
A guardarla con gli occhi del numismatico una moneta rivela storie, valori, usi, abitudini, accidenti, credenze e simboli che alla maggior parte di noi rimangono per lo più nascosti al di là del denaro. Una moneta ha infatti un dritto – la faccia con impressi i segni dell’autorità riconosciuta, il motivo principale e un esergo con elementi complementari – e un rovescio – il lato secondario con, di norma, il valore nominale. Ma ha anche un terzo lato. La terza faccia della moneta non è solo quella rappresentata dal bordo, luogo di comunicazione tra la moneta stessa e i suoi utilizzatori, fatto di scritte, segni, forme, misteri e antiche abitudini truffaldine. È anche questo luogo. Se la prima faccia rappresenta la relazione interpersonale quale ragione d’esistere del denaro nella sua forma monetaria e nel suo essere simbolo del debito originario, la seconda riporta alla fiducia come credito relazionale e potere che genera e sostiene il legame tra persone impegnate in uno scambio, ecco che la terza è quella delle decisioni economiche in cui quotidianamente rischiamo di inciampare affidandoci a scelte più emotive che razionali.
La terza faccia non è quindi solo il lato della moneta su cui, dopo un lancio a risolvere il dilemma decisionale, la stessa non atterra quasi mai – e solo per questioni di equilibrio e di probabilità, non certo per impossibilità. La terza faccia della moneta è il luogo del dilemma decisionale, della responsabilità che una scelta attuata attraverso il denaro comporta nell’essere profondamente collegata alla relazione tra le persone, alla fiducia costruita tra esse, agli aspetti simbolici e mitici di questo legame. È quell’al di là del denaro dove sono contenuti i significati razionali, irrazionali, emotivi e relazionali dell’uso e della sua evoluzione storica e umana. È il luogo da cui partire per porsi le buone domande sul denaro.
Quali dinamiche influenzano il nostro rapporto con il denaro?
Ogni relazione di scambio che ha come strumento il denaro – nella sua forma visibile e manipolabile della moneta nelle sue forme sonanti, virtuali o digitali – comporta il rischio di azioni non intenzionali o irrazionali. I nostri giudizi risultano essere molto più imprecisi e instabili di quanto non ci si possa aspettare nel nostro essere persone “ragionevoli”. Molto spesso le valutazioni che sostengono le nostre scelte sono incoerenti, incongruenti o contrarie a un interesse oggettivo. Noi basiamo le nostre strategie decisionali molto più su sensazioni e intuito soggettivi che su calcoli razionali e probabilistici.
Per lungo tempo coloro che hanno guardato sotto la superficie dei comportamenti umani per comprenderne logiche e forze hanno esteso tale carattere di onnipotenza acquisita dal possessore di denaro alle sue capacità intrapsichiche, come fosse una divinità olimpica, uno Zeus della Società dei Consumi, capace di gestire conoscenze, informazioni ed emozioni per prendere sempre le decisioni “giuste”. Solo dopo molti decenni le logiche del far di conto negli scambi economici sono state ricondotte a una ragione che la ragione non conosce: una ragione non più olimpica bensì propria della terra dell’Ade. O poco più in superficie.
In tal senso scendere dall’Olimpo dell’interpretazione delle dinamiche intra-psichiche dei consumatori per meglio comprenderne i comportamenti decisionali significa guardare alla terza faccia della moneta: quella dei significati più o meno velatamente celati, dell’irrazionalità, delle pulsioni, dei linguaggi simbolici e atavici.
Sulle questioni di soldi, infatti, tendenzialmente tacciamo. Oppure mentiamo. Sono rare le persone che con il denaro hanno un rapporto veramente neutrale, distaccato e oggettivo. Le dinamiche che influenzano il suo uso sono piuttosto accompagnate da sentimenti di colpa o di orgoglio, di vergogna o di fierezza. Parlarne proietta gli interlocutori più in una dimensione d’inadeguatezza che di opportunità. E parlarne passa sempre attraverso l’utilizzo di enfasi, ellissi, espressioni sinonimiche e giri di parole finalizzati a stare alla larga dal significato ultimo del denaro. All’interno della coppia, in famiglia, nelle organizzazioni parlare di soldi spesso genera malintesi, comportamenti malsani, conflitti e ostilità latenti.
In che relazione stanno denaro, moneta e credito?
Immaginiamo per un momento di esser nati qualche anno prima di Gige, re della Lidia tra l’VIII e il VII secolo a.C. Sono le 12 o poco più. Uno dei tanti abitanti di quella regione dell’Asia Minore occidentale che non hanno un lavoro passeggia per il villaggio quando sente il forte desiderio di mangiare un panino imbottito dal sapore casereccio. Qualche metro e lo squattrinato entra dal pizzicagnolo chiedendo se ci sia un servizio da fare per il quale corrispondergli un buon panino al prosciutto (è noto che in Lidia si producessero i migliori panini al prosciutto dell’antichità!). Al che quello gli dice che c’è la spesa di un’anziana signora da recapitarle a casa, poco distante da lì. Il tale, affamato, accetta e a servizio svolto ottiene lo spuntino desiderato. Il giorno seguente la situazione s’inverte. Ripassando di fronte alla bottega, il pizzicagnolo esce chiedendo allo stesso se anche oggi avesse voglia di portare la borsa della spesa a un’altra signora in cambio di un buon panino. Ma oggi lo squattrinato non ha voglia di panini. Gli viene quindi proposto di prenderlo domani: «Non ci sarò domani». «Allora lo porti a un tuo amico». «Non penso di vedere amici che vogliono un panino oggi». «Potranno prendersi mezzo otre di vino al posto del panino». «È meglio che non li porti sulla strada dell’alcolismo». «Bene. Allora ti firmerò un buono, così lo utilizzerai quando vorrai».
In questo scenario, proposto in origine dal filosofo Mathieu, di soldi non v’è traccia. E non per mancanza di spiccioli o perché la prima moneta coniata della storia occidentale – l’Elektron – venne fusa sotto il regno di Gige nel VII-VIII sec. a.C. Se quest’ultima infatti può essere la data di nascita della moneta (anche se in quel tempo nei territori della Cina circolavano già da qualche secolo monete a forma di zappa, vanga o coltello), quando invece è nato il denaro?
Il denaro ha cominciato il proprio travaglio in uno sfasamento temporale tra il momento in cui lo squattrinato ha recapitato la spesa all’anziana signora e il momento in cui si è potuto gustare il panino. In tale margine di tempo esiste un credito riposto nell’aspettativa e nella fiducia reciproca, perché presente tra lui e il pizzicagnolo. E poi tra chiunque possegga quel segno di credito/debito. Tale passaggio finale ed essenziale introduce quella dimensione particolare che sta alla base dell’idea di denaro: l’aspettativa di una prestazione qualsiasi da parte di un interlocutore qualsiasi (stimandone sì il valore in panini, ma senza avere più nulla a che fare con questi). Fino a quando tutti avranno fiducia che esiste il buon pizzicagnolo che cambierà i buoni in panini o in otri di vino il sistema funzionerà anche senza la necessità di verificare l’esistenza dei panini, degli otri o del pizzicagnolo. Fin quando ci sarà questa fiducia il denaro – qui nella forma monetaria del buono firmato – circolerà, riconosciuto e accettato come tale.
Quali dinamiche guidano le relazioni interpersonali mediate dal denaro?
Il valore del denaro non è nel denaro stesso, né nella moneta e nelle sue differenti forme. Il valore dei soldi è nelle persone che li usano e nelle relazioni che queste agiscono tra loro e tra loro e il mondo sociale e culturale in cui vivono.
Le dinamiche che guidano le nostre relazioni interpersonali e gli scambi che hanno come strumento il denaro sono da ricercare nella natura stessa dei rapporti personali e sociali e nel nostro modo di attribuire un valore alle relazioni e agli oggetti del mondo. Queste dinamiche devono esser considerate a partire dalla dimensione antropologica e psicosociale dei simboli pre-monetari e monetari coinvolti negli scambi stessi. I comportamenti economici esprimono tensioni psichiche, bisogni affettivi, pulsioni emotive esistenti a livello individuale e collettivo.
Le nostre relazioni interpersonali si sviluppano attraverso un’interazione tra fattori materiali e fattori ideali. In questa prospettiva il processo di formazione della società e dello stile di vita moderno ha man mano innalzato a valore supremo il denaro ben al di sopra delle relazioni esistenti non solo tra soggetto e oggetto ma anche tra soggetto e soggetto. Da qui la difficoltà oggi ancora più attuale del render spiegazione del funzionamento delle strutture dei valori che caratterizzano tali relazioni, del funzionamento del denaro e degli scambi economici partendo dalla comprensione in senso psicologico delle dinamiche esistenti e sottostanti l’uso del denaro come risultato dell’operare di valutazioni e istanze sottese alla sfera del visibile, del comportamento manifesto, delle opinioni dichiarate.
Quali conseguenze produce la smaterializzazione della moneta sulle nostre percezioni?
L’attuale dominazione tecno-finanziaria e monetaria dei mercati internazionali è fondata su un’aristotelica creazione ex nihilo di un denaro che si “concretizza” in una moneta virtuale. Quindi sulla circolazione di ricchezza telematica in un passaggio ulteriore attraverso cui il rapporto con il lavoro e la fatica si astrae completamente fino a scomparire.
Quando parliamo del fenomeno secondo cui il nostro è il tempo del denaro smaterializzato in cui veicolare i nostri rapporti fiduciari attraverso monete virtuali e sistemi di credito personalizzati, più che di smaterializzazione del denaro si dovrebbe parlare di una ri-smaterializzazione del denaro. Il denaro è la rappresentazione di una relazione umana e corrisponde al concetto di quel credito riposto nella fiducia reciproca che precede logicamente l’esistenza del denaro stesso, che è rimando a una cosa che ora non c’è, ma che ci sarà. Il denaro non si riferisce a null’altro che a una relazione tutta da costruire, di cui gocce d’oro, dischetti di rame, fogli di carta pergamena o stringhe di codici binari sono solo segni materializzati successivamente. La smaterializzazione del denaro vene qui riletta come una rinascita immateriale del denaro che, dopo aver subìto caratteristiche rappresentazioni materiali in monete e cartamonete, torna a rismaterializzarsi in moneta fiduciaria e quindi nella sua più contemporanea forma virtuale assunta nella criptomoneta.
Dal punto di vista poi della nostra percezione e dei conti mentali che guidano i nostri comportamenti economici, noi tendiamo a considerare in modo separato denaro contante, carte di credito e di debito, buoni e altri strumenti simili. Infatti, tendiamo a pagare le piccole uscite quotidiane in cash, le spese maggiori con il bancomat e gli acquisti economicamente consistenti con la carta di credito. E se nelle pratiche quotidiane pagare un aperitivo o cornetto e caffè con la carta è propensione sempre più diffusa, questa è anche rischiosa: quando non dobbiamo tirar fuori dalla tasca del contante per un acquisto siamo più esposti infatti a cedere ai vizi, a tollerare il superfluo e a deresponsabilizzare il nostro consumo e il suo valore. Pensiamo alle carte contactless: qui sparisce ogni contatto dolente tra noi e l’atto sacrificale del pagamento. Separarsi dai soldi contanti è azione sempre più faticosa e «dolorosa» (come ben si dice in portoghese riferendosi al conto), sofferenza che l’utilizzo di carte o mezzi digitali invece posticipa nel tempo e nello spazio.
In che modo il pensiero emotivo influisce sui nostri comportamenti economici?
L’emozione muove il pensiero e il comportamento. Fin dal suo etimo (da émouvoir ‘mettere in movimento’) l’emozione identifica una reazione complessa in cui lo stato di equilibrio di base è modificato da variazioni fisiologiche. Il pensiero emotivo è quindi un moto dell’animo emergente dalla situazione presente, una novità da vivere, una forza affettiva che, unita alla memoria delle emozioni passate, condiziona espressioni e decisioni. Anche economiche.
Ogni nostro comportamento economico è infatti anticipato da un lavoro interiore di percezione: la valutazione dell’oggetto nell’attivazione di un ricordo e nella formulazione di un’aspettativa futura e di una conseguenza prevista o immaginata e, infine, la decisione. È un processo spesso automatico e non sempre controllabile, con una dinamica circolare: un ricordo o un’aspettativa genera valutazioni che possono attivare ulteriori ricordi e aspettative e quindi nuove valutazioni. Così, la scelta prevede un volere emotivo che s’intreccia al volere razionale. Attraverso questi entriamo in relazione con l’oggetto o un suo attributo saliente. Non lo facciamo necessariamente in modo esaustivo né senza errori (e lo dimostrano molti esiti di pensieri euristici e bias), ma sufficiente per attivare reazioni interne, vincoli, ancoraggi e valutazioni per le scelte a venire. Ecco che prima di poter costruire un nuovo modo di consumare è necessario migliorare la nostra consapevolezza di quello attuale.
Come si può diventare consumatori migliori?
Se fossimo capaci di scorgere all’orizzonte il passato dal quale proveniamo il cambiamento sarebbe facilitato. Non quel passato mitizzato e mistificato in cui ciò che fu e ciò che di questo resta nelle sue immagini appare essere l’unica chiave per l’interpretazione della realtà presente e quindi della possibilità di progettare il proprio futuro. E nemmeno quel cambiamento nel quale tutti sono convinti d’esser immersi solo perché «l’innovazione» è per forza una cosa nuova che si muove, in avanti. Guardare al consumatore del futuro significa qui guardare a quel processo di transizione che, in un mondo denso di paradossi e misconoscenza, proviene da una rinnovata abilità a considerare il passato che sta davanti per comprendere profeticamente il futuro che vogliamo accada. Il profeta non è forse colui che vede davanti ciò che sta prima?
Per essere consumatori migliori è indispensabile oggi recuperare quei modelli antichi di relazione proprie allo scambio personalizzato di doni, quelle pratiche di stili di vita che hanno un impatto positivo sull’ambiente e sul sociale, quella condivisione che arricchisce attraverso accoglienza, comprensione e collaborazione. Così com’è indispensabile cercare risorse economiche che non vadano a danno del resto del mondo, che si fondino sulla generosità e, soprattutto, sulla fiducia e i suoi rituali relazionali come fondamento dello sviluppo, prendendo consapevolezza che rinunciare un poco di più a sé per condividere e collaborare, ci può far star bene. Anzi, meglio.
La filosofia del «fare insieme», della riscoperta relazione cooperativa e collaborativa e le nuove forme della condivisione sono presenti in molti termini organizzativi ed economici contemporanei, dal co-working allo sharing e simili. Ma se il monaco veste hi-tech e vive sharing, non è detto che sia rinnovato nell’animo. Nell’era della connessione costante e del condivisionismo mettiamo in comune dati, esperienze, emozioni, attività. Ci affidiamo agli altri ancor prima di fidarci degli altri. Vogliamo raccontare e raccontarci, descrivere e descriverci, aggiornare e aggiornarci. Partecipare. Ma sarà solo attraverso la cura delle nostre relazioni agite in forza di scambi responsabili, di dinamiche donatorie inserite nel contesto contemporaneo, della circolazione di valori che siano propri al nostro essere cittadini prima che consumatori che ci permetterà di diventare migliori decisori, generatori di cambiamento e protagonisti del superamento della crisi attuale e di quelle che ancora seguiranno.