
Robinson è l’unico sopravvissuto di una nave che si è infranta sugli scogli di un’isola che, pur disabitata, si dimostra accogliente: ha un clima tropicale, foreste e fonti d’acqua, ci vivono capre e uccelli, grandi tartarughe e pappagalli parlanti. Defoe descrive minuziosamente il modo in cui, sia pure con molti strumenti recuperati dal relitto della nave, Robinson riesce a realizzare un confortevole riparo (anzi due, uno in riva al mare e uno nell’interno, in campagna), palizzate difensive e grotte accoglienti, coltivazioni di cereali, allevamenti di ovini, suppellettili e canoe scavate nei tronchi. È la parte più consistente del libro, e quella che ha affascinato di più soprattutto i lettori più giovani (o almeno, a me adolescente, questo è successo). Si tratta di un processo di adattamento che parla dell’uomo capace di dominare la natura, dell’homo faber, dell’ingegno dell’uomo moderno, che sfida l’ambiente primitivo e lo modifica a somiglianza della vita organizzata dell’Occidente seicentesco. Ci sono due momenti di cambiamento significativo, nel diario di Robinson. Uno è quello in cui, dopo anni di frenetica attività, ha provveduto a sopravvivere, alterato da una breve febbre, si trova a meditare sulla sua condizione. “Che cosa sono questo mare e questa terra, di cui ho veduto tanta parte? Di dove hanno origine? E che cosa sono io?” Domande che lo portano ad affermare che un Dio ha fatto tutto quello che ha intorno, e che ha provveduto alla sua salvezza. Da allora il naufrago legge con attenzione una Bibbia che ha recuperato dalla nave e si inoltra in una riflessione che possiamo definire mistica. Ma l’altro elemento che cambia la vita di Robinson è quando assiste a un sacrificio umano e ad atti di cannibalismo da parte di indigeni, probabilmente venuti dalla terraferma, non molto lontana da lì. Non è un caso che, un anno dopo, decida di salvare un indigeno destinato a un festino degli antropofagi, facendone il proprio schiavo. Perché questo è Venerdì (dal giorno in cui viene salvato). Trattato con benevolenza, con affetto persino, ma servo, che deve chiamarlo “padrone”, come evidentemente, inevitabilmente, accadeva per i neri, considerati per origine razza inferiore.
La vita di Robinson cambia non poco; perché allo schiavo insegnerà a parlare, ad aver timore di Dio, a conoscere il mistero della polvere da sparo. È curioso che Venerdì, approssimativamente istruito sulle basi della religione cristiana, e appena capace di articolare un pensiero in inglese, stupisca Robinson con una questione teologica alla quale lui non è preparato a rispondere: “Se Dio tanto forte, tanto più potente come il Diavolo, perché Dio non ammazzare il Diavolo e così fare lui non più cattivo?” Che l’indigeno si addentri così direttamente nel dibattito sulla teodicea può stupire, anche perché risulta più acuto in materia dell’europeo. Sono le sorprese del pensiero selvaggio. Ci vogliono ancora secoli perché arrivi Lévi-Strauss, ma in fondo Defoe lo anticipa, dimostrando che esiste una logica anche in popolazioni distanti da quella che noi chiamiamo civiltà. Arriveranno poi altre vittime di sacrifici umani, Robinson le salverà, e insieme arriverà una nave di ammutinati, e la libertà e il ritorno a casa si apriranno per il “governatore” dell’isola.
Le straordinarie avventure del naufrago sono tutte qui, e non sono poca cosa. Ma quello di Robinson è un grande mito, un archetipo che affascina e fa fantasticare sul sogno di un’isola dove un uomo solo vive un’autonomia e una libertà che non è possibile immaginare nel consorzio umano. È insieme un racconto fiabesco e un’anticipazione del razionalismo illuministico e del positivismo anglosassone. Robinson non è un coltivatore, non un allevatore, non un falegname, non un vasaio, ma sulla base dei pochi principi introiettati vivendo nell’Inghilterra moderna sa riprodurre, sia pure con qualche approssimazione, tutto quello che serve per fare in modo che la piccola isola assomigli all’isola più grande da cui viene. Defoe ha descritto un esperimento nel quale un uomo, separato dalla civiltà, cerca di ricostruire gli strumenti originali che lo rendono “civile”, coltivando le tradizioni e le contraddizioni del suo tempo, capace quindi di dominare la natura e di considerare esseri inferiori gli autoctoni. Un’isola come laboratorio, come esperimento di cosa può succedere a chi viene allontanato dal suo contesto sociale e culturale. Un’isola che lui chiama Disperazione, certo, ma che si ostina in fondo a trasformare, in scala, in una piccola Gran Bretagna.»
tratto da Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita di Piero Dorfles, Bompiani