
di Gianpasquale Santomassimo
Carocci editore
«Il fenomeno fascista, nella molteplicità di facce che lo hanno caratterizzato, si è configurato negli anni tra le due guerre come una “terza via”, distinta e contrapposta rispetto a sistemi, culture, ideologie, pratiche politiche e istituzionali che si richiamavano ai principi del liberalismo e della democrazia, da una parte, della tradizione socialista e della nuova realtà sovietica, dall’altra.
La cosa ci appare oggi abbastanza evidente, a distanza di decenni, e registriamo anche che in questa forma l’insorgenza del fascismo fu vissuta, consentendo o opponendosi, da gran parte dei contemporanei.
Eppure questo riconoscimento è stato ed è tuttora difficile in sede storica. Nel ridurre il fascismo a “variante” sia pure estrema, pericolosa e bellicosa del capitalismo era implicito nella cultura marxista il rifiuto di accettare quella che poteva apparire la concessione al fascismo della “dignità” di una soluzione autonoma ed originale. Il rifiuto consolatorio del riconoscimento dell’esistenza di una cultura fascista, ed anzi la ricorrente istituzione dell’equazione fascismo = anticultura da parte della cultura liberale (e, in Italia, anche della particolare cultura azionista), in un filone che va da Croce a Bobbio, ha contribuito a lungo a ridurre la dimensione del fascismo a quella di un movimento empirico, pragmatico, muscolare, camaleontico come il suo fondatore. […]
Della “terza via” fascista quale fu percepita o vissuta negli anni tra le due guerre il corporativismo non è certamente l’elemento esclusivo, ma è a mio avviso uno dei più importanti, in quanto tende a dare risposta a quello che pareva uno degli interrogativi più drammatici del tempo e che dopo la crisi del 1929 apparve di portata esplosiva: l’assetto complessivo di una società che non può più fondarsi sugli automatismi della “mano libera” della dottrina tradizionale e che guarda con timore alla soluzione collettivistica che sembra prendere corpo, con risultati controversi ma comunque sorprendenti, nell’Unione Sovietica dei piani quinquennali.
Il corporativismo, inoltre, assume come proprio asse portante, e quasi come ragion d’essere, la proposta di una radicale sostituzione della rappresentanza politica con una rappresentanza del mondo produttivo, del lavoro, delle professioni, dei ceti: una sorta di sublimazione dell’antipolitica, il trionfo di un antiparlamentarismo che sussisteva già, latente e talora riaffiorante, ma che diviene più aggressivo negli anni tra le due guerre, in concomitanza con l’inabissamento delle libere istituzioni che esso stesso contribuisce a logorare e talvolta riesce ad abbattere.
Come avremo modo più volte di ripetere, il decorso del corporativismo ha qualcosa di paradossale. La sua portata ideologica si espande nel corso degli anni trenta proprio mentre si restringe e si ridimensiona, in patria, la sua portata pratica. La sua fortuna e il suo mito sembrano attecchire molto di più all’estero, mentre in Italia cominciano ad affiorare sentimenti di disillusione e l’accettazione di un ridimensionamento pratico della sua portata.
Ma in ogni caso quel mito esercitò un’influenza di grandissimo rilievo, contribuendo al fascino internazionale che involse gran parte dell’opinione pubblica nei confronti del nuovo regime italiano, che si presentava quale regno della pace sociale e dell’armonia tra le classi e tale venne da molti creduto. Fu una delle leve fondamentali del successo internazionale del fascismo, potendo ospitare al suo interno tensioni estremamente diverse tra loro: moderatismo, pulsione autoritaria, reazione aperta, talvolta nostalgica dell’ancien régime, o all’inverso “spirito rivoluzionario” teso al superamento della contrapposizione tra liberalismo e socialismo. È comunque l’argomento specifico della politica italiana – fatta salva appunto la discussione su epoche e temi generali, quali il fascismo stesso – su cui si è scritto di più nel mondo nel corso del Novecento. In un arco di anni molto breve, ma proprio per questo ancor più significativo quanto a intensità. La Bibliografia sindacale corporativa (1923-1940) curata da Graditane nel 1942 superava il migliaio di pagine.
Lo studio si muove in un ambito prevalentemente culturale, riserva un’attenzione molto minore alla portata reale del sistema corporativo nell’economia e nella società italiane, laddove si accettano le conclusioni di studi già esistenti e a nostro avviso fondamentalmente ancora validi. Non vuole essere una sintesi complessiva del fenomeno, ma un bilancio critico di alcuni suoi aspetti, e alterna la ricostruzione ravvicinata di momenti e problemi, fino al 1934, alla delineazione a grandi linee per gli anni successivi.
Se è vero che definire il fascismo significa scriverne la storia, ciò sarebbe tanto più vero per il corporativismo fascista. In realtà è sempre mancata un’analisi globale e approfondita del dibattito sul corporativismo, condotta con la necessaria ampiezza di punti di riferimento e con il rispetto accurato della scansione cronologica di quella vicenda. Né questo libro pretende di supplire a questa carenza.
Le difficoltà che si incontrano su questa strada sono notevoli, e vanno aggiunte agli effetti di un indubbio processo di rimozione storiografica: distruzione di archivi, dispersione estrema di fonti e ampiezza sproporzionata delle stesse rispetto a qualunque altro fenomeno culturale dell’Italia fra le due guerre. […]
Nel libro si dà per scontato che si sta parlando di una situazione dittatoriale, di un dibattito che muove all’interno di un regime autoritario e che ambisce a divenire totalitario. L’estrema ricchezza del dibattito – è il caso del tutto particolare di una questione dove non esistevano all’origine orientamenti “ufficiali” dettagliati e rigidamente prescrittivi – non deve far dimenticare che si sta parlando di un clima dove molte voci sono impedite, e ad altre è consentito di esprimersi attraverso quel linguaggio cifrato, quel parlare tra le righe che trovò definizione nel termine suggestivo del “nicodemismo” o di altri consimili.
Nel fuoco della polemica corporativa e dell’ordinamento sindacale che esso postulava o implicava trovò (o cercò) definizione quel “fascismo di sinistra” che ha pane rilevante nella memorialistica come nella riflessione a posteriori delle generazioni che avevano attraversato l’esperienza fascista. Con una presenza assai più degna di nota sul terreno virtuale, della tendenza o della potenzialità, che non sulla capacità di incidere sul concreto farsi della politica del regime. Ma, riguardo a tutto il complesso nodo di problemi di ordine culturale, psicologico e anche di retaggio storico che va sotto il nome di “sinistra fascista”, la prima cosa da dire è che si deve avere il coraggio di prendere il fenomeno sul serio; cosa che non sempre è accaduta, per tanti e comprensibili motivi. Il carattere di “copertura” più o meno demagogica degli indirizzi del regime, la sua “funzionalità” nel trattenere nell’orbita del consenso al fascismo molti militanti scontenti e disillusi si possono ben asserire e argomentare, ma devono essere il risultato di un’analisi, assai più che il punto di partenza. Di certo non si può non notare la ragguardevole quantità di prese di posizione che esprimono delusione “rivoluzionaria” in tutto l’arco storico della vicenda del fascismo e anche retrospettivamente, e come esse vengano da ambienti, tradizioni e generazioni diverse. Si può parlare di “stato d’animo”, assai più che di tendenza o corrente definita e strutturata, ma la sua durata, varietà e diffusione pongono comunque un problema.
In ogni caso è una componente vitale e rilevante del fenomeno fascista, parte integrante di una cultura che, in Italia come negli altri paesi in cui trovò forma, non fu mai monolitica e univoca, ma stimolò (assai più che “tollerare”) tensioni volte ad esprimere coloriture radicali, a volte vagamente, a volte esplicitamente “antiborghesi”.»