
Giuseppe Ungaretti è morto nel giugno 1970. Negli ultimi vent’anni della sua vita, ebbe grandissima notorietà, anche internazionale. Ed ebbe pure grande visibilità su quotidiani, riviste letterarie, trasmissioni radiofoniche e televisive. Fu anche un prefatore assai ricercato. Partecipò, inoltre, a tante conferenze letterarie durante le quali ebbe modo di parlare della sua vita. Naturalmente rilasciò tante interviste.
In quelle occasioni – ma anche nelle lettere da lui scritte e nelle chiacchierate informali con gli amici del tempo – il poeta presentò un’immagine di sé in parte diversa da quella reale.
Come si tradusse tale impegno nel rapporto con Leone Piccioni, autore della biografia che ha rappresentato l’indiscusso punto di riferimento ungarettiano per un cinquantennio?
Piccioni ebbe un ruolo fondamentale nel tentativo del poeta di presentare una sua biografia addomesticata. I due si conobbero nel novembre 1945, quando Leone Piccioni – all’epoca studente di Lettere a Firenze – si trasferì a Roma per seguire il padre Attilio, esponente di primissimo piano della Democrazia Cristiana. Leone seguì i corsi del professor Ungaretti all’Università di Roma, divenne uno dei suoi allievi preferiti, laureandosi proprio col poeta nel 1947. Ungaretti e Piccioni entreranno in confidenza, diventeranno amici, frequentandosi assiduamente fino alla scomparsa del poeta; tuttavia in Piccioni rimarrà sempre vivo un sentimento di grande devozione verso il Maestro, sentimento che lo indurrà a sforzarsi di comprendere, giustificare, ridimensionare o omettere qualche incongruenza emersa dai racconti che il poeta gli faceva sul proprio passato.
Leone Piccioni ha scritto il suo libro (Giuseppe Ungaretti. Vita d’un poeta, Rizzoli, Milano 1970) appena tre mesi prima della morte del poeta. La biografia scritta da Piccioni, coerentemente con le premesse, aveva un approccio inevitabilmente agiografico. Per quanto riguarda gli anni dal 1888 al 1945 Piccioni si basava esclusivamente sui racconti fattigli dal poeta; per quanto riguarda, invece, gli anni dal 1946 al 1970 il biografo narrava anche episodi vissuti di persona, ma sempre filtrati dal rispetto e dalla devozione dell’allievo nei confronti del suo maestro. Ungaretti, dunque, ebbe buon gioco nell’influenzare abbondantemente, nei contenuti e nei toni, la biografia scritta da Piccioni nel 1970. Inoltre, va detto che quel libro di Piccioni è diventato l’autorevole e indiscussa fonte a cui hanno attinto le biografie su Ungaretti pubblicate dopo il 1970 (e ancora fino ad oggi); ed anche i numerosi Siti Internet che offrono pagine dedicate alla vita del poeta si rifanno abbondantemente, spesso inconsapevolmente, al libro di Piccioni del 1970 e alla sua ristampa del 1979.
Quali vicende in special modo sono oggetto di revisione?
Tantissime. Il libro è frutto d’una ricerca durata una decina d’anni. Nel corso della ricerca, oltre ad esaminare i fatti già noti – contenuti nei racconti dello stesso Ungaretti, nei profili biografici allegati alle sue opere e nei libri dei suoi biografi – sono stati “incrociati” fra loro i numerosi epistolari già pubblicati e si è utilizzata anche qualche lettera ancora inedita. Si sono svolte anche ricerche in numerosi Archivi, anche fuori dall’Italia, rintracciando ed utilizzando molti documenti, spesso inediti. In particolare le ricerche sono state svolte presso l’Archivio nazionale francese, l’Archivio del Comune di Parigi, l’Archivio centrale dello Stato, l’Archivio Gargiulo presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma, l’Archivio storico diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, l’Archivio Bonsanti di Firenze, l’Archivio Giuseppe Bottai presso la Fondazione Mondadori, l’Archivio salesiano centrale, l’Archivio del Monastero di Santa Scolastica a Subiaco, l’Archivio storico dell’Università «La Sapienza» di Roma, gli Archivi di Stato di Roma e di Pisa, l’Archivio storico del Comune di Lucca, l’Archivio storico del liceo «Visconti» di Roma. Inoltre sono state condotte ricerche presso l’Archivio del Consolato italiano ad Alessandria d’Egitto, gli Archivi dell’Istituto professionale «Don Bosco», della Scuola media «Giuseppe Ungaretti», della Scuola elementare «Giuseppe Ungaretti» e dell’Istituto Saint Marc di Shatby; l’Archivio federale svizzero, gli Archivi dell’Università della Sorbona, l’Archivio centrale dei commissariati di polizia di Parigi, l’Archivio della prefettura di polizia di Parigi, l’Archivio storico civico e l’Archivio del servizio anagrafe del Comune di Milano, gli Archivi del Centro documentale [ex Distretto militare] di Firenze e di Milano, gli Archivi di Stato di Milano, Firenze e Lucca; l’Archivio dell’Istituto maestre Pie Venerini a Marino.
Nel corso della ricerca sono stati rintracciati numerosi documenti da cui si evincono diversi episodi (e comportamenti) della vita del poeta finora sconosciuti; ed anche qualche lato del suo carattere rimasto un po’ in ombra: una certa tendenza all’opportunismo (per quanto sui generis), all’insincerità e all’adulazione.
Sono molti i fatti nuovi presentati nel libro: l’inesistenza della presunta povertà della famiglia d’origine; l’invenzione di qualche elemento straziante per avvalorare l’immagine dell’«uomo di pena»; lo svolgimento ad Alessandria d’Egitto di studi tecnici e non classici; il conseguimento alla Sorbona di un titolo di studio meno prestigioso di quanto dichiarato in seguito; la partecipazione alla Prima guerra mondiale non da volontario e, soprattutto, facendo tutto il possibile per essere assegnato alle retrovie del fronte; la mitizzazione della settimana santa del 1928 le Monastero di Subiaco, come data e luogo del suo riavvicinamento alla fede cristiana; un certo opportunismo sia nell’adesione al fascismo che, poi, alla Democrazia Cristiana; l’ondivaga posizione nei confronti degli ebrei; il ruolo attivo nella propaganda fascista sia in Italia che all’estero.
Ma ciò che più sorprende è il modo con cui Ungaretti, nel secondo dopoguerra, tentò di nascondere una parte della sua vita. Un tentativo che ora suscita quasi tenerezza per il modo fanciullesco con cui è stato realizzato. Tra il 1944 e il 1945 (ma continuò a farlo finché visse) negò con ostinazione d’essersi iscritto al Partito Fascista, di aver conosciuto personalmente ministri e gerarchi, di aver chiesto a Mussolini la prefazione per il Porto Sepolto, di aver svolto un ruolo attivo nelle politiche culturali del regime. In tutti questi casi, però, era vero esattamente il contrario. Nel 1961, pubblicando in volume le sue prose (Il deserto e dopo), rimaneggiò alcuni articoli ritenuti compromettenti; e lo stesso fece con la poesia Poeti d’oltreoceano vi dico. Ancora nel 1969 dichiarò, incredibilmente, di non sapere che Mussolini nel 1942 fosse il capo del governo. Si tratta di comportamenti che potrebbero spiegarsi con un sentimento di vergogna per quelle sue azioni del passato, oppure con la speranza mai sopita d’essere nominato senatore a vita o di vincere il premio Nobel.
Quale profilo del poeta emerge da quest’opera di riscrittura autobiografica?
Il libro non ha certo intenti demolitori. Vengono messi in luce, anzi, diversi aspetti positivi della personalità del poeta: la passione che metteva in tutto ciò che faceva, portando con sé «un dono sempre più raro: la memoria, oscura e lacerata fin che si vuole, di una gioia d’origine» (Vittorio Sereni, «Panorama», 18 giugno 1970); la sua enorme curiosità, il desiderio di conoscere sempre cose nuove, il candore e la capacità di stupirsi, rimasta viva fino alla fine; l’importanza da lui assegnata alla cultura, alle arti, comprese le arti figurative; l’enorme ruolo attribuito alla poesia, ed in particolare alla propria attività, svolta con grande impegno, dedizione e passione, con scrupolo quasi maniacale; il desiderio che venisse riconosciuto il suo valore di poeta, anzi che lo si riconoscesse come il migliore, l’unico vero poeta vivente; la denuncia dei rischi derivanti da un uso improprio del denaro, causa delle guerre e di eccessive disuguaglianze economiche; il giudizio sul potere politico, che – a parere del poeta – avrebbe dovuto essere molto più attento verso le esigenze dell’arte.
E, poi, la sua bontà e generosità, che emergeva, soprattutto, quando si offriva di aiutare giovani artisti; sostegno che consisteva in incoraggiamento e consigli, in sue prefazioni, ed anche in aiuti ancor più concreti: per pubblicare un libro, per ottenere un premio o una borsa di studio, per trovare un acquirente per un quadro, per organizzare un’esposizione. Questo aspetto della personalità di Ungaretti, essendo legato al suo senso di giustizia e di dignità dell’uomo, andava oltre il campo strettamente artistico, spingendolo ad interessarsi anche ad altra gente bisognosa d’aiuto, a persone a lui non particolarmente legate; si trattava quindi di azioni gratuite, disinteressate. Poteva essere qualcuno in difficoltà, anche per motivi politici; poteva essere il nipote del suo calzolaio, oppure un ragioniere del comune di Merano che era stato licenziato.
L’aspetto più eclatante del suo carattere era la capacità di prendere facilmente fuoco, dando in escandescenze con urla furiose, improperi e pugni sul tavolo, per poi tornare altrettanto rapidamente alla calma e al sorriso. Lo spunto di quegli scatti d’ira gli era spesso offerto da una causa giusta da difendere (anche se, poi, poteva accadere che, proprio per difendere una giusta causa, diventasse lui ingiusto verso altri). Questo particolare lato del carattere del poeta rappresenta, forse, la manifestazione esteriore di profondi turbamenti dell’animo. Turbamenti, che trovano riscontro anche nelle sue poesie; e il celebre verso «non ho che superbia e bontà» accolto nella Pieta, rappresenta solo uno degli esempi che si potrebbero fare.
Questo libro, nel ribaltare fatti che si credevano accertati e nel mostrare elementi nuovi, presenta un profilo “integrale” di Ungaretti. Un poeta, un uomo – come scriveva Giovanni Ansaldo in un suo sconosciuto articolo del 1933 – con un «complesso di difetti e di qualità, di virtù e di vizi, così combinati, da far di lui una personalità». Emerge, a fianco allo straordinario poeta, un uomo con grandi virtù, ma anche con tante fragilità, compresa l’ossessione di cancellare una parte del proprio passato. Un uomo in cui convivevano lampi di genio con debolezze umane; un artista che non si è scandalizzato di fronte alla propria miseria, riuscendo ad utilizzarla quasi come uno sgabello per innalzarvisi, traendo alimento dalla sua complessa personalità anche per creare poesia.
Nel giorno del suo 80° compleanno disse: «Non so se sono stato un vero poeta, ma so di essere stato un uomo; perché ho molto amato e molto sofferto, ho molto errato e ho saputo, quando potevo, riconoscere il mio errore, ma non ho odiato mai» (L. Piccioni, Avanti vecchio capitano, «La Fiera Letteraria», 22 febbraio 1968).
Claudio Auria (Roma 1960), laureato in filosofia, è un funzionario dell’Università di Roma «Tor Vergata». Studioso di storia della pubblica amministrazione, si è interessato in particolare di scuola e università. Tra le sue pubblicazioni: Note sulla carriera amministrativa di Giulio Carlo Argan, in «Le Carte e la Storia», Il Mulino, 2003; I provveditori agli studi dal fascismo alla democrazia, Fondazione Spirito, 2006; Ungaretti e il fascismo, in «Annali della Fondazione Spirito», 2006; C. Auria, B. A’Hearn, Istruzione, in G. Vecchi, In Ricchezza e in povertà, Il Mulino, 2011.