“La verità degli altri. La scoperta del pluralismo in dieci storie” di Giancarlo Bosetti

Dott. Giancarlo Bosetti, Lei è autore del libro La verità degli altri. La scoperta del pluralismo in dieci storie edito da Bollati Boringhieri. Nel libro Lei ha raccolto dieci storie e dieci «pluralisti» attraverso 2500 anni durante i quali l’idea pluralista non ha mai cessato di farsi sentire, contro ogni dogmatismo e fondamentalismo: qual è il valore del pluralismo?
La verità degli altri. La scoperta del pluralismo in dieci storie, Giancarlo BosettiNel mio libro contano soprattutto le «storie», storie di come vengono le idee, di come lampeggiano in certi momenti speciali, fatali, magici. Che si tratti di Lessing e della favola dei tre anelli, o di Isaiah Berlin che scopre la incredibile novità di Machiavelli, di Las Casas stretto tra la sua famiglia, la lealtà di spagnolo e l’urgenza di denunciare il genocidio o di tutti gli altri che troverete nel libro, c’è sempre una via stretta che porta all’illuminazione dove conta di più a volte il genio, a volte il coraggio. E il pluralismo culturale, quello di cui cerco con questo libro di raccontare alcuni momenti «stellari», così brillanti da lasciarci stupiti per la loro forza e fascino, è il terreno da cui germoglia la tolleranza, nel senso più ampio e accogliente della parola, cioè la capacità di vivere insieme pacificamente nella diversità. Il suo valore è immenso perché genera gli anticorpi contro il fondamentalismo, la violenza, lo scontro tra assoluti, tribali, ideologici, religiosi, tutto quello che genera fiumi di sangue e tanta crudeltà. L’essenza di questo genere di pluralismo è la capacità di vedere sé stessi come fallibili, come titolari di una conoscenza sempre parziale, di un punto di vista «municipale» (diceva Montaigne), limitato dall’ignoranza, da tutto quel che non sappiamo, che sempre fa da complemento a quel che sappiamo. Siamo un municipio, sì, non il centro dell’universo, come siamo tutti tentati di pensare, a cominciare dalla culla in cui ci hanno deposto appena nati, nel nido in cui siamo cresciuti.

Che cosa di più chiaro della battuta di Montaigne quando di fronte a un processo per stregoneria se ne uscì così: avete in ben alta considerazione le vostre congetture per osare di mettere al rogo, sulla base di queste, degli esseri umani. «Congetture», ecco il nostro sapere. È una parola chiave, che fa la sua grande apparizione nella storia delle idee con Nicola Cusano, uno che di fronte alle dispute sulla Trinità, che peraltro maneggiava meglio di chiunque, dispute che hanno prodotto uno scisma millenario, rifletteva arrivando alla conclusione che nessuno di noi ha una conoscenza perfetta di Dio o di nessuna altra cosa. Solo conjecturae ci sono date. Possiamo pensare l’essere solo in alteritate conjecturali. La parola ritorna cinque secoli dopo in Congetture e confutazioni di Karl Popper. Conosciamo per tentativi ed errori, la scienza avanza per tentativi ed errori (e anche la politica sana e democratica lo fa). E capire la nostra fallibilità e imperfezione è la porta che apre la via della tolleranza. «Perdoniamoci perciò, perché fallibili, l’un l’altro le nostre follie. E consideriamo questo il primo principio del diritto naturale» (parole di Voltaire). Il valore del pluralismo culturale è dunque fondamentale, perché ci mette in relazione, ci costringe alla relazione, ci relativizza, ci regala un terzo occhio per guardarci ambientati in un contesto dove non siamo mai gli unici a rivendicare la propria verità. Di questi pensieri è costellata la via che ha prodotto le istituzioni della libertà, della non discriminazione, del rispetto della dignità umana, dei diritti di tutti, insomma i prodotti migliori della civiltà.

Come ha scelto la serie di personaggi interpreti di un percorso alternativo nelle vicende umane, lontano dalla retorica e incardinato nel dialogo e nell’accettazione della diversità umana?
Ho scelto a misura della mia conoscenza (dunque della mia ignoranza, direbbe il solito Montaigne). I personaggi sono quelli che ho incontrato e che mi hanno colpito di più. Altri potrebbero fare liste forse anche migliori. Isaiah Berlin aveva già lasciato traccia di una sua lista che comprende oltre a Montaigne, Vico, Machiavelli, Herder, Montesquieu, Alexander Herzen. Io comincio da Ashoka, l’imperatore della dinastia Mauriya che dominò tutta l’Asia del Sud nel terzo secolo avanti Cristo. I suoi editti sulle rocce di tutto il subcontinente sono una fantastica lezione di pluralismo culturale. Lui si convertì al buddhismo dopo la stagione delle guerre con cui aveva unificato l’impero, e spiegò con la prosa distesa e riflessiva che noi metteremmo sulle pagine di carta o su un computer, che chi sostiene una fede non la deve difendere con eccessiva energia, così anche nel caso delle proprie convinzioni su questioni generali, perché troppa energia nel sostenere la propria verità abbassa la qualità della discussione e mette in cattiva luce quella stessa fede che si vuole difendere. Dunque: moderazione! E nelle discussioni fate attenzione agli argomenti degli altri perché ci può sempre essere qualche cosa da imparare. Dobbiamo queste scoperte straordinarie agli archeologi dell’Ottocento. E ancora non è finita: altre rocce e altre colonne potrebbero saltar fuori ad arricchire il generoso tesoro di Ashoka. E siamo grati a una storica indiana come Romila Thapar che ha saputo raccontarci la vita e il carattere di quest’uomo e ad Amartya Sen per averne parlato e aver fatto circolare la sua conoscenza insieme a quella di un altro erede della tradizione indiana del pluralismo: l’imperatore Mogul Akbar del XV secolo, che si trovò già il problema di far convivere Islam e Induismo, come poi Gandhi, un altro astro del pluralismo culturale. Un tema per il quale Gandhi dette la vita, ucciso da un fondamentalista che pensava l’India come un paese per soli induisti. Il testamento di Nathuram Godse, l’assassino, è il documento più chiaro di quel che sia il contrario del pluralismo: per lui l’India era pensabile solo come nazione monocolore. Semplice. È più chiaro così quel che significa il pluralismo culturale? Pensiamo dunque a tutta la moderna cultura della cittadinanza, che prescinde dalle appartenenze religiose e dal colore della pelle. Eppure c’è ancora fa fatica in Europa e digerire che siano atleti neri a cantare l’inno nazionale italiano o francese?

In che modo la dottrina dell’apocatàstasi propugnata da Origene testimonia il valore del pluralismo?
Origene vive nel terzo secolo dopo Cristo sotto l’impero dei Severi. Suo padre fu perseguitato e decapitato in quanto cristiano, ma ciononostante lui vive un periodo di relativa calma e pluralismo religioso. Ad Alessandria ci sono molti ebrei, molti pagani, molti cristiani e molti adepti dei culti orientali che attraggono anche l’imperatore Eliogabalo. È una fase della storia romana pluralista. Ad Alessandria fiorisce anche la scuola neoplatonica da cui partirà l’insegnamento di Plotino. In quella fase. Oltre un secolo e mezzo dopo ci sarà un pogrom cristiano antipagano, nel quale morirà Ipazia. Ma in quel momento Origene concepisce la salvezza di tutti nella restituzione universale all’unità di un’armonia dell’essere, che unica gli appare incompatibile con una plausibile idea di Dio. L’eternità delle pene dell’inferno lascia pensare come ha scritto qualcuno in tempi recenti a un Dio che se ne sta comodamente seduto accanto a, e in contemplazione di, una specie di Auschwitz eterna. Il formidabile elemento pluralista dell’apocatàstasi consiste nel fatto che accantona l’idea che non ci sia salvezza fuori della sua chiesa, della chiesa di Origene. Con quella idea Origene propone evidentemente di rinunciare al deterrente della esclusione dalla salvezza come mezzo di pressione per conquistare adepti. Ma c’è di più, il predicatore alessandrino propone anche lui le sue idee in forma tentativa. «Posso sbagliare» dice più volte, cerco la verità ma non ne faccio subito dogma. Quanto ai testi sacri mette in guardia: badate che ce li manda Dio ma sono scritti nel linguaggio umano, un «fragile involucro» esposto alla nostra umana dimensione. E poi – altra considerazione pluralista di grande valore: la gente cresce nella fede che trova nel luogo dove gli capita di nascere. Non si tratta solo di princìpi con l’accento sulla seconda «i», ma anche di principi, con l’accento sulla prima, e di principati. Dunque come si potrebbe punire, e in eterno, qualcuno per il fatto di essere nato in un posto sbagliato, dove non vale il verbo di Cristo, ma quello di Mosè, o quello degli antenati romani? C’è in questo un germe di antropologia culturale, il relativismo culturale che ne costituisce il metodo, nonché il riconoscimento di un principio di giustizia.

Qual è l’importanza storica e umana della battaglia di Bartolomé de Las Casas in favore degli indios del Nuovo Mondo?
La battaglia di Bartolomé per il riconoscimento della umanità degli indios e la sua denuncia del genocidio e delle crudeltà della Conquista è di eccezionale importanza per il suo intrinseco valore e fu di eccezionale difficoltà, anche se oggi ci appare scontato includere nella idea di umanità creature che allora apparivano alla maggioranza alieni, homunculi, devoti a riti crudeli, cruenti, cannibaleschi. Il vescovo del Chiapas dovette rompere con la sua vita precedente di encomendero, colono, e di figlio di encomendero. Apparteneva dunque a una famiglia che si era arricchita utilizzando gli indios come schiavi a partire dal secondo viaggio di Cristoforo Colombo. Il suo destino dunque era tracciato. Las Casas era un pezzo grosso della Conquista. La rottura e la conversione furono difficili e tormentate. Io ho insistito nel libro nel raccontare le crudeltà dei riti degli Aztechi proprio perché la difesa che ne prese Bartolomé risulti in tutta la sua forza, quella di una battaglia, a dir poco, controcorrente. Il nostro protagonista del duello di una settimana oratoria a Valladolid davanti alla Junta riunita dall’imperatore Carlo V era circondato da un odio incontenibile. Dopo cinquant’anni di occupazione delle colonie, di schiavizzazione degli Indios, di accumulo di ricchezze, gli encomenderos rivendicavano diritti ereditari, sulle terre e sugli schiavi e l’azione di Las Casas toccava al cuore interessi ormai considerati indiscutibili. L’imperatore era sommerso di proteste contro questo predicatore considerato pazzo, arrogante, traditore, ambizioso e sfrenato nell’accusare quelli che dovevano essere invece i suoi compagni di cordata nel dividersi i benefici della Conquista. Quando ai giorni nostri sento ripetere che le cause umanitarie appassionano di più l’élite che le masse, e si fa scandalo perché la xenofobia è più forte nelle campagne che nelle città, in periferia più che in centro, viene un po’ da sorridere. Bartolomé aveva contro tutti, anche gran parte del clero, compresi i francescani che facevano conversioni e battesimi in massa (pratica che lui riuscì a impedire). Aveva dalla sua una piccola minoranza. E l’imperatore, che riuscì a impedire la pubblicazione del testo del grande avversario del nostro nel duello di Valladolid. In certo senso si può dire che «l’umanità deli indios» fu imposta dall’alto. La causa più popolare era quella che vedeva in loro solo degli orribili cannibali.

Quali, tra quelle da Lei raccontate, ritiene le storie più significative di come il pluralismo possa rendere migliore il mondo?
Tutte le storie che racconto sono storie di idee che hanno avuto conseguenze, che sono diventate poi legge, diritto. Ho citato prima Voltaire, la nostra fallibilità… da lì nascono le istituzioni della tolleranza, della convivenza tra diversi. Più indietro, Montaigne scrive gli Essays dal suo castello mentre intorno avvengono massacri tra cattolici e protestanti, durante il massacro della notte di San Bartolomeo a Parigi. Le sue idee preparano uno sguardo diverso sulle differenze culturale. Horace Kallen e i pragmatisti americani, sono quelli delle idee che preparano la migliore cultura della cittadinanza americana, plurale e col trattino. Margaret Mead e i suoi studi su Samoa, preparano il terreno alla liberazione sessuale, al 68, alla moderna legislazione sulla famiglia. Cambiamenti che hanno nemici. I pluralisti hanno sempre nemici, forti, aggressivi, spesso maggioritari. Ma nei tempi lunghi possiamo con prudenza constatare che il cammino della civiltà, tra tante sofferenze, va nella direzione cui loro hanno aperto la strada.

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