
Quali specifiche difficoltà presenta la traduzione poetica?
Sono convinto che qualunque persona sensibile amante della poesia non possa non porsi il problema di come tradurla in un’epoca in cui la possibilità meccanica di diffusione della musica, la riproduzione delle opere pittoriche, il linguaggio cinematografico ormai tendenzialmente astratto dalla parola, rendono il testo poetico sempre di più un unicum esigente. Occorrono concentrazione e silenzio: di sottofondo può esserci musica, non poesia; banalmente appese alle pareti possono esserci le riproduzioni di quadri… La poesia insomma è il grande incomodo. Occorre fare fatica per conquistarla perché vive consustanziata alla lingua e va penetrata. Le lingue sono rimaste molte. E la traduzione automatica per la poesia è qualcosa di risibile. Ecco dunque la necessità, per chi ama la poesia, di porsi il problema di come tradurla. Non è un caso che tutti i grandi poeti siano e siano stati anche traduttori di poesia. Perché vi è la necessità, per ogni vero poeta, di verificarsi costantemente anche in una lingua altra rispetto alla propria lingua madre. Quasi che la poesia renda indispensabile una sorta di confronto superiore con una lingua di riferimento. Ho scritto più volte che, come genere letterario, la poesia per metà confina con la prosa e per l’altra metà con la musica. In poesia c’è un’inevitabile presenza di parole, che possono essere le stesse che trovi in un saggio critico, ma l’impasto, l’alchimia nella selezione di queste parole e nel modo di porle, fa sì che quest’arte, la poesia, sia anche stabilmente musicale. Rispetto alla musica pura ha il dono della parola e rispetto alla prosa ha il dono della musicalità. Ezra Pound distingueva tra melopea, logopea e fanopea. Esistono poeti – e all’interno della loro produzione esistono testi – nei quali prevale l’elemento “melo” sull’elemento logos, come quelli di Apollinaire. Nella poesia in italiano di Pasolini avviene il contrario. In quella in friulano però prevale l’elemento “melo”. Poi c’è la poesia della fanopea, della visione, che può andare da Dino Campana a Ungaretti allo stesso Pound. Riflettere su questo è essenziale per un traduttore, perché capisce dove eventualmente può sacrificare qualcosa. In Apollinaire dovrà salvaguardare soprattutto la melopea, in Pasolini italiano la logopea, nel Pound di Ripostes la fanopea.
Come si è evoluta la riflessione teorica sulla traduzione e chi ne sono stati i maggiori studiosi?
Anzitutto in Italia, Luciano Anceschi, che considero uno dei miei maestri. In particolare per l’aggiunta delle moralità e degli ideali ai sistemi tecnici e alle norme operative nella sua canonica definizione di poetica. Anceschi mette i termini al plurale perché moralità e ideali possono cambiare da persona a persona. Le mie moralità sono diverse da quelle di un cattolico. Il contadino sensibile che vede l’alba è poeta nel momento in cui ammira i colori del cielo che cambiano, ma non ha le parole per descriverli. Esattamente come quel versificatore che possiede tutte le parole, ma non ha l’emozione perché gli mancano le moralità e gli ideali. Occorre avere l’animo del bambino e la sapienza dell’uomo colto e maturo. Sono i due lati della stessa medaglia. Questo il grande insegnamento di Anceschi. E poi George Steiner che mi ha insegnato ad attribuire al traduttore la stessa dignità del tradotto. Quindi, di nuovo in Italia, Gianfranco Folena il cui Volgarizzare e tradurre rimane un testo miliare per chiunque si occupi di traduzione letteraria. E poi ancora Meschonnic e Ladmiral, Berman, Szondi, Apel ed Emilio Mattioli, primo allievo di Anceschi e con me e Allen Mandelbaum condirettore di “Testo a fronte” negli anni Ottanta e Novanta.
Quali esempi, tra i numerosi presentati nel volume, ritiene più rappresentativi dell’arduo compito del tradurre?
Qualunque poeta traduttore, se apre il proprio cahier di aneddoti, potrebbe continuare all’infinito. Qui posso limitarmi a raccontare un curioso episodio che mi accadde con un testo appartenente alla mia prima raccolta, Nell’acqua degli occhi (Guanda, 1979), in cui immagino Ganimede sub specie di un autostoppista discolo. La poesia si intitola proprio Ganimede: “Imbastendo un piano / D’abbandono randagio / Contava le Erinni / Sedendo a bell’agio. / Metteva nell’abbandono Il lato vile / D’autostoppista servile / Appena raccolto / E rideva tenuto / Pensando che infine / Mercurio / Contava quel tanto / Che basta per dire / «Son io» per entrare”.
La versione inglese venne compiuta alcuni anni dopo da Richard Fish, con il seguente esito per quanto attiene la quartina iniziale: “Preparing a plan / Of wondering abandon / He counted the Furies / Sitting at ease”. Giocava il ruolo di supervisor di quelle prime versioni inglesi e tedesche dei miei testi il saggista e poeta Michael Hamburger. Il quale, oltre al lavoro di Fish, leggeva alacremente anche quello di Hans Raimund, che stava per pubblicare una scelta dei miei versi in Austria e aveva fretta. Quindi io non vidi, se non dopo la pubblicazione, la traduzione in tedesco di Ganimede, che così inizia: “Sorgfältig plante er / Die Verwahrlosung des Vagabunden / Und zählte die Erinnyen, /
Die gelassen dasassen”.
Che cosa era accaduto? Era accaduto che Hamburger, per un misreading del testo italiano, convintosi che – sedute comodamente – fossero le Erinni e non il lavativo Ganimede, aveva mandato fuori strada irrimediabilmente il traduttore tedesco, e stava per fare altrettanto con il traduttore inglese. Fish invece – accortamente avvalendosi della coincidenza che l’inglese offre tra gerundio e participio presente – aveva almeno consentito la doppia lettura. Confesso che per qualche giorno fui persino tentato di cambiare il mio testo italiano pur di chiudere la questione…
Come si realizza la traduzione del nonsense?
Cercando di comprendere che cosa significhi davvero ricreare. L’esempio canonico potrebbe essere: come traduco in italiano “She sells sea-shells on the seashore, the shells she sells are seashells I am sure”? Lo tradurrò con le classiche “Trentatré trentine entrarono in Trento…” evitando di parlare di conchiglie. Come tradurrò in italiano “Qui va à la chasse perd sa place” se non con “Chi va via perde il posto all’osteria”. Ma attenzione questa traduzione va bene solo a Nord degli Appennini. A Sud occorre tradurre “Chi va a Roma perde la poltrona”…
Nel libro Lei presenta la traduzione in lingua inglese dell’opera di Leopardi come rappresentativa del compito di un poeta traduttore: per quali ragioni?
Per esemplificare un ragionamento che solo alle menti semplici può apparire come un astratto esercizio. In effetti, in un ideale di corrispondenza ai valori profondi dell’originale, ben oltre – quindi – i crucci del lessico, la vera “traduzione” di La ginestra è Mont Blanc di Shelley. Come la traduzione ideale della prima strofa di Sopra un bassorilievo antico sepolcrale («Dove vai? chi ti chiama / Lunge dai cari tuoi, / Bellissima donzella? / Sola, peregrinando, il patrio tetto / Sì per tempo abbandoni? a queste soglie / Tornerai tu? farai tu lieti un giorno / Questi ch’oggi ti son piangendo intorno?»), con le domande rivolte come ferite alle venature del marmo, è in quella quarta stanza dell’Ode su un’urna greca di Keats; in quella dolorosamente simile impotenza interrogativa: «Who are these coming to the sacrifice? / To what green altar, O mysterious priest… / What struggle to escape? / […] / What wild ecstasy?». Come, per altro, i versi iniziali del Canto notturno («Ancor non sei tu paga / Di riandare i sempiterni calli? / Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga / Di mirar queste valli?») paiono trovare il proprio ideale di corrispondenza traduttiva nel celeberrimo frammento shelleyano «Art thou pale for weariness / Of climbing heaven and gazing on the earth, / Wandering companionless / Among the stars that have a different birth, – / And ever changing, like a joyless eye / That finds no object worth its constancy?». (Versi shelleyani a loro volta apparenti come traduzione – e all’interno della stessa lingua [ma che cosa è una lingua?] – dell’altrettanto celebre incipit del sonetto XXXI di Astrophel and Stella di Sidney: «With how sad steps, O Moon, thou climbst the skies! / How silently, and with how wan a face!»). «Senza essere poeta non si può tradurre un vero poeta», scrisse Leopardi. Occorre essere poeti magari per tradurre non traducendo. Come Rilke, che di fronte al dilemma sostantivo-aggettivo sostantivato, tra Unendliche e Unendlichkeit, lascia “L’infinito” come titolo, simbolicamente indicando la via verso la perfetta traduzione. Di poesia. Mentre, in una traduzione di servizio, proprio serve che il traduttore subito mostri come differentemente il testo venga a connotarsi, fin dal titolo, optando per die – col sostantivo – piuttosto che per das con l’aggettivo sostantivato.
Come si pone il traduttore dinanzi all’intraducibile?
Céline si chiedeva, in una lettera a M. Hindus del 15 maggio 1947: «Io mi domando in che cosa mi paragonino a Henry Miller, che è tradotto?, mentre invece tutto sta nell’intimità della lingua! per non parlare della resa emotiva dello stile…». Lo stile, per Céline, era dunque «intraducibile», come – per Croce – era «intraducibile» la poesia. Sono posizioni che, facendo leva sul presupposto della unicità e irriproducibilità dell’opera d’arte, giungono a negare la traducibilità della poesia e della prosa «alta». Tali concezioni sono espressione di un idealismo oggi particolarmente inattuale, contro il quale l’estetica italiana di impianto neofenomenologico (da Banfì ad Anceschi a Formaggio a Mattioli) si è battuta (direi, vittoriosamente) partendo dalla constatazione che le dicotomie (ut orator/ut interpres; verbum/sensus; traductions des poètes/traductions des professeurs) – da Cicerone a Mounin – inevitabilmente portano ad una situazione di impasse, configurando, da una parte, l’intraducibilità dello «stile» e dell’«ineffabile» poetico, e dall’altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto. Naturalmente, come ho già detto, il fatto che sia trasmissibile soltanto un contenuto è una pura astrazione, ma è dove si giunge sia partendo da presupposti «idealistici», sia da presupposti «formalistici». Personalmente rifuggo dalla categoria dell’intraducibile: preferisco sempre parlare di “difficoltà transculturali”, che possono essere di vario livello, ma tutte sempre risolvibili, al più ricorrendo a perifrasi. Le note del traduttore, o le semplici note a piè di pagina, possono aiutare.
Franco Buffoni (Gallarate, 1948) ha insegnato per trent’anni letteratura inglese e letterature comparate in varie università (Parma, Trieste, Bergamo, Cassino). Ha pubblicato le raccolte Nell’acqua degli occhi (Guanda 1979), Scuola d’Atene (L’Arzanà 1991), Suora carmelitana (Guanda 1997), Il profilo del Rosa (Mondadori 2000), Theios (Interlinea 2001), Guerra (Mondadori 2005), Noi e loro (Donzelli 2008), Roma (Guanda 2009), Jucci (Mondadori 2014). L’Oscar Poesie 1975-2012 (Mondadori 2012) raccoglie la sua opera poetica. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). È attivo anche come saggista (L’ipotesi di Malin, Marcos y Marcos 2007; Laico Alfabeto, Transeuropa 2010) e narratore: Più luce, padre (Sossella 2006), Zamel (Marcos y Marcos 2009), Il servo di Byron (Fazi 2012), La casa di via Palestro (Marcos y Marcos 2014).