“La vigilanza bancaria. Storia, teorie, prospettive” di Lorenzo Esposito e Giuseppe Mastromatteo

Le opinioni espresse dall’autore sono personali e non impegnano l’istituto d’appartenenza.

Prof. Lorenzo Esposito, Lei è autore con Giuseppe Mastromatteo del libro La vigilanza bancaria. Storia, teorie, prospettive edito da Carocci: qual è il senso della vigilanza bancaria nell’epoca della finanziarizzazione?

La vigilanza bancaria. Storia, teorie, prospettive, Lorenzo Esposito, Giuseppe MastromatteoIl peso del sistema finanziario e delle banche nel panorama economico mondiale non è mai stato così pervasivo e dirompente. Non c’è dunque mai stata un’epoca in cui la vigilanza bancaria, e l’operato delle autorità monetarie e di vigilanza, abbiano avuto un così grande rilievo anche presso l’opinione pubblica. Dallo spettacolare crollo delle grandi banche alla più piccola controversia tra un cliente e la sua banca, la vigilanza è oggi chiamata in causa a 360 gradi. Questa importanza crescente non è un caso, ma nasce appunto dalla finanziarizzazione, un processo che ha delle radici profonde nella dinamica dell’accumulazione capitalistica. Il sostegno della finanza agli investimenti e dunque alla crescita è oggi molto più importante che in passato. Enormi sono le conseguenze della finanziarizzazione, in termini sociali (ad esempio con l’aumento delle disuguaglianze nel reddito e nella ricchezza) e politici (con una relazione di sostanziale subordinazione dei governi al mondo finanziario). Nella nostra epoca, vigilare le banche, soprattutto quelle più grandi (“sistemiche”) non è dunque solo importante per assicurare che si comportino correttamente con i propri clienti o che aiutino le imprese con il credito, è decisivo per cercare di mantenere la salute finanziaria globale e, per certi versi, la stessa funzionalità democratica dell’economia moderna.

Quali sono i rischi connessi all’attività bancaria e finanziaria?
La letteratura economica ha da lungo tempo esposto le peculiarità dell’attività bancaria, caratterizzata da uno strutturale mismatch tra passività a vista (i depositi) e un attivo congelato nei crediti a imprese e famiglie. Questa è la ragion d’essere delle banche, la prima fonte dei loro profitti ma anche dei loro rischi. Le banche camminano sempre su un sentiero sottile, in cui devono bilanciare la necessità di impiegare più fondi possibili per ricavarne più interessi, senza ridurre troppo le riserve liquide e cercando di risparmiare sul capitale che è costoso. Le fonti dei rischi delle banche sono dunque classicamente dati da questa combinazione concernente tanto il loro attivo che il passivo. A queste si aggiungono i rischi inerenti all’organizzazione stessa della banca (“rischi operativi”), che nella nostra epoca attengono sempre più strettamente alla tecnologia (basti pensare al rischio “cyber”). È inoltre importante sottolineare che i rischi micro (come quelli tradizionali di credito, di mercato, di tasso d’interesse) hanno sempre legami e risvolti macro. Non solo perché l’andamento economico generale ne influenza strettamente l’andamento, ma perché la dimensione del tema della liquidità è sempre complessivo e sistemico. L’esistenza delle banche è strutturalmente connessa alla liquidità e ai corrispondenti rischi, che erano stati fortemente sottovalutati, con conseguenze catastrofiche, sia dalla teoria economica che dalle autorità, prima della grande crisi finanziaria del 2007-2008, un vero e proprio spartiacque storico.

Quali obiettivi persegue la vigilanza bancaria?
Gli obiettivi della vigilanza sono determinati da quelle che volta per volta sono considerate, dall’accademia e dalle autorità, come le principali minacce per il sistema finanziario. Per alcuni decenni, prima della crisi del 2008, era tornata in auge una posizione incline al laissez faire, dove, meno la vigilanza si intrometteva nell’operato delle banche, meglio era. Gli obiettivi erano dunque solo di garantire che ogni operatore si comportasse in modo corretto verso il mercato e verso i clienti. Contava, insomma, solo l’efficienza-concorrenza perché la stabilità era considerata una caratteristica innata del sistema e alla market discipline era lasciato l’onere di spingere le banche a comportarsi bene. Dopo il 2008, questa posizione ha mostrato tutta la propria inconsistenza, e si è tornati a porre la stabilità al centro degli obiettivi e dell’operato della vigilanza. Questo dovrebbe anche spingere a una riflessione, che noi tentiamo nel libro, sulle carenze teoriche dell’approccio mainstream alla finanza, alle banche e alla moneta. Occorre ripartire da quegli autori, penso a Hilferding, a Kalecki, a Schumpeter, a Minsky, alla teoria del circuito finanziario, ad alcune correnti post-keynesiane, che pongono l’instabilità al centro della dinamica di sviluppo delle economie di mercato. La vigilanza si pone dunque l’obiettivo sisifeo di arginare l’instabilità, avendo la consapevolezza che è proprio nei momenti di boom e di euforia che si preparano le crisi finanziarie più gravi.

Di quali strumenti dispone l’attività di vigilanza bancaria?
Gli strumenti della vigilanza sono una cassetta degli attrezzi ampia e multiforme ed è difficile darne un quadro in poche parole. Nel testo dividiamo questo strumenti in tre “mondi”. La vigilanza strutturale, che regola l’ingresso, i caratteri di fondo e l’uscita dal mercato dei soggetti, e ha la sua incarnazione più famosa nel Glass Steagall Act statunitense. Anch’essa è tra i ritorni dovuti alla crisi del 2008. La vigilanza prudenziale, invece, era la chiave di volta della regolamentazione bancaria basata sulle forze di mercato, ma mantiene una grande rilevanza anche oggi. Si impernia sul rapporto tra capitale della banca e i rischi di credito e di mercato insiti nel suo attivo. Ha assunto nel tempo caratteristiche tecniche di complessità crescente, il che è un’arma a doppio taglio, poiché nelle pieghe della complessità si nascondono anche modalità di aggiramento delle norme da parte degli intermediari (il famoso “arbitraggio normativo”). Infine, la vigilanza di tutela ha assunto importanza crescente negli ultimi decenni per diverse ragioni, tra cui la maggior presenza di titoli ad alto rischio nei portafogli dei risparmiatori (direttamente o via fondi pensione); questa maggiore presenza si lega al calo dei rendimenti degli asset finanziari, a sua volta connessa alla finanziarizzazione, che, aumentando la leva finanziaria, costringe le banche centrali a ridurre i tassi per arginare le crisi finanziarie, a dimostrazione che, nel mondo iperglobalizzato della finanza, tutto si tiene. Questi tre mondi richiedono competenze ed esperienze molto diverse alle autorità, che devono oggi entrare in territori prima per loro lontani, dagli algoritmi di machine learning, a come impostare un’efficace comunicazione online a come limitare gli effetti dei bias cognitivi dei risparmiatori.

Quali sono i punti di forza, di debolezza e il legame con i modelli di business prevalenti?
Nel modello bancario tradizionale, l’azienda di credito originava il credito e lo teneva sino a scadenza, investiva dunque nella conoscenza del proprio cliente, famiglia o impresa che fosse, corteggiandoli anche perché depositassero presso di lei o ne usassero i prodotti del risparmio gestito. Nel nuovo mondo, noto ormai anche ai profani dopo l’esplosione della bolla dei mutui sub-prime, le banche creano credito e se ne disfano cartolarizzandolo, ossia trasformandolo in titoli da vendere ad altri soggetti. Quanto ai depositi, anziché quelli del singolo risparmiatore, si ricavano da altre banche attraverso il mercato interbancario. Alla banca non interessa nulla del cliente a cui ha fatto credito perché lo avrà ceduto poco dopo, le interessa solo originare sempre nuovo credito. Il modello sembrava vincente, profittevole, efficiente, prima di precipitare il mondo nel caos. Questo dimostra la necessità che le banche centrali e le autorità di vigilanza analizzino con molta cura le caratteristiche dei diversi modelli di business delle banche, non perdendo mai di vista che, nel mondo della finanza, un maggior profitto è raramente dovuto a una maggiore efficienza, mentre è sempre spia di una maggiore rischiosità. Una banca che fa troppi profitti è una bomba a orologeria.

Come si è sviluppata storicamente l’attività di vigilanza bancaria?
Lo sviluppo è sempre stato dettato da ragioni pragmatiche, connesse all’instabilità del sistema finanziario ed economico. In Gran Bretagna, già nell’Ottocento, le ricorrenti crisi economiche, spesso associate a crisi bancarie e a bank run, spinse all’esigenza di creare un centro di controllo, portando allo sviluppo della banca centrale moderna, la Bank of England, nata in realtà con altri scopi, e poi presa più o meno a modello negli altri paesi. La stabilità finanziaria si è declinata all’inizio soprattutto negli interventi di prestito di ultima istanza di fronte al crollo del sistema bancario e si è poi sviluppato nelle attività di politica monetaria, di vigilanza, di organizzazione del sistema dei pagamenti che vediamo oggi. La strutturazione istituzionale della vigilanza ha attraversato varie fasi, connesse a questi sviluppi. Solo negli anni ’70 sono cominciate serie riflessioni sulla necessità di un coordinamento internazionale dell’attività di regolamentazione bancaria, anche a seguito delle note vicende del Banco Ambrosiano. Negli anni precedenti alla crisi del 2008, la vulgata de-regolamentatoria aveva fatto prevalere l’idea di separare l’attività di vigilanza dalle banche centrali (il modello twin peaks), unendo però al contempo la vigilanza su tutti i tipi di intermediari sotto lo stesso tetto. Il modello non ha retto alla crisi per le evidenti necessità di stabilizzazione delle banche, che possono essere svolte solo dalle banche centrali. Le vicende della crisi del 2008, e dei debiti sovrani europei del 2011-2012, ha condotto, nell’Unione Europea, al progetto dell’Unione Bancaria, che ha determinato l’affidamento della vigilanza alla BCE, in coordinamento con le autorità nazionali e con le autorità di vigilanza europea come l’EBA. In definitiva, la vigilanza risponde sempre ex post alle sollecitazioni e alle crisi del mercato. Oggi questo vale anche per tutto il tema della lotta al cambiamento climatico e della finanza sostenibile.

Come può la vigilanza bancaria contribuire alla stabilità finanziaria?
Il primo punto, prodromico a ogni azione, è che le autorità di vigilanza, le banche centrali, gli economisti che danno loro consigli più o meno sensati, riconoscano che l’instabilità finanziaria non è un incomprensibile e imprevedibile shock esogeno ma il modo di essere del capitalismo finanziarizzato. C’è sempre bisogno di intervenire per mantenere la stabilità finanziaria, sia durante le crisi che durante i periodi di ascesa e di boom finanziario. Fare propria questa consapevolezza, e farne una battaglia culturale e scientifica contro le illusioni del laissez faire, è l’unico modo per porre l’azione della vigilanza su basi solide. Da questa battaglia discendono gli obiettivi e gli strumenti necessari a stabilizzare, almeno relativamente, la situazione. È infatti opportuno ricordare che l’instabilità nasce da un quadro complessivo in cui il comportamento aggressivo delle banche è solo una parte. Ad esempio, in un mondo in cui il reddito e la ricchezza sono sempre più concentrati, dove il debito è ciò che permette alle famiglie di pagare parte crescente dei propri consumi e alle imprese i propri investimenti, anche la migliore azione di vigilanza potrà solo rimandare crisi sempre più pesanti. La lezione principale che ho appreso nella mia vita professionale è che la vigilanza, prima ancora che un insieme di conoscenze e competenze tecniche e professionali, è un modo di porsi critico, un atteggiamento di dubbio metodologico che interroga il reale senza preconcetti e con curiosità intellettuale, senza il quale il regulator è catturato innanzitutto da se stesso.

Quali sfide pone all’attività di vigilanza bancaria il fintech?
L’innovazione tecnica e le nuove tecnologie hanno sempre accompagnato lo sviluppo del business bancario, dai telegrafi, passando per il phone banking, l’internet banking, l’high frequency trading e così via. L’accelerazione impressa dal fintech al mondo finanziario è però specifica e per certi versi inedita. Per la prima volta le banche sono sfidate sul loro terreno da aziende ancor più grandi e potenti di loro, le big tech, in possesso di tecnologie, informazioni sulla clientela (i famosi big data), risorse ancora maggiori e che costringeranno dunque anche i colossi finanziari a rincorrere gli sviluppi tecnologici per evitare di essere emarginati. Il fintech, attraverso la digitalizzazione, innanzitutto spinge all’automazione dei processi, una tendenza che esiste sempre nel settore bancario come in altri settori economici, con tutti i cambiamenti che ne conseguiranno, ad esempio in termini di nuove forme di relazione con la clientela, mano a mano che verrà meno la rete degli sportelli. Soprattutto il fintech ha la potenzialità di disarticolare il processo produttivo bancario, rendendo obsolete la stessa concezione di attività bancaria e di banca. Già ora, se pensiamo alle piattaforme di lending crowdfunding, ai marketplace dove gli operatori si scambiano fatture da anticipare, al mondo del sistema dei pagamenti dopo la direttiva PSD2, il vecchio prodotto/servizio è stato segmentato e può venire offerto da soggetti diversi, alcuni dei quali nemmeno di natura finanziaria. In futuro, questi elementi si accentueranno, e costringeranno la vigilanza a innovarsi profondamente anche nei metodi e negli strumenti (quello che già oggi è definito suptech), per continuare a poter presiedere allo sviluppo del settore finanziario. Vi è poi il tema delle criptovalute, questa sorta di ideale anarco-capitalista di moneta libera da ogni controllo pubblico, che, nei fatti, non hanno nessuna reale funzione monetaria e si presentano come l’ennesima bolla finanziaria; è invece probabile che, in un futuro prossimo, le banche centrali emetteranno proprie valute digitali. Questo sviluppo, a sua volta, avrà risvolti epocali per il modello di business delle banche, che dovranno adattarsi a un mondo in cui i depositi sono detenuti dalla banca centrale. Si tratta, in definitiva, di sfide importanti, ed è vitale che le autorità, i governi, le banche centrali, guardino a questi sviluppi con attenzione e curiosità ma senza farsi abbagliare dalle luci delle novità.

Lorenzo Esposito, laureato nel 1995 all’Università Bocconi con il Prof. Lunghini, Dottore di ricerca nel 2000, presso l’Università Sapienza di Roma con il Prof. Rodano, lavora da oltre vent’anni nell’ambito della vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, dove ha maturato un’ampia esperienza su intermediari piccoli, medi e grandi, italiani ed esteri, su tematiche di credito come di finanza, ispettiva e off-site; da diversi anni è professore a contratto di Economia Monetaria presso l’Università Cattolica di Milano. Ha scritto numerosi saggi su vigilanza, stabilità finanziaria, behavioral economics, finanza sostenibile e fintech.

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