“La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale” di Enrico Campo

Dott. Enrico Campo, Lei è autore del libro La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale edito da Donzelli: quali effetti hanno prodotto e stanno producendo sulle nostre facoltà mentali le nuove tecnologie?
La testa altrove. L'attenzione e la sua crisi nella società digitale, Enrico CampoQuesta è una domanda molto complessa e dobbiamo diffidare di qualunque risposta semplicistica o affrettata – come se le nuove tecnologie avessero un effetto diretto, univoco e immediato sui nostri processi mentali. Molti studi recenti hanno mostrato che l’utilizzo degli smartphone o la navigazione continuativa in internet, ad esempio, riducono significativamente la durata dell’attenzione e causano, di conseguenza, difficoltà nella concentrazione e nella memorizzazione. Tali ricerche sono certamente valide e ci danno utili informazioni su come tali tecnologie entrino in rapporto con la nostra vita quotidiana, ma i loro risultati sono stati utilizzati a supporto della tesi secondo la quale tutti staremmo diventando, in definitiva, più distratti, meno capaci di concentrarci, in una parola: più stupidi. Io invece ritengo che le cose siano molto più complicate di così. In primo luogo, il problema non riguarda solo le cosiddette “nuove tecnologie” ma in senso lato tutte le tecnologie “intellettuali”, che hanno quindi un rapporto biunivoco con i nostri processi mentali. A me sembra che sia molto importante abbandonare un’idea continuista e progressista dello sviluppo storico, come se il “nuovo” medium sostituisce a quello “vecchio”. In realtà i sistemi mediali sono molto più articolati di così, i media si sovrappongono, competono tra loro e cambiano di concerto: i sistemi mediali sono stratificati e complessi e le nostre menti si formano in questo ambiente stratificato e complesso. Pertanto, non è corretto pensare che le nuove tecnologie abbiano contribuito a “corrompere” la nostra mente. Molto spesso, infatti, chi sostiene che le nuove tecnologie abbiano prodotto una stupidità dilagante prende a riferimento un modello di mente, considerata ormai perduta, che è quella che si è formata sulla lettura dei libri e che è possibile chiamare “mente letteraria”, ma che in definitiva non è mai stata dominante.

La responsabilità del progressivo deterioramento dell’attenzione è da ascriversi solamente al sovraccarico cognitivo generato dalle nuove tecnologie?
Io credo che siano da mettere in discussione sia l’idea di “progressivo deterioramento dell’attenzione” sia quella di sovraccarico cognitivo, almeno per come queste sono normalmente intese. Non voglio negare che l’aumento del numero di cose a cui io presto attenzione ne riduca la qualità. Ad esempio, è sicuramente vero che posso guidare, ascoltare la radio e rispondere agli sms contemporaneamente. Come è vero che non sto portando a termine questi compiti al massimo delle mie potenzialità e, se appunto sto guidando, questa situazione mi può addirittura risultare fatale. Pertanto, chi sostiene che l’eccesso di informazioni riduca la nostra capacità di prestare attenzione in maniera focalizzata a pochi stimoli è mosso da una preoccupazione ben fondata. Eppure, non siamo stati i primi a sentirci sovraccaricati e bisogna ammettere che possiamo trovare considerazioni dello stesso tenore in molti altri periodi storici e anche in epoca antica, dove la possibilità di accesso alle informazioni era sicuramente minore rispetto a oggi. Più in generale, inoltre, a pensarci bene, siamo sempre in una situazione di “eccesso”, nel senso che nel nostro campo percettivo c’è sempre una quantità molto elevata di stimoli verso cui possiamo potenzialmente rivolgerci, ma che di fatto escludiamo. Dobbiamo ammettere che la percezione dell’eccesso di informazione è dunque una misura relativa, che non dipende semplicemente dalla quantità di informazione in circolo nel sistema, ma anche dalla nostra capacità di governarla e pertanto non si può misurare in termini assoluti. Diviene dunque rilevante il modo in cui l’informazione viene gestita: il sovraccarico non può essere semplicemente pensato in termini individuali, ma bisogna concentrarsi anche sui meccanismi collettivi di governo di questo sovraccarico.

Cosa intende? Nel libro parla di convenzioni culturali, norme sociali e ambienti ecologici che strutturano l’attenzione individuale e collettiva. È a questo che si riferisce?
Sì, in parte sì. La tesi centrale del libro è che tutti questi elementi abbiano un ruolo centrale nel guidare e formare la nostra attenzione. Più in generale, possiamo dire che, nell’insieme, il saggio propone una sorta di inversione rispetto al modo tradizionale di concepire l’attenzione. Normalmente pensiamo prima all’attenzione individuale, a quella intersoggettiva (la cosiddetta attenzione congiunta in cui le persone che interagiscono si coordinano tra loro) e infine a quella collettiva, come aggregato di molti rivolgimenti attentivi individuali. Invece, possiamo provare a invertire questo percorso e guardare agli aspetti culturali, sociali e tecnologici per mostrare come la mia attenzione individuale sia in realtà incardinata in un sistema più complesso che la orienta e contribuisce al suo sviluppo. Di per sé questa impostazione concettuale, che invita a guardare agli aspetti collettivi del pensiero e della percezione, non è nuova e ha diversi illustri predecessori. Ludwik Fleck, ad esempio, nel 1936 invitava ad approfondire una sociologia della cognizione che si interessasse degli specifici “stili di pensiero” peculiari ai diversi gruppi sociali. Oppure, per fare un altro esempio dello stesso periodo, pensiamo al famoso saggio sull’opera d’arte in cui Walter Benjamin sosteneva che le modalità della percezione umana – i modi in cui è organizzata – cambiano storicamente.

Quali sono dunque le forze e gli ambienti tecnici e sociali che incoraggiano, stimolano e inibiscono i nostri meccanismi cognitivi?
Mi limito a fare un solo esempio, riprendendo la proposta del sociologo francese Dominique Boullier di indagare i “modi di produzione dell’attenzione” a partire dall’idea dei “regimi di attenzione”. I regimi mettono in primo piano il fatto che la nostra attenzione individuale è sempre inscritta in un complesso sistema di relazioni e di apparati che stimolano, favoriscono, scoraggiano e inibiscono determinati processi attentivi piuttosto che altri. Boullier riprende da Théodule Ribot l’analisi dell’attenzione basata sui due assi dell’intensità e della durata. La prima riguarda la forza di attrazione della stimolazione implicata nel legame attentivo, mentre la seconda ci informa sulla sua dimensione puramente temporale. In ogni atto attentivo questi due caratteri si bilanciano in maniera variabile. Attraverso la combinazione di questi elementi Boullier descrive quattro regimi dell’attenzione: fidelizzazione, allerta, immersione e proiezione. Vediamo i primi due, che sono in relazione più diretta con il dibattito sull’effetto delle nuove tecnologie.

La fidelizzazione corrisponde al regime in cui la durata dell’attenzione è alta mentre l’intensità è bassa, situazione tipica ad esempio durante la lettura di un libro. L’allerta presenta questi poli dell’attenzione in forma invertita: bassa durata e intensità elevata, come quando ad esempio facciamo zapping. Le strategie di fidelizzazione sono mobilitate dai soggetti più diversi, tanto dal mercato quanto dalle religioni, ovvero, più in generale, da chiunque miri a creare dei fedeli. L’obiettivo finale è quello di produrre un adepto. Mentre il regime della fidelizzazione è considerato da Boullier come il più antico, quello dell’allerta è pensato come egemonico nel panorama mediatico contemporaneo; quest’ultimo infatti produce costantemente degli “eventi” che canalizzano solo per una breve durata l’attenzione del pubblico e rendono difficile la possibilità di coltivare un’attenzione più duratura. Anche il mercato azionario è un ottimo esempio di questo regime che richiede, se non si vuole restare tagliati fuori, la massima reattività ai minimi cambiamenti del sistema.

L’utilità della proposta di Boullier consiste nella possibilità di farci uscire dal manicheismo troppo rigido, che spesso è alla base delle narrazioni sulla “crisi dell’attenzione”, e secondo il quale la focalizzazione è comunque positiva mentre la “distrazione” rappresenta il male del nostro tempo. È infatti sostanzialmente sbagliato associare allerta a triviale e fidelizzazione a colto. Abbiamo visto che la fidelizzazione è basata sulla ripetizione e sulla tradizione ed è alla base ad esempio di tutte le strategie di propaganda. Invece, le attività creative devono affidarsi a una buona capacità di allerta, che permette di rompere le abitudini e le convenzioni stabilite. La fidelizzazione e l’allerta sono regimi opposti, ma, al contempo, complementari poiché fanno parte dello stesso habitat attentivo, dove si combatte una battaglia sia per mantenere i legami attentivi esistenti sia per infrangerli.

In che modo è possibile sviluppare un’«ecologia dell’attenzione»?
L’espressione di “ecologia dell’attenzione”, in Italia è pressoché sconosciuta, ma ha avuto una certa fortuna in ambito francese e sta iniziando a diffondersi anche nel mondo anglosassone. L’ecologia dell’attenzione si definisce spesso in una relazione critica rispetto al concetto di economia dell’attenzione, che serve a descrivere i cambiamenti intervenuti nel sistema economico in conseguenza dello sviluppo di internet e quindi della sovrabbondanza di beni disponibili gratuitamente. In una economia così configurata, la rarità riguarda l’attenzione dei consumatori, e dunque sarebbe questa la vera risorsa scarsa che viene mercificata e scambiata in questo sistema. Pensiamo ad esempio a tutti i servizi che “gratuitamente” Google ci offre in cambio “soltanto” della nostra attenzione. Ecco, l’approccio ecologico – che ha avuto la sua più coerente sistematizzazione con i lavori di Yves Citton – condivide questa idea dell’attenzione come una risorsa scarsa, ma ritiene che la sua gestione non vada affidata semplicemente alla logica del profitto. Sostanzialmente, l’ecologia dell’attenzione spinge alle estreme conseguenze quella inversione cui abbiamo in precedenza accennato rispetto al modo tradizionale di intendere il rapporto tra attenzione individuale e collettiva: si interessa soprattutto a come gli ambienti che abitiamo, in quanto sistemi di interazione complessi e pluristratificati, condizionino la nostra attenzione. Ma non soltanto. Tali approcci ritengono che l’attenzione stessa sia in primo luogo una relazione – si è sempre attenti a qualcosa – che determina la sopravvivenza degli organismi nel loro ambiente: gli organismi devono fare attenzione a quello che permette la riproduzione della loro forma di vita. Allora, la questione, dirimente e ineludibile, può anche essere posta in un altro modo: il problema dell’attenzione riguarda la nostra autonomia, individuale e collettiva, e dunque i modi e le forme della soggettivazione, ovvero le modalità attraverso le quali ci costituiamo in quanto soggetti. Per poter governare noi stessi dobbiamo sia conoscere le “regole dell’attenzione” sia il modo in cui gli ambienti che contribuiamo a costruire interagiscono con esse.

Enrico Campo è dottore di ricerca in Scienze politiche presso l’Università di Pisa ed è stato chercheur post-doc del CNRS presso l’Università della Corsica

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