“La tv invadente. Il reality del dolore da Vermicino ad Avetrana” di Anna Bisogno

Prof.ssa Anna Bisogno, Lei è autrice del libro La tv invadente. Il reality del dolore da Vermicino ad Avetrana pubblicato da Carocci: dove passa il confine tra informazione e spettacolo?
La tv invadente. Il reality del dolore da Vermicino ad Avetrana Anna BisognoL’informazione ha cambiato modalità di approccio alla notizia, dilata l’oggetto esplorato, abusa del diritto di cronaca, cerca nuovi ambiti di appeal. Esiste un limite sottile che separa informazione e intrattenimento ma troppo spesso viene varcato, alimentando una TV che sembra onnipotente nel vuoto che c’è. Una TV che è vita meglio della vita e in cui il Gabibbo ha preso il posto del poliziotto, «Forum» del pretore e «Chi l’ha visto?» del detective Marlowe. l’argine è stato scavallato, la linea superata quando i generi hanno iniziato a contaminarsi. L’infotainment deriva da questo processo di rottura e dall’infotainment derivano le storie del dolorismo e del dolorrore nelle quali l’informazione ha la sua parte di (ir)responsabilità esattamente come l’intrattenimento. In una televisione che cambia, che si adatta sempre più alla sua anima spettacolare, l’informazione rappresenta una cartina al tornasole per evidenziare il grado di compromissione dei generi e di penetrazione delle formule dell’intrattenimento nei programmi. Ad esempio, parlando di terrorismo, certamente la tv informa, ma nello stesso tempo teatralizza straordinariamente il fatto in sè, tanto da ridurre fino ad annullarla, la capacità di giudizio autonomo dello spettatore. L’infotainment ha, infine, innescato anche il curioso meccanismo di personalizzazione del mestiere telegiornalistico: la figura del semplice messaggero di notizie acquista i tratti divistici dell’anchorman. L’informazione giunge a milioni di telespettatori attraverso la personalità, il modo di ragionare e l’immagine di coloro che la presentano

La tragica morte di Alfredino Rampi segnò l’avvio in Italia della tv del dolore.
La cosiddetta TV del dolore venne sdoganata in Italia trent’anni fa. Anzi, in quell’occasione, il Paese fece scuola. Il 13 giugno del 1981 alle 7 del mattino, milioni di telespettatori italiani assisterono impotenti alla morte di Alfredino Rampi. Era la tragedia di Vermicino, appunto. La Rai trasmise in diretta e a reti unificate per ben 18 ore la lenta agonia del povero bambino, precipitato alle 19 di due giorni prima in un pozzo artesiano di soli 30 cm di diametro, ma profondo ben 30 metri, lasciato sconsideratamente aperto alle porte di Roma.
È una grande tragedia, come purtroppo tante altre simili che capitano in ogni angolo del pianeta. Questo dramma però ha qualcosa di speciale.
Diventa un evento mediatico, un racconto per immagini del vano tentativo di salvare una vita umana, che indirizza l’eterno flusso televisivo sulla strada del dolore in veste di intrattenimento.
Sul luogo della tragedia accorrono con il presidente Sandro Pertini, centinaia di persone che fanno una ressa inutile, nani e volontari dal fisico minuscolo che cercano di calarsi nel pozzo per afferrare le mani di Alfredino, purtroppo senza esiti positivi.
In realtà un evento del genere, seppur di differenti proporzioni, si era registrato qualche anno prima, a metà degli anni ’60, sul Monte Bianco, nel corso di un tentativo di recupero di un folto numero di alpinisti bloccati sul pilone centrale della montagna più alta d’Europa. Fra di loro c’era anche l’alpinista italiano Walter Bonatti che accusò Emilio Fede, allora in Rai, di aver fatto tardare i soccorsi diffondendo informazioni errate. La cosa si fermò lì. Nonostante i morti, tanti, in parete.
Ma è con Vermicino che si assiste, dal punto di vista narrativo, alla prima vera commistione tra generi televisivi differenti, in particolare tra l’informazione e la fiction: una inedita commistione tra le istanze relative al conoscere, legate all’informazione, e quelle relative alla partecipazione emotiva e passionale tipiche della fiction.
Era giusto, non era giusto puntare le telecamere su un bambino che sta sprofondando in un buco nero dove, di lì a poco, sarebbero sprofondate, con la pietà e la vergogna per la fine del povero Alfredino, anche tutte le nostre concezioni sulla televisione?
La domanda rimane senza risposta ma il dibattito è aperto perché, come sostiene Aldo Grasso, una cosa è soffrire, un’altra vivere con le immagini della sofferenza, che non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione, anzi possono anche corromperle. La tragedia di Vermicino non è servita dunque a riflettere sull’opportunità di trasmettere casi dolorosi in tv, o meglio, su come trasmetterli, ma è servita solo a sdoganare questo nuovo genere di spettacolo basato sulla sofferenza. Si potrebbero fare molti esempi di questa televisione straziata e straziante.

Quali sono gli elementi che costituiscono la cosiddetta “televisione del dolore”?
La televisione è il dispositivo comunicativo contemporaneo che più di ogni altro, in realtà, tradisce costantemente il dolore, nel senso che lo rende tangibile, lo trasforma in una storia appetibile, ne fa un osceno lievito per gli indici di ascolto. L’episodio del Vermicino del 1981 ha rappresentato il primo esempio italiano di storytelling audiovisivo di un dolore trasmesso in diretta. La cornice “quotidiana” della vicenda raccontata ha involontariamente trasformato la storia di Alfredino nel prototipo perfetto di tragedia televisiva. Il meccanismo narrativo della televisione ha reso, difatti, l’evento funzionale molto più alla sua ripresa televisiva che alla riuscita dell’operazione stessa. Ma, allo stesso tempo, ha mostrato come la televisione, al di là dei suoi dispositivi finzionali e spettacolari, risponda a una vocazione antropologica più profonda. La tv che si occupa della realtà non è nata per rimettere a posto le cose, ma per essere percepita come «vera». E, proprio nel caso dei «gialli» irrisolti, il suggello ultimo di questa veridizione consiste nel rifare in video i processi dei tribunali. La tv può permettersi di accentuare quel carattere di serializzazione che il «giallo» offre per il quale è assolutamente funzionale costituire una compagnia di giro (da Alessandro Meluzzi all’ ex capo dei Ris Luciano Garofano, alla criminologa Roberta Bruzzone), permettere agli inviati di entrare in confidenza con i protagonisti, vittime o carnefici non importa, istruire in studio il processo mediatico che si regge non tanto sulle tesi contrapposte dei vari protagonisti quanto sui filmati realizzati dalla redazione.

Con l’omicidio di Sarah Scazzi il copione si è ripetuto?
La vicenda, brutale e inquietante, di Sara Scazzi si presta pienamente al cliché di uno storytelling televisivo che si “intrattiene” sul dolore, raccontandolo con le caratteristiche dell’informazione. Perché è bene specificare che una cosa è il dolore, un’altra le immagini del dolore, della sofferenza che non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione. È giusto raccontare i fatti, la cronaca. Non è giusto invadere le vite con il pretesto del dolore. Quella a cui assistiamo è una crescente serializzazione del dolore e delle sue storie che vengono dissezionate, discusse attraverso le quali si ricercano continue connessioni, nuove contestualizzazioni, esclusive, empatie. Il delitto della giovane Sarah Scazzi ha suscitato sgomento per come è stato consumato ma anche per come è stato scoperto e comunicato. In diretta tv, presenti – e protagoniste – la madre, la zia e la cugina (di Sarah). Rispettivamente: moglie e figlia dell’assassino. A casa dell’assassino. La novità è che lo spettacolo del dolore, stavolta, non solo è avvenuto in diretta ma è stato predisposto prima, per quanto in modo inconsapevole. I protagonisti della tragedia erano presenti sulla scena del crimine, davanti alle telecamere, attori involontari, che avrebbero rinunciato volentieri alla parte e, soprattutto, al soggetto. Ma proprio per questo più gradito al pubblico.

Anna Bisogno insegna Storia e linguaggi della radio e della televisione all’Università di Roma Tre

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