
Dentro questa premessa generale, è ovvio che il momento che stiamo vivendo ha una sua specifica genealogia. Si inserisce all’interno di una crisi di legittimità della sovranità. Da un lato infatti l’identificazione della sovranità con “lo stato sovrano” è stata superata dalla forza dirompente di tante istituzioni sovranazionali. Per altro verso tali istituzioni hanno preteso sovranità senza interrogarsi sul meccanismo che rende la sovranità democratica, cioè il meccanismo della sua legittimazione. Il problema della democrazia è precisamente questo: il fatto che la sovranità non è più autolegittimata ma necessita di una legittimazione a posteriori e permanente, altrimenti diviene abuso.
È in questa crisi di legittimità che si inserisce ciò che nel libro definisco come un doppio odio. L’odio da parte delle élites nei confronti della democrazia, delle sue regole, delle sue accortezze, delle sue lungaggini. Di ciò che appunto garantisce che la sovranità debba incessantemente legittimarsi. E, come effetto di questo odio, l’odio populista. Che anch’esso prende di mira la democrazia, vista come un regime incapace di funzionare e che perpetua le diseguaglianze di classe.
Nella guerra che élites e populisti si fanno c’è un solo vero nemico comune: la democrazia parlamentare, considerata da entrambe le parti con disprezzo come un ingombro del passato.
Quali pregi mantiene la democrazia rappresentativa?
Tutto ciò che oggi appare inattuale.
In primo luogo il fatto che essa condizioni l’ordine della decisione alla dilazione della discussione. Più semplicemente, che per decidere bisogna discutere. La lentezza è un grande pregio. Lo è in circostanze più semplici da gestire, per esempio quando dobbiamo prendere una decisione importante che riguarda noi stessi. In quel caso non ci sogneremmo di “decidere senza pensarci”. A maggior ragione ciò vale quando la responsabilità esercitata da alcuni vale per molti. A me pare che oggi non stiamo sostituendo la democrazia della lentezza con la democrazia della decisione, ma con la democrazia dell’impulso. In un libro ormai molto celebre, il sociologo Rosa sostiene che l’accelerazione del tempo è una delle forme più ricorrenti dell’alienazione contemporanea. Come uno scarto, un non allineamento tra il tempo necessario per fare le cose comprendendole e quello che ormai pretendiamo per decidere sulle cose. Il segreto della democrazia parlamentare – ciò che scuoteva i teorici dell’assolutismo – è precisamente che essa privilegia l’evento della discussione sull’ordine della decisione. È disponibile a ritardare la decisione in modo che essa non sia mai un modo per mettere a tacere qualcuno.
In secondo luogo il fatto che la democrazia rappresentativa è per sua essenza conflittuale. Essa è attraversata da almeno due livelli di conflitto, uno orizzontale e uno verticale. Quello orizzontale è il conflitto interno alla rappresentanza, che dovrebbe riprodurre i conflitti presenti nella società. Contrariamente all’immagine mitica che riemerge di tanto in tanto dei “partiti della nazione”, io credo che questa conflittualità sia una condizione necessaria della democrazia (anche perché se essa non ci fosse, se tutti la pensassimo allo stesso modo, non vi sarebbe propriamente bisogno di democrazia). Nel libro provo a spiegare che ogni parte politica deve rappresentare “un’idea particolare della società in generale” e che dunque il superamento dei partiti o della distinzione destra sinistra è solo un dispositivo ideologico antidemocratico, perché è propugnato da chi, pur avendo “un’idea particolare della società in generale”, vuole convincersi che la sua è “un’idea generale della società in generale”.
Il livello di conflitto verticale è invece quello che investe il rapporto tra i governanti e i governati. Questa non identità tra governati e governanti non è affatto una iattura, come tenacemente cercano di convincerci. Da un lato esso è infatti un meccanismo che, oltre a permettere il funzionamento di democrazie dei grandi numeri, contribuisce a cercare di costruire rapporti politici fondati sulla fiducia nell’altro (mentre uno dei grandi problemi della democrazia della diffidenza è che chiunque oggi sembra indisponibile a credere che qualcun altro possa rappresentarlo politicamente, ma al contempo è convinto che egli stesso può essere l’unico a rappresentare non solo se stesso ma anche gli altri). Dall’altro lato esso indica anche un compito o una tendenza storica della democrazia che, come tale, può essere perseguita o ostacolata. Dal mio punto di vista questa è una differenza fondamentale tra destra e sinistra. Nel primo caso l’elitismo non è solo una teoria del funzionamento delle democrazie, ma un obiettivo politico che definirei così: lasciare sempre un solco e un’eterogeneità tra i governanti e i governati (dal momento che i governanti sono sempre espressione delle classi dominanti). Nel secondo caso invece – e proprio per lo stesso motivo – il compito è quello indicato da Gramsci: diminuire il più possibile la distanza tra governanti e governati.
Cosa è necessario per ritrovare il senso della democrazia?
Credo soprattutto due cose. La prima è la sensazione che il potere sia sempre in qualche modo contendibile. La democrazia è un universale secolarizzato. È uno spazio vuoto, come scriveva Lafort. Ha posto al centro del suo tempio un vuoto che può essere sempre occupato da tutti. Chi riesca a occuparlo non è l’unica cosa che conta. Conta anche come si riesce a occuparlo e in che modo si esercita il potere che si occupa. Questa teoria dello spazio vuoto è ovviamente formale, non mette al riparo la democrazia dalle sue perversioni, anzi, per certi versi, le pone al centro del meccanismo democratico. Ci costringe così a un surplus di attenzione e di cura. Si capisce infatti perché ogni fascismo possa essere legittimato democraticamente: perché un potere che si ritiene assoluto e sciolto dalle leggi può sempre conquistare quello spazio vuoto che sta al centro. Ma noi non possiamo evitare questo rischio non rendendo più contendibile il potere, piuttosto il contrario. Cioè possiamo solo aver cura che esso sia sempre contendibile e che tutti lo percepiscano. La democrazia è l’unico movimento di autorappresentazione politica che abbiamo inventato. Quando quest’autorappresentazione s’interrompe o appare distorta o disperata, allora la democrazia diventa un regime opprimente per la maggior parte delle persone.
La seconda è invece la necessità di ripensare a fondo i meccanismi che hanno per decenni permesso alla democrazia di essere un regime capace di garantire benessere. Nessuno oggi ha più la sensazione che le procedure democratiche servano a soddisfare i bisogni e a garantire un miglioramento delle condizioni materiali di vita. La sensazione è contraria. Così, se la percezione diffusa è quella secondo cui vi è lo Stato contro la società, è inevitabile che la società si organizzi contro lo Stato (attraverso ciò che definiamo impropriamente e grossolanamente populismo).
Come è possibile ricostituire il legame spezzato tra governanti e governati?
Come ho già detto prima, non tutti lo vogliono o lo devono fare. Per me il punto è che questa ricostruzione non può avvenire nei termini del populismo contemporaneo. Esso rovescia i termini, per così dire: non ascolta i bisogni popolari ma li definisce attraverso un meccanismo serrato di costruzione del consenso. Non si preoccupa di costruire consenso ma di vincere le elezioni (che non è decisamente la stessa cosa, come dimostra il fatto che i protagonisti delle grandi vittorie elettorali degli ultimi anni sono stati ridimensionati immediatamente. Anche in politica una rondine non fa primavera). Intende la conquista dell’egemonia non in senso culturale ma solo in senso quantitativo. Gramsci ammoniva che una classe dirigente è anche, necessariamente, una classe dominante. Ma che il grande pericolo è quando una classe dominante non è più una classe dirigente. Ecco, a me sembra proprio questo il punto.
In che modo la democrazia potrà ancora salvarsi e salvarci?
Per esempio non salvandoci. Uscendo dal lessico teologico politico della salvezza, il cui uso ci porta a pensare a ogni elezione come un evento eccezionalmente decisivo e a ogni leader come un’epifania messianica. La democrazia non può salvarci, non lo ha mai fatto e tutto sommato è l’unico regime che non ci promette di farlo. Però può farci vivere insieme da uomini adulti, che agiscono per modificare lo stato delle cose presenti, senza attendere una salvezza inaudita che venga da altri.
Sergio Labate è professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo Passioni e Politica (con Paul Ginsborg, Einaudi 2016) e La virtù democratica. Un rimedio al populismo (Salerno editrice, 2019).