
La più importante di esse, che rappresenta anche una della più grandi scoperte scientifiche degli ultimi decenni, è quella dell’esistenza dei pianeti extrasolari, il primo dei quali, 51 Pegasi b, venne individuato il 6 ottobre 1995 dagli astronomi svizzeri Michel Mayor (1942-vivente) e Didier Queloz (1966-vivente), a cui per questo è stato meritatamente assegnato il Nobel nel 2019. Da allora, grazie soprattutto al satellite Kepler della NASA, lanciato il 7 marzo 2009, ne sono già stati scoperti oltre 4000, ma siamo ormai certi che ne esistono molti, molti di più. Infatti, non abbiamo scoperto solo i pianeti, ma anche come nascono.
Su questo fin dal Settecento si confrontavano due teorie rivali. La prima, detta della collisione cosmica, dovuta al grande naturalista francese Georges-Louis Leclerc De Buffon (1707-1788) e poi ripresa in epoca moderna in particolare dal celebre astronomo inglese James Jeans (1877-1946), faceva risalire la formazione dei pianeti appunto ad una collisione (o ad un passaggio estremamente ravvicinato) fra il Sole e un’altra stella o comunque un altro corpo celeste. In questo caso, naturalmente, essendo tali incontri molto rari (lo spazio è molto vuoto), anche la formazione di pianeti sarebbe un evento molto raro.
La seconda teoria, detta della nebulosa primordiale e attribuita generalmente al filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) e al matematico francese Pierre-Simon De Laplace (1749-1827), ma in realtà ideata originariamente dal filosofo, letterato e mistico svedese Emanuel Swedenborg (1688-1772) nel 1734, quando Kant era un bambino di dieci anni, prevedeva invece che i pianeti nascano insieme alla loro stella da una nube di polveri cosmiche che si contrae progressivamente sotto l’azione della gravità, fino a formare un disco rotante, oggi detto disco di accrescimento. Ovviamente in questo caso la loro formazione dovrebbe essere vista come una conseguenza naturale e quindi molto comune del processo che conduce alla nascita delle stelle.
Ebbene, oggi sappiamo per certo che la teoria giusta è la seconda, perché i dischi di accrescimento sono stati effettivamente osservati e negli ultimi anni, grazie ad ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), un grande radiotelescopio europeo con una forte partecipazione italiana basato nell’altopiano di Chajnantor sulle Ande cilene, nel deserto di Atacama, siamo perfino riusciti a vedere i “solchi” lasciati dai pianeti in formazione, che un po’ alla volta “mangiano” tutta la polvere che trovano sul loro cammino (i pianeti non ancora, ma ormai ci siamo molto vicini).
Ciò significa che praticamente ogni stella dovrebbe avere almeno un pianeta e probabilmente anche più di uno. Di conseguenza, il numero dei pianeti dovrebbe essere addirittura superiore a quello delle stelle, che sono 400 miliardi solo nella nostra galassia e 10.000 miliardi di miliardi nell’intero universo visibile. Naturalmente non tutti i pianeti sono adatti alla vita, ma, almeno per quanto riguarda le sue forme più semplici, il loro numero dovrebbe comunque essere immenso, soprattutto considerando ciò che abbiamo scoperto sull’incredibile adattabilità dei batteri terrestri, che sono in grado di sopravvivere praticamente in qualsiasi ambiente, anche in quelli che fino a una ventina d’anni fa venivano considerati del tutto sterili.
Quando e come nasce l’astrobiologia?
L’astrobiologia (che quando ho iniziato ad occuparmene veniva chiamata bioastronomia) è la disciplina che si occupa di cercare la vita nello spazio in qualsiasi forma, ma soprattutto in quelle più semplici, analoghe ai nostri batteri, per le ragioni che spiegherò fra poco.
Il suo atto di nascita può essere considerato la Missione Viking, formata da due sonde gemelle che atterrarono su Marte rispettivamente il 20 luglio e il 3 settembre 1976. Ciascuna delle Viking aveva a bordo un esperimento per cercare non direttamente la vita, bensì tracce della sua attività (i cosiddetti biomarkers). Come è noto, alcuni processi chimici “sospetti” vennero effettivamente scoperti, ma il risultato fu ambiguo. Dopo un primo momento di entusiasmo, infatti, un’analisi più attenta concluse che le reazioni osservate erano dovute quasi certamente a processi chimici inorganici. Tuttavia, negli ultimi vent’anni la questione è stata riesaminata e si è creata una corrente di pensiero che ribalta il verdetto, ritenendo che si trattasse effettivamente di attività metabolica. Non tutti però sono d’accordo e di fatto la comunità scientifica è spaccata in due, ormai da molto tempo. Personalmente, avendo anche assistito di persona ad alcuni dibattiti al riguardo, credo che non si giungerà mai ad una conclusione condivisa, considerando anche che sono passati più di 40 anni.
D’altra parte, la cosa oggi ha molto meno importanza, perché proprio in questi giorni stanno partendo due missioni destinate a cercare di nuovo la vita su Marte, che dovrebbero darci indicazioni molto più precise e affidabili, grazie ai progressi tecnologici intercorsi e alle lezioni che abbiamo nel frattempo imparato. La prima è Mars 2020 della NASA, basata sul rover Perseverance, un robottino di superficie felicemente “ammartato” proprio pochi giorni fa, il 18 febbraio 2021, che sarà presto affiancato dal mini-elicottero, sempre robotico, Ingenuity. La seconda sarà ExoMars dell’ESA (ma italiana al 33%), il cui lancio, più volte rimandato dopo la tragica “morte” del lander Schiaparelli, precipitato su Marte il 19 ottobre 2016, è ora previsto per il 2022. Il suo componente più importante sarà un rover robotico attrezzato per cercare, fra l’altro, tracce di vita presente o passata sia in superficie che nel sottosuolo fino a una profondità di 2 metri: un bel progresso, considerando che finora la profondità massima raggiunta dalle precedenti sonde era di pochi millimetri!
Come si sviluppa la ricerca della vita extraterrestre?
Anzitutto va chiarito che la ricerca segue modalità completamente diverse a seconda che si tratti di vita intelligente o non intelligente e, in quest’ultimo ambito, a seconda che si tratti di vita all’interno o all’esterno del sistema solare.
Quest’ultima è infatti l’unica che possiamo sperare di trovare direttamente, attraverso sonde robotiche come quelle inviate su Marte o addirittura di persona, quando finalmente sbarcheremo su di esso, anche se ancora non sappiamo quando (le “sparate” di Elon Musk non fanno testo: i problemi da risolvere sono gli stessi per tutti e per alcuni di essi le tecnologie necessarie ancora non esistono; del resto, Musk già anni fa aveva promesso di colonizzare Marte entro il 2018…). Tuttavia, date le attuali condizioni del Pianeta Rosso, sicuramente non possiamo aspettarci di trovare forme di vita complessa. La cosa più probabile è che ci possano essere microrganismi simili ai nostri batteri, anche se forse qualcosa di un po’ più evoluto potrebbe esistere nei laghi sotterranei scoperti nel 2018 dal radar MARSIS (interamente italiano, sia per costruzione che per gestione) a circa un chilometro di profondità vicino al Polo Sud marziano. Lì, però, non possiamo certo sperare di arrivare con le sonde, ma solo con una missione con equipaggio umano, che, come detto, appare ancora piuttosto lontana.
Oltre a Marte, ci sarebbero anche alcuni satelliti di Giove e Saturno che appaiono molto promettenti: principalmente Europa, Encelado e Titano, che sotto la crosta ghiacciata superficiale dovrebbero contenere addirittura interi oceani. Il problema, però, è arrivarci, dato che la crosta suddetta è spessa almeno una decina di chilometri e, come ho appena detto, le nostre sonde robotiche hanno da poco raggiunto la capacità di scavare buchi profondi un paio di metri. Quanto ad andarci di persona, per adesso non se ne parla proprio, dato che è molto più complicato che andare su Marte. Quindi possiamo dire che “ricerca diretta della vita” equivale di fatto, sia ora che nel futuro prossimo, a “spedizioni robotiche e (forse) un giorno anche umane su Marte”.
Quanto alla ricerca fuori dal sistema solare, si fa (o meglio, si farà quando avremo raggiunto la capacità tecnologica, alla quale però manca ormai pochissimo) essenzialmente cercando biomarkers, come i Viking, però stavolta non attraverso sonde, bensì analizzando la composizione dell’atmosfera dei pianeti attraverso telescopi di vario tipo. Il problema è che in questo modo sarà molto difficile raggiungere la certezza sulla reale esistenza di vita, perché purtroppo il metodo dei biomarkers è intrinsecamente ambiguo, dato che essi possono venire prodotti anche da processi chimici inorganici e la decisione fra le due alternative è spesso questione di complesse valutazioni dei dati, che difficilmente portano a risultati univoci. L’esempio dei Viking e quello, recentissimo, della presunta scoperta tra le nubi della stratosfera di Venere della fosfina (un composto del fosforo che sulla Terra è prodotto da alcuni tipi di batteri), che oggi è perlopiù considerata una semplice “illusione ottica” prodotta da un improprio trattamento dei dati, sono molto istruttivi al proposito: se infatti non siamo riusciti a raggiungere la certezza nemmeno sui due corpi celesti più vicini alla Terra (Luna a parte, ovviamente), cosa potrà succedere con pianeti milioni o addirittura miliardi di volte più lontani?
Quanto alla ricerca della vita intelligente, anch’essa avviene in forma indiretta, essenzialmente attraverso il cosiddetto programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) che cerca segnali radio di origine artificiale. Si esclude quindi l’eventualità di un contatto indiretto, non solo a causa dell’estrema difficoltà dei viaggi interstellari, ma anche per un problema logico espresso dal cosiddetto “Paradosso di Fermi”, che analizzo in dettaglio nel libro, così come le concrete modalità della ricerca, che, nonostante la sua semplicità concettuale, in pratica è molto più complicata di quel che si può immaginare – nonché di quel che posso spiegare in questa sede.
Qui aggiungerò solo che anche nel SETI (come in molte altre imprese scientifiche di cui non si parla mai) il ruolo dell’Italia è sempre stato rilevantissimo, secondo solo a quello degli USA: dall’articolo che ne ha stabilito per la prima volta il concetto, Searching for Interstellar Communications, pubblicato il 19 settembre 1959 su Nature da Giuseppe Cocconi e Philip Morrison, allo straordinario lavoro sui cruciali algoritmi di riconoscimento fatto da Claudio Maccone, Stelio Montebugnoli e Nicolò Antonietti, fino alla presidenza del SETI Committee (il gruppo interdisciplinare della International Academy of Astronautics che guida la ricerca a livello mondiale e di cui anch’io faccio parte) che dal 2012 è stata affidata allo stesso Maccone, che mi ha fatto l’onore di scrivere la prefazione al libro.
Come si articola il tentativo di costruire un linguaggio per comunicare con specie intelligenti diverse dalla nostra?
Questa è una faccenda tanto importante quanto complicata, sicché qui posso solo accennarvi in termini estremamente generali.
L’importanza del tema dovrebbe essere chiara a tutti. Se infatti il SETI dovesse mai avere successo, ci troveremmo inevitabilmente di fronte a una scelta delicatissima: rispondere o non rispondere? Ma, qualora decidessimo di farlo, ci troveremmo subito di fronte a un altro dilemma almeno altrettanto grave: come comunicare, posto che dei nostri interlocutori non conosceremmo praticamente nulla, a cominciare dalla lingua?
Beh, per fortuna non esattamente così: infatti sapremmo almeno che sono in grado di inviare delle trasmissioni radio abbastanza potenti da essere captate fin sul nostro pianeta. Può sembrare poco, ma in realtà ciò implica che abbiano una conoscenza della matematica e della scienza naturale almeno pari alla nostra, il che a sua volta implica l’esistenza di un vasto insieme di conoscenze condivise, che può servire da base per creare una sorta di “dizionario” comune.
Per esempio, qualsiasi essere intelligente che conosca la scienza quanto basta per costruire un radiotelescopio, in qualsiasi parte dell’universo viva, se ricevesse una sequenza contenente i numeri da 1 a 92, ciascuno contraddistinto da un simbolo differente, capirebbe subito che c’è qualcuno che gli sta inviando l’elenco degli elementi chimici, che sono appunto 92 in tutto l’universo conosciuto. Dopodiché, basterà combinarli fra loro usando le operazioni matematiche fondamentali e poi abbinarli a delle immagini opportunamente costruite e potremo comunicare la composizione e il funzionamento chimico di qualsiasi cosa esistente sul nostro pianeta, in particolare degli esseri viventi, che oltretutto è una delle poche conoscenze nuove che potremmo comunicare ai nostri partner alieni. A livello di informazioni scientifiche generali, infatti, dovrebbero saperne molto più di noi, data che su scala cosmica noi siamo praticamente appena nati, per cui difficilmente riusciremmo a sorprenderli, mentre potrebbero trovare interessante ricevere informazioni a proposito di una biosfera diversa dalla loro.
Il vero problema è come passare da comunicare la scienza a comunicare la cultura. Questo sì che è veramente difficile, quasi ai limiti dell’impossibile. Ma, si sa, a noi uomini piacciono le sfide impossibili e così anche su questo c’è già qualche idea, una delle quali l’ho proposta proprio io. Ma non ve la dico (anche perché sarebbe troppo lungo). Chi vuole saperne di più legga il libro.
Quali implicazioni sociali, filosofiche e religiose avrebbe una tale scoperta?
Molti, anche tra gli scienziati, si aspettano che una scoperta del genere avrebbe conseguenze sconvolgenti per la nostra società, sia in positivo (nuovo sentimento di fratellanza cosmica, migliore comprensione del nostro posto nell’universo, forse perfino avanzamenti tecnologici favoriti dal dialogo coi nostri “fratelli dell’infinito”), sia in negativo (crollo delle religioni tradizionali, perdita di autorità dei governi, panico, fanatismo, forse perfino rivoluzioni e guerre civili).
In realtà, io credo che tali convinzioni nascano dal non aver riflettuto abbastanza sul fatto che il contatto sarebbe solo indiretto – in realtà molto indiretto, dato che nella migliore delle ipotesi la civiltà più vicina disterà centinaia di anni luce dalla Terra, se non addirittura migliaia, per cui passeranno secoli, se non addirittura millenni, prima che si possa stabilire qualcosa di simile a un dialogo (ammesso e non concesso che si riesca a capirsi, cosa che, come abbiamo visto prima, non è affatto scontata). Quindi, anche se è brutto dirlo, sono convinto che, dopo un primo momento di grande eccitazione, quando la gente capirà come stanno davvero le cose tornerà a farsi i fatti propri, lasciando la cosa in mano agli esperti.
Diverso è il discorso sulle conseguenze culturali e religiose a lungo termine, anche se pure qui non bisogna esagerare, non solo perché, di nuovo, non è affatto detto che riusciremo a discutere di questi argomenti con i nostri ipotetici partner alieni, ma anche perché già ora moltissimi terrestri sono convinti dell’esistenza di altre civiltà pur mantenendo al tempo stesso le proprie convinzioni tradizionali, evidentemente considerando perfettamente compatibili le due cose.
Certo, la gente ha spesso credenze contraddittorie, cosa che un’analisi filosofica e teologica rigorosa non si può invece permettere. Inoltre, una cosa è ragionare su pure convinzioni personali, un’altra, ben diversa, su una realtà accertata. Qualche aggiustamento nelle nostre attuali convinzioni si renderebbe quindi certamente necessario, ma è molto difficile dire esattamente quali, perché molto dipenderà dalle modalità concrete del contatto, dato che da esse dipenderà cosa riusciremo a sapere (e cosa no) dei nostri interlocutori. Parlarne adesso è quindi molto difficile, ma al tempo stesso anche inevitabile, perché la gente vuole sapere e fa regolarmente domande su questo punto.
Proprio per questo ho scritto a Benedetto.
Quale posizione ha espresso in merito il Papa Emerito Benedetto XVI?
Una delle cose più interessanti del libro è effettivamente che ho pubblicato in appendice (ovviamente con il suo permesso) la lettera personale che Benedetto XVI mi ha spedito nel 2014 in risposta alle mie domande su alcune questioni teologiche strettamente connesse con la ricerca di vita extraterrestre, prima fra tutte quella sulla sua stessa esistenza.
La posizione di Benedetto è in sostanza che non ha una posizione: secondo lui bisogna aspettare di avere dati scientifici più precisi prima di poter dire qualcosa di sensato in merito. A prima vista ciò potrebbe sembrare deludente, ma in realtà è della massima importanza, perché a volte il non detto conta più di ciò che si afferma esplicitamente: e questo è appunto uno di questi casi. Infatti, lasciando il verdetto alla scienza, Benedetto implicitamente ci sta dicendo che la teologia non ha nulla da dire al riguardo e che quindi tale eventualità è perfettamente accettabile per il cristianesimo. Se consideriamo che questa è la prima volta che un Papa, benché non più in carica, prende una posizione possibilista al riguardo, non mi sembra esagerato definirlo un documento storico.
Vorrei sottolineare che la stessa posizione è stata presa l’anno seguente anche da Papa Francesco in un’intervista alla rivista francese Paris Match, il che rappresenta l’ennesima dimostrazione di quanto sia profonda la sintonia tra i due, con buona pace di chi, sia da destra che da sinistra, cerca scioccamente di contrapporli.
Inoltre, nella lettera Benedetto prende delle posizioni tanto impegnative quanto innovative anche su altre questioni teologiche dall’elevatissimo “peso specifico”, come la natura del peccato originale, l’origine dell’umanità e il significato cosmico della missione di Gesù Cristo. Una volta ancora, chi vuole saperne di più è invitato a leggere il libro.
Paolo Musso è professore presso l’Università dell’Insubria, dove insegna Fondamenti della modernità e Scienza e fantascienza. È membro della European Academy of Sciences and Arts e del SETI Committee della International Academy of Astronautics, nonché visiting professor presso la UCSS di Lima. Dal 2020 è Direttore Scientifico del centro di ricerca internazionale InCosmiCon (Intelligence in the Cosmic Context).