
Il primo si colloca alcuni giorni prima della strage. Il 18 agosto 1572, a Parigi, avvenne il matrimonio tra Marguerite de Valois, figlia della regina madre Caterina de’ Medici e sorella del re Carlo IX, e Enrico di Borbone – il futuro Enrico IV – che, a quella data, era uno dei principali leader del partito dei calvinisti francesi (noti come ugonotti) e, soprattutto, era il primo principe del sangue, cioè la persona che avrebbe ereditato il trono di Francia se la dinastia dei Valois si fosse estinta. Il matrimonio non era un semplice accordo tra casate principesche. Esso costituiva il coronamento della politica di Carlo IX e di Caterina de’ Medici che da tempo lavoravano per porre termine alle guerre di religione apertesi in Francia dieci anni prima, nel 1562. Detto schematicamente, il tentativo era quello di affermare una relativa tolleranza religiosa e di ricondurre i due partiti confessionali armati, quello cattolico e quello ugonotto, dentro l’alveo di una comune fedeltà alla monarchia.
Dopo le fastose celebrazioni, avvenute in una Parigi ostile alla presenza dei nobili ugonotti con i loro seguiti armati, un evento improvviso – il secondo dei quattro avvenimenti a cui ho fatto riferimento – distrusse il sogno della pacificazione. La mattina del 22 agosto, mentre tornava al suo alloggio da una riunione al consiglio del re, il leader dei calvinisti francesi, l’ammiraglio Gaspard de Coligny, fu ferito da alcuni colpi di arma da fuoco sparati da una casa vicina. Per quanto non si sia mai accertato in maniera inequivocabile chi compì l’attentato, i sospetti si indirizzarono – probabilmente con ragione – verso Charles de Louviers, signore di Maurevert, un nobile cattolico vicino ai Guise, la principale casata aristocratica del partito cattolico. Non si è mai accertato se il tentato omicidio fu un’iniziativa personale o una vera e propria cospirazione, ma risultò immediatamente chiaro che il colpo proveniva da ambienti cattolici e ciò creò un’immediata mobilitazione dei calvinisti. Mentre Coligny rimaneva nella sua abitazione, dove fu visitato da Carlo IX e dai principali esponenti della corte, gli altri capi ugonotti si recarono più volte al palazzo reale, il Louvre, reclamando una immediata punizione dei responsabili e l’assunzione di misure contro i Guise e i capi del partito cattolico.
La mobilitazione degli ugonotti aprì una crisi politica che la monarchia non seppe gestire. Nel pomeriggio del 23 agosto il consiglio del re, l’organo politico che riuniva, insieme al sovrano, i suoi principali ministri, la regina madre, i fratelli del sovrano e alcuni grandi aristocratici, si riunì quasi in permanenza. In quella sede maturò la decisione di giustiziare Coligny e i principali capi protestanti, nella convinzione che, decapitato dei suoi leader, il partito ugonotto avrebbe dovuto rinunciare a assumere qualunque iniziativa politica e militare. Poiché le riunioni del consiglio non erano oggetto di resocontazione, è impossibile individuare con precisione come fu assunta la decisione, se, come molti contemporanei ritennero, essa derivò dalle pressioni della regina madre Caterina de’ Medici o da altri consiglieri. Certo è che Carlo IX aderì a questa impostazione, assumendosene tutte le responsabilità.
Arriviamo così al terzo evento: l’uccisione, nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1572, di Coligny e dei principali aristocratici ugonotti. Si trattò di una vera e propria operazione militare. Verso l’alba del 24 agosto una sessantina di cavalieri, guidati dal duca di Guise, investì l’abitazione di Coligny e lo uccise. Seguì una rapida caccia ai principali capi ugonotti, che furono rapidamente uccisi, tranne un gruppo che abitava sulla riva sinistra della Senna e che riuscì a mettersi in fuga. Contemporaneamente, alcune decine di calvinisti ospitati al Louvre furono uccisi dalle guardie del re.
Proprio in questa fase la situazione sfuggì di mano e quella che doveva essere un’operazione militare delimitata divenne un massacro generalizzato. L’ultimo e più drammatico evento della notte di San Bartolomeo fu proprio l’esplosione di una violenza diffusa e generalizzata, guidata dalle milizie cittadine e da gruppi di borghesi, che operarono al di fuori del controllo delle autorità cittadine e degli ufficiali della monarchia. Per circa due giorni Parigi fu percorsa da bande armate che massacrarono e depredarono famiglie, vecchi, donne e bambini, accanendosi con una ferocia che aveva molte cause: l’ostilità per la minoranza calvinista alimentata dai predicatori cattolici, gli strascichi di odio causati dalle guerre di religione, rancori e avidità di quartiere, faide familiari. In questa vera e propria apocalisse macabra perirono non meno di 3.000 persone. Solo al termine di alcuni giorni, e non senza sforzi, la monarchia riuscì a riprendere il controllo della situazione.
Come si giunse alla carneficina di quella notte?
Al di là della rapida dinamica degli avvenimenti (ferimento di Coligny – reazione della monarchia – mobilitazione del popolo parigino) la notte di San Bartolomeo può essere letta come l’esito ultimo, anche se non “obbligato”, di una serie di processi avviatisi nel decennio 1560/1570.
Infatti, a partire almeno dalla morte di Enrico II, nel 1559, in Francia la diffusione della riforma protestante nella sua variante calvinista portò alla formazione di due partiti confessionali armati, quello cattolico, maggioritario ma sulla difensiva, e quello calvinista (ugonotto), minoritario, ma che fino almeno alla strage di san Bartolomeo ebbe una forte carica espansiva.
I partiti vennero a un confronto militare aperto nei primi anni ’60, determinando uno stato di guerra continuo, aperto o latente. Dal 1560 al 1573 ci furono ben tre guerre di religione (dal 1562 al 1563; dal 1567 al 1568; dal 1568 al 1570), ovvero più di quattro anni di guerra aperta e nove di pace precaria. Finché i partiti religiosi non fossero stati costretti a disarmare, la spirale di violenza non poteva essere realisticamente fermata, anche perché trovava sponde e connivenze nelle autorità locali.
Rispetto a questi processi la monarchia assunse un atteggiamento ambivalente. Dopo aver cercato di reprimere il calvinismo, cercò di promuovere una relativa tolleranza, attraverso una serie di editti di pacificazione che concedevano ai calvinisti una limitata libertà di culto. Ne derivò una permanente oscillazione della politica reale tra la volontà di sradicare la presenza protestante, almeno nella sua dimensione pubblica, e l’accettazione del dualismo confessionale, almeno come strumento temporaneo per garantire la convivenza civile e, in prospettiva, una riconciliazione che sarebbe potuta avvenire nell’ambito di un più generale rinnovamento religioso.
I risultati furono però modesti. La tolleranza non era un principio universalmente condiviso. Era uno strumento adottato dalla monarchia e dai moderati per evitare il collasso, ma era vista tanto dai cattolici che dagli ugonotti come un qualcosa da usare strumentalmente per rafforzare le proprie posizioni in vista della resa dei conti finale.
Detto schematicamente, l’intreccio tra la mobilitazione religiosa e gli interessi politici dei grandi clan aristocratici produsse una miscela esplosiva di conflitti, che divenne ingovernabile. Dopo la fine, nel 1570, della terza guerra di religione, che si era caratterizzata per violenze diffuse e inaudite, la monarchia compì uno sforzo straordinario per imporre una generale pacificazione. Tra i molti strumenti utilizzati Carlo IX e Caterina de’ Medici diedero particolare importanza a quello matrimoniale. Le nozze tra Enrico di Borbone e Marguerite de Valois avrebbero dovuto costituire appunto il suggello di una rinnovata unità tra le famiglie nobili cattoliche e quelle riformate. L’approccio aveva almeno due elementi di debolezza. Era verticistico, si basava cioè sul presupposto che la pacificazione tra le grandi famiglie aristocratiche avrebbe comportato naturalmente la fine delle violenze. Sottovalutava inoltre il fatto che il partito cattolico e quello protestante non aspiravano tanto a un congelamento del conflitto religioso, quanto piuttosto a condizionare la politica della monarchia, anche spingendo la Francia a prendere posizione nel confronto europeo tra Stati cattolici e protestanti. Sarebbe probabilmente sbagliato affermare che la politica di pacificazione dovesse necessariamente fallire, tuttavia è indubbio che essa non riusciva a incidere in profondità sui conflitti aperti dalle guerre di religione: conflitti interni alle classi dirigenti cittadine e tra le grandi case aristocratiche ma anche, dopo dieci anni di guerre, conflitti diffusi tra i ceti borghesi e popolari, colpiti dalla crisi economica e mobilitati da una predicazione religiosa a sfondo millenaristico e apocalittico.
Quali erano le motivazioni politiche e religiose di questo evento apparentemente irrazionale?
Secondo me, l’elemento da cui occorre partire è che, nell’Europa del Cinquecento, non è possibile distinguere in maniera netta una sfera politica e una sfera religiosa, perché il potere politico partecipa sempre, sia in area cattolica che in area protestante, di un fondamento religioso. Dalla religione il potere non trae solo la legittimazione, ma anche in qualche modo la finalità ultima della propria azione e la capacità di ottenere l’obbedienza dei sudditi.
Con la riforma protestante le cose diventano molto complicate, soprattutto in quelle aree che non trovano una stabilità confessionale. La stabilità viene raggiunta o con il passaggio di un intero Paese alla riforma (come accade ad esempio nei Paesi scandinavi o in Scozia) o con il suo permanere nell’area cattolica (è il caso ad esempio della Spagna e dell’Italia). In altri Paesi la pluralità di confessioni religiosi determina una forte instabilità politica.
Così se in Inghilterra la monarchia liquida progressivamente, e non senza spargimento di sangue, l’aristocrazia e il clero che non passano alla riforma o all’anglicanesimo, e in Germania si determina un certo equilibrio tra principati cattolici e principati protestanti solo grazie alla rinuncia dell’imperatore a esercitare un reale potere sui vari principati in cui è diviso il Paese, la Francia precipita in una situazione di instabilità.
La crisi della Francia cinquecentesca non è semplicemente una crisi religiosa né semplicemente una crisi politica, ma una miscela di entrambi questi elementi.
La diffusione della riforma protestante e la costruzione di un partito politico-militare calvinista avvennero in un periodo, quello degli ultimi Valois, che fu un periodo di crisi politica, determinata dall’indebolimento della monarchia dopo l’improvvisa morte di Enrico II (1559), che lasciò il regno nelle mani di una reggente, Caterina de’ Medici, e dei giovanissimi figli, che si succedettero sul trono, morendo in giovane età. La dinastia dei Valois si estinse con la morte di Enrico III, nel 1589, e solo dopo una vera e propria guerra civile il calvinista Enrico IV sarebbe riuscito a ottenere il trono, dopo aver abiurato, e ad avviare la ricomposizione del Paese.
I problemi aperti alla morte di Enrico II erano gravi. Occorreva soprattutto gestire la pesante eredità del fallimento delle ambizioni espansionistiche che avevano guidato la politica francese sin dalla spedizione di Carlo VIII in Italia del 1494. La Francia aveva consumato in questo grande sogno imperiale enormi energie ideali, finanziarie e militari. Con la pace, le tensioni e le aspirazioni di potere della nobiltà rifluirono dunque all’interno, in un quadro politico sempre più incerto. Già all’indomani della morte di Enrico II cominciarono dunque a strutturarsi alcuni grandi partiti aristocratici, che inizialmente non erano caratterizzati in senso strettamente confessionale, ma che ben presto si misurarono su un terreno che era, insieme, politico e religioso.
Il primo obiettivo dei partiti aristocratici era quello di occupare posizioni importanti nel governo. La forza delle famiglie aristocratiche (e la loro fedeltà alla corona) dipendeva infatti dalle elargizioni di cariche e donativi, che consentivano ai clan di disporre di estese catene di fedeli e esercitare il potere nelle provincie. Già in passato il conflitto tra parti delle nobiltà aveva assunto le caratteristiche del confronto militare e della faida. Dopo che molte importanti famiglie aristocratiche, come i Borbone o gli Chatillon, passarono alla riforma religiosa il confronto divenne, per forza di cose, più aspro, perché ideologicamente più connotato.
Proprio la saldatura tra il conflitto politico sul tema del governo della Francia e il conflitto religioso, a mio parere, è all’origine della notte di San Bartolomeo. Questa infatti non fu né una semplice operazione militare né un’esplosione irrazionale di violenza popolare, ma, in qualche modo comprese entrambi gli aspetti.
A questo primo elemento ne va aggiunto almeno un altro: la crescente diffusione, nei ceti borghesi e popolari, di una violenza religiosa a sfondo apocalittico che aveva diverse ragioni, ma che era sicuramente rafforzata dal continuo stato di guerra e crisi economica. La diffusione della violenza, conseguenza dell’incapacità di trovare una risposta politica al problema della convivenza tra due partiti politico-religiosi armati, costituisce il retroterra, per così dire, “sociale” che spiega gli eventi della notte di San Bartolomeo. Durante le guerre di religione la mobilitazione delle masse fu crescente e produsse effetti molto pesanti sulle mentalità collettive, perché l’obbedienza ai voleri divini fu posta come imperativo assoluto rispetto a qualunque dovere politico, sociale e familiare.
Anche se gli agitatori religiosi non riuscirono a rompere il reticolo di solidarietà che caratterizzava la Francia del Cinquecento, lo misero in tensione e, in alcuni casi, lo slabbrarono.
Potremmo, in conclusione, dire che dietro alla strage di San Bartolomeo stanno questi due elementi: un conflitto politico-religioso intorno al governo della Francia e la crescita di una violenza diffusa e spesso irrazionale nei principali centri urbani.
Non caso, entrambi gli elementi si ritrovano nella vicenda della notte di San Bartolomeo. C’è, da un lato, un’iniziativa politica del re e del governo e, dall’altro, una mobilitazione popolare che covava da diversi anni e che si indirizzava contro gli ugonotti sia in quanto eretici sia in quanto nel corso delle guerre di religione i loro eserciti avevano più volte minacciato Parigi, tagliandone i rifornimenti.
Chi furono i protagonisti di questa triste vicenda?
Forse il termine protagonisti non è il più appropriato, perché la dinamica degli eventi non sembra dipendere da una regia unica o da poche persone, ma appare piuttosto la risultante dell’azione di numerose forze che da tempo si misuravano, con alterne vicende: la monarchia, le grandi case aristocratiche – divise tra di loro da fratture politiche e religiose –, la popolazione parigina, il clero cattolico e i ministri calvinisti, le altre potenze come la Spagna e il papato.
Si può dire che ci furono almeno quattro nuclei da tenere presente.
Il primo è quello dei grandi aristocratici e dei capi militari dei calvinisti francesi. Questi appaiono, in questa vicenda, singolarmente deboli. Giunti a Parigi sull’onda di una fiduciosa aspettativa di vedere definitivamente riconosciuto il loro ruolo e di poter efficacemente condizionare la politica estera francese, gli ugonotti furono completamente spiazzati dall’attentato a Coligny. Prima reagirono reclamando un cambio di direzione politica della monarchia, cioè in concreto pretesero che il re Carlo IX si liberasse da ogni compromissione con i capi del partito cattolico, accusati – forse non del tutto a torto – di aver progettato l’attentato a Coligny. Poi furono colti completamente di sorpresa dalla decisione della monarchia di eliminare i capi calvinisti e non riuscirono a organizzare alcuna resistenza di fronte all’esplosione delle violenze popolari.
Il secondo nucleo è il re Carlo IX di Francia e il suo relativamente ristretto gruppo di consiglieri, tra i quali si segnalava innanzi tutto la regina madre Caterina de’ Medici. Carlo IX era un re giovane – aveva ventidue anni – e malato. È stato tradizionalmente descritto come una personalità debole, manipolata da Caterina de’ Medici e dal partito cattolico, ma questa immagine riduttiva è stata da tempo superata dagli studi, in particolare quelli di Denis Crouzet. Carlo IX si trovava a operare in una situazione di estrema debolezza, finanziaria e militare, ma, tra il 1570 e il 1572, si impegnò con straordinaria energia per affermare la centralità del potere sovrano e garantire una pacificazione tra cattolici e protestanti. L’attentato a Coligny costituì per il sovrano e per la sua politica una gravissima sconfitta. Posto di fronte a una crisi potenzialmente dirompente, Carlo IX riunì più volte i suoi collaboratori e, dopo una serie di colloqui sui quali non possediamo testimonianze affidabili, decise di procedere all’esecuzione di Coligny e dei principali capi protestanti, probabilmente sottovalutando le reazioni della popolazione cattolica parigina. Il sovrano sopravvisse meno di due anni alla strage. Morì il 30 maggio 1574, consumato dalla tubercolosi polmonare.
Un terzo nucleo da tenere presente è il “partito cattolico”, inteso come forza organizzata che, in varia maniera, faceva capo ad alcune grandi famiglie aristocratiche, in particolare quella dei Guise, una casata di origine lorenese che durante tutta la seconda metà del Cinquecento assunse un ruolo di guida militare delle forze cattoliche, finendo per scontrarsi con la stessa monarchia.
I Guise e i loro aderenti avevano giocato un ruolo importante nel governo della Francia nel corso delle prime tre guerre di religione e si erano trovati in una condizione di relativo isolamento dopo che, dal 1570, Carlo IX aveva intrapreso la strada di una pacificazione tra cattolici e protestanti. Al momento delle nozze tra Enrico di Borbone e Marguerite de Valois, i Guise mantennero un atteggiamento riservato e ostile. L’attentato a Coligny era sicuramente riconducibile a personaggi legati ai Guise che, del resto, erano da tempo contrapposti a Coligny e alla sua famiglia da una vera e propria faida nobiliare. Prima che Carlo IX assumesse la decisione di liquidare i capi protestanti, la posizione dei Guise era quindi estremamente precaria: da più parti si reclamava la loro cacciata dalla corte e la loro imputazione. La situazione si capovolse nel pomeriggio del 23 agosto 1572. Anche se non ci sono prove di una loro forte partecipazione ai processi decisionali, è certo che proprio il duca Enrico di Guise ricevette l’incarico di procedere all’esecuzione di Coligny e di dare il via alla caccia dei capi protestanti. L’operazione fu compiuta rapidamente. Poi ci fu un nuovo colpo di scena. Guise e i suoi uomini, circa quattro o cinquecento percorsero la città, agendo come detonatore della strage ma abbandonarono presto Parigi, gettandosi – per alcune decine di chilometri – all’inseguimento degli ugonotti del Faubourg Saint-Germain che si erano messi in fuga. Non è chiaro se si trattò di un errore di valutazione oppure se il duca di Guise decise consapevolmente di lasciare Parigi per evitare di essere usato dalla monarchia come capro espiatorio. Certo è che l’assenza del duca di Guise, forse l’unica figura in grado di imporre la sua autorità alle bande militari parigine, creò le condizioni perché il massacro degli ugonotti si svolgesse in maniera sostanzialmente incontrollata.
L’ultimo protagonista della notte di San Bartolomeo è senza dubbio il popolo parigino. È proprio l’azione delle bande armate popolari che trasformò l’operazione militare decisa da Carlo IX in un massacro generalizzato. In un contesto di vuoto di potere, l’iniziativa fu assunta da spezzoni della milizia civica e da semplici borghesi, che da tempo erano stati mobilitati dall’aggressiva predicazione di una serie di religiosi cattolici. La rapidità con cui le violenze esplosero prese di sorpresa le autorità, ma era da tempo che Parigi, la più grande città dell’Europa dell’epoca, si era trasformata in una polveriera. Come ha dimostrato una studiosa statunitense, Barbara Diefendorf, sin dalla fine degli anni ’50 del Cinquecento la situazione di Parigi era in progressivo degrado. Tra il 1560 e il 1563 le condizioni dell’ordine pubblico erano progressivamente peggiorate a causa dell’esplodere delle tensioni religiose. In seguito, tra il 1563 e il 1567 si erano determinate una serie di crisi di sussistenza, che determinarono un drammatico aumento dei prezzi del grano e di altri generi di prima necessità. Dal 1567 al 1572 l’intensificazione del conflitto religioso aveva raggiunto il suo culmine, con diffuse uccisioni di calvinisti, ma anche sollevazioni contro categorie come i mercanti italiani, accusati di arricchirsi alle spalle del popolo e di praticare forme di ateismo o stregoneria. Con la notte di San Bartolomeo gruppi di borghesi mobilitati militarmente assunsero di fatto il controllo della città, debolmente presidiata dalle truppe regie. La stessa cosa sarebbe successa anche in seguito, nel 1588-1589, quando Parigi costrinse alla fuga il re Enrico III, accusato di praticare una politica di tolleranza religiosa.
Quale importanza riveste la notte di San Bartolomeo nella storia dell’Europa del Cinquecento e nell’affermazione dell’assolutismo politico?
La notte di San Bartolomeo è un evento per molti versi sfuggente.
Per l’entità del massacro e l’eco che ebbe in tutta Europa è un evento eccezionale, anche se non bisogna dimenticare che, nel periodo della riforma protestante, non mancarono stragi causate da motivazioni che erano insieme politiche e religiose, come quelle avvenute in Germania nel corso della guerra dei contadini o nella riconquista della città di Münster, dove gli anabattisti avevano fondato una sorta di repubblica teocratica.
Negli anni immediatamente successivi alla strage, non sembrò che questa avesse prodotto conseguenze definitive. Non assicurò la vittoria del partito cattolico su quello protestante, non pose fine alle guerre di religione francesi, che durarono ancora per più di venti anni, non modificò in maniera decisiva le scelte di politica estera della Francia, che, anche dopo la strage, rifiutò di legarsi al progetto di “riconquista cattolica” perseguito dalla Spagna e dalla Santa Sede.
Analizzando l’evento in una prospettiva di lungo periodo – come ho cercato di fare nel mio libro – la notte di San Bartolomeo appare però un evento centrale nella costruzione di un peculiare rapporto tra politica e religione che ha caratterizzato la storia della Francia e, più in generale, dell’Europa.
Fino al 1572 la monarchia francese aveva cercato di rispondere allo stato di guerra religiosa, aperta o latente, alternando provvedimenti di tolleranza del calvinismo a editti proibitivi. La prospettiva era ancora quella di riassorbire il dissenso religioso dentro una complessiva riforma guidata dalla monarchia, prospettiva che, dopo il concilio di Trento, divenne inattuale. Proprio a partire dall’esperienza delle guerre di religione e da un evento abnorme come la strage di san Bartolomeo si sviluppò una prospettiva politica diversa, quella di una monarchia tendenzialmente assolutista, capace di assorbire il dualismo confessionale dentro la comune obbedienza allo Stato.
Per diversi anni questa prospettiva non riuscì a realizzarsi. Anzi, nel corso degli anni ’80 del Cinquecento la stessa monarchia dei Valois fu travolta dal conflitto religioso, con l’assassinio del re Enrico III ad opera di un fanatico cattolico. Solo dopo la conclusione delle guerre di religione, con la vittoria politica e militare di Enrico di Borbone sulle forze della Lega cattolica, si poté giungere all’editto di Nantes (1598). Questo riconobbe una generale libertà di coscienza e una libertà di culto nei luoghi in cui esistevano, alla data 1597, comunità protestanti. Di fatto, l’editto recepiva le posizioni di quel partito moderato che da molti anni aveva cercato di superare la logica della contrapposizione tra partiti religiosi nel nome di una fedeltà allo Stato e alle tradizioni autonomiste della Chiesa francese. Anche se l’editto di Nantes fu revocato da Luigi XIV nel 1685, esso costituì una tappa fondamentale nel processo di dissociazione tra Stato e religione, che è un asse centrale della storia europea. La monarchia che, all’epoca della notte di San Bartolomeo, era apparsa in balia degli eventi riuscì dunque ad affermarsi come principio di una razionalità politica sovraordinata. La fine delle guerre di religione produsse così un esito per molti versi paradossale, o comunque assai distante da quello per cui cattolici e ugonotti avevano combattuto: una monarchia autoritaria in un contesto di dualismo confessionale, che avviò la costruzione di uno Stato in grado di assorbire le differenze religiose. Nel lungo periodo, ciò favorì la deconfessionalizzazione dello Stato e il riflusso della religione nella sfera privata, che è un elemento originale del modello di Stato che caratterizza l’Europa.