assicurare una tutela crescente della vita del concepito, in correlazione alle sue diverse fasi di sviluppo.

Quali disposizioni costituzionali sono richiamate in materia di rinuncia dei trattamenti sanitari, DAT e suicidio assistito?
Oltre all’art. 32, secondo comma, già ricordato, viene in rilievo l’art. 13, da cui può trarsi il diritto all’autodeterminazione personale. Il loro combinato disposto fonda il diritto soggettivo generale di assumere decisioni sulla propria vita, da cui, a sua volta, discendono diversi diritti soggettivi particolari: il diritto di rinunciare ai trattamenti di sostegno vitale, il diritto di rilasciare DAT, il diritto di porre fine alle proprie sofferenze attraverso un percorso di suicidio assistito. È indifferente che taluni di questi diritti siano previsti dal legislatore e altri da pronunce della Corte costituzionale (ad es., il suicidio assistito, secondo le condizioni enucleate dalla sent. n. 242 del 2019), poiché tutti, a ben vedere, ricadono sotto l’ombrello protettivo aperto dalle disposizioni costituzionali summenzionate.

Quali disposizioni costituzionali trovano applicazione nella procreazione medicalmente assistita?
Nell’orbita del diritto soggettivo alla vita è attratto anche il diritto di procreare, ossia di dare la vita, di produrre vita umana: un diritto che ha sicuro rango costituzionale negli artt. 29-31 Cost. In particolare, viene in rilievo l’art. 31, il quale assegna alla Repubblica il compito di agevolare «con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia», con ciò configurando il diritto di procreare (e formare, così, una famiglia) come diritto a prestazioni positive oltre che come classica libertà negativa. Per quel che riguarda la pratica della procreazione medicalmente assistita il quadro costituzionale si compone degli artt. 2, 31 e 32 Cost. Ovviamente il testo costituzionale, considerato di per sé, non offre una disciplina compiuta, ma solo dispone alcuni paletti non aggirabili. In particolare, sembra offrire due strade potenzialmente e alternativamente percorribili: la prima è che il legislatore definisca una tutela minima ed essenziale del diritto costituzionale a procreare; la seconda è che introduca una tutela più ampia. Mentre la prima garantirebbe il diritto di procreare a fronte di problemi procreativi gravi, quali quelli derivanti da patologie incurabili, invece la seconda offrirebbe rimedio anche per l’impossibilità di procreare in potenza (oltre che in atto). Sicché, mentre nel caso della tutela minima soltanto le coppie (coniugate o conviventi di sesso diverso e in età fertile o potenzialmente tale) possono accedere alla PMA, in quanto affette da patologie che ostacolano la naturale conseguenza dell’atto sessuale, invece, nel caso in cui si prevedesse una tutela più ampia, potrebbe ottenere la fecondazione in vitro dei propri gameti anche chi non potesse procreare naturalmente. Com’è palese, la strada della tutela minima stabilisce condizioni assai restrittive, poiché prevede che le tecniche di fecondazione siano prestazioni sanitarie garantite al solo fine di favorire la procreazione in presenza di patologie che conducano all’infertilità/sterilità, senza offrire alcun rimedio nei confronti delle cause fisiologiche di infertilità o di sterilità: con la ovvia conseguenza che non potranno accedere alla PMA i singoli individui, le coppie non più in età fertile e le coppie omosessuali. Ebbene, finora il legislatore si è mosso proprio in questa direzione, con la legge 40 del 2004. Come ho detto, era una delle due possibilità contemplate implicitamente dal dettato costituzionale, sicché si è trattato di una scelta legislativa complessivamente coerente con le prescrizioni costituzionali, pur al netto di alcuni squilibri puntualmente corretti dalla Corte costituzionale (si offriva, infatti, una tutela eccessiva al concepito, a discapito degli altri soggetti coinvolti nelle procedure).

Quale orientamento ha espresso la Corte costituzionale in materia di surrogazione di maternità?
Bisogna anzitutto prendere le mosse dal dettato legislativo e in particolare dalla legge n. 40, del 2004, la quale vieta penalmente la surrogazione di maternità. In base all’art. 12, comma 6, «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione dei gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». Ma nonostante il divieto legislativo la pratica è comunque entrata nel nostro ordinamento: è noto il fenomeno di coppie italiane che si recano nei Paesi in cui la surrogazione è consentita per poi richiedere la trascrizione dell’atto di nascita (estero) nell’ordinamento nazionale. E questo con l’avallo dell’autorità giurisdizionale: finora, difatti, l’orientamento giurisprudenziale prevalente è stato quello di riconoscere lo status genitoriale alle coppie (o ad un solo genitore) che all’estero commissionano una maternità surrogata, sempre che abbiano un legame biologico con il nato; e di autorizzare quindi la trascrizione degli atti di nascita redatti all’estero di bambini nati attraverso la surrogacy, con ciò vanificando nella sostanza il divieto imposto dalla legge. Del resto, era difficile pensare che la giurisprudenza potesse orientarsi diversamente. Occorre, infatti, distinguere ciò che è previsto ex ante da ciò che avviene ex post: il divieto di maternità surrogata, contenuto nella legislazione italiana, non può certo riguardare i bambini che nascono a seguito della pratica vietata. Non c’è dubbio che una cosa è vietare e sanzionare penalmente la surrogazione, altra cosa è la regolazione della condizione giuridica dei bambini nati a seguito di surrogazione: si tratta, evidentemente, di fattispecie differenti.

Dal canto suo, la Corte costituzionale, in un obiter dictum, afferma perentoriamente e senza eccezioni di sorta che la surrogazione di maternità «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane»; e non manca di sottolineare come questa pratica sia circondata da un «elevato grado di disvalore»: se ne evince che per i giudici costituzionali il vigente divieto legislativo (contenuto nell’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004) debba considerarsi attuativo di valori costituzionali profondi e irrinunciabili.

La chiusura del Giudice delle leggi non sembra lasciare scampo: la maternità surrogata deve rimanere bandita dal territorio italiano; e nella misura in cui «la maternità surrogata offende in modo intollerabile la dignità della donna», se ne dovrebbe evincere coerentemente che le norme legislative interne (che la sanzionano penalmente) valgano come insuperabile limite di «ordine pubblico internazionale» nei confronti di norme e atti stranieri. Anche se questa chiusura è stata ribadita in un’altra recentissima pronuncia, tuttavia in questo ultimo caso il Giudice delle leggi si preoccupa di considerare la posizione del minore nato all’estero con la surrogazione di maternità, avvallando l’orientamento giurisprudenziale prima ricordato. Per la Corte è necessario che, al fine di garantire il miglior interesse del minore, il legislatore riconosca anche il legame con il genitore “intenzionale” (e non solo con il genitore biologico) e che una tale tutela sia «assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino».

Anna Alberti, professore associato di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università di Sassari. Dopo aver conseguito il titolo di dottore di ricerca nell’Università di Firenze, è assegnista di ricerca e quindi ricercatrice nell’Università di Sassari. Oltre che de La vita in Costituzione è autrice di un altro lavoro monografico, La delegazione legislativa tra inquadramenti dogmatici e svolgimenti della prassi (Giappichelli, 2015), e di numerosi articoli in tema di fonti del diritto, diritti fondamentali, diritto regionale e organizzazione costituzionale.

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