La «vergine cuccia»: riassunto e parafrasi

La «vergine cuccia» rappresenta il passo forse più famoso di tutto il poemetto del Parini. Il «giovin signore» è a un pranzo mondano, e il precettore descrive i commensali: si passa dal carnivoro, che divora ogni piatto che gli viene servito, allo schizzinoso vegetariano, che depreca l’uccisione degli animali per imbandire le tavole, la Dama si ricorda di un episodio di inaudita crudeltà alla quale fu sottoposta la sua cagnolina (cuccia, cioè “cucciola”), ovviamente incontaminata dai contatti con cani maschi. Il breve passo è meritatamente noto, perché attraverso questo episodio il Parini riesce a colpire con felicità d’espressione e d’immagine la perversa sensibilità che porta a stravolgere completamente i valori, come nel provare pietà per un animale e non provarne per un essere umano.

Parafrasi (vv. 517-556 del Mezzogiorno)

Ora si ricorda (le sovvien) il giorno, ahimè crudele giorno (fero giorno), quando la sua cagnolina, allevata (alunna) dalle Grazie (e dunque elegante e graziosa), scherzando (vezzeggiando) come fanno i cuccioli (giovanilmente), marchiò (segnò) con lieve segno (di lieve nota) con i suoi denti d’avorio (eburnei) il vile (villan) piede del servo e costui sfrontato (audace) la scaraventò lontano (lanciolla) con il malvagio (sacrilego) piede (piè); la cagnetta rotolò tre volte; per tre volte scosse il pelo scompigliato, e soffiò la polvere irritante (rodente, che prude) dalle belle narici (vaghe nari), cioè starnutì: quindi (indi) innalzando (alzando) i propri lamenti (gemiti) sembrava (parea) dicesse: «Aiuto! Aiuto!» (aita aita) e dalle dorate volte della stanza le rispose l’eco, mossa a pietà dal suo lamento; tutti i servi salirono accorati (mesti) dalle loro stanze al pianterreno (infime chiostre), mentre dalle stanze situate ai piani superiori (somme) si precipitarono (precipitàro) le ancelle pallide e tremanti. Accorsero tutti: il volto della tua dama fu spruzzato di essenze balsamiche (essenze) ed ella infine riprese i sensi. La collera e il dolore la agitavano ancora: scagliò contro il servo sguardi che inceneriscono (fulminei), e con voce dolce (languida) chiamò tre volte la sua cagnetta; e questa le corse al petto (sen), e il suo atteggiamento (in suo tenor) sembrò chiederle (chieder sembrolle) vendetta; e ottenesti la tua vendetta, o cagnetta graziosissima.

L’empio servo tremò per la paura, e ascoltò la sua condanna con gli occhi rivolti a terra. A lui non servì il merito di aver servito in modo impeccabile per vent’anni (merito quadrilustre), né l’aver svolto con zelo le missioni segrete, amorose (zelo d’arcani ufici). Lui (Ei) se ne andò (andonne) spogliato di quella livrea (assise) grazie alla quale (onde) era stato fin lì (pur dianzi) tenuto in gran considerazione (insigne) dal popolino (plebe), e invano sperò (di trovare) un nuovo padrone (novello signor), perché (ché) le nobili e compassionevoli signore (pietose dame) erano rimaste inorridite (inorridìro) da quel gesto e presero in odio (odiàr, e quindi si guardarono bene dall’assumere) l’autore di quel misfatto atroce. Il perfido servo si sdraiò (si giacque) sul bordo di una strada (a lato su la via), con la misera (squallida) prole e con accanto la moglie priva di ogni cosa (nuda), cercando di impietosire i passanti (passeggero) con i lamenti, ma invano; e tu, cagnetta, andasti fiera (isti superba) come una divinità placata dalle vittime umane (idol placato da le vittime umane).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link