
Come si giunse alla firma degli Accordi?
I colloqui esplorativi segreti si aprirono nell’ottobre del 1968, all’indomani dell’intervento militare dell’Unione sovietica in Cecoslovacchia (agosto 1968). Fu questa circostanza a suscitare il timore delle diplomazie occidentali – e tra queste quella italiana – che l’Unione sovietica potesse estendere la propria azione nei confronti dell’“eretica” Jugoslavia. Il volume evidenzia il fatto che fu la diplomazia italiana – e non la leadership politica – a proporre alla Jugoslavia di avviare i colloqui esplorativi tra i due paesi sulla questione di confine, per rafforzare il confine italiano e rendere maggiormente solida la partnership politica con Belgrado. L’iniziativa provenne infatti da Folco Trabalza, allora ambasciatore italiano nella capitale jugoslava. Quest’ultimo era convinto che gli interessi italiani nei Balcani potessero essere meglio difesi tramite una politica di riavvicinamento alla Jugoslavia che comportasse il superamento del “fardello” rappresentato dalla questione di confine. Egli persuase di ciò Giuseppe Medici, anziano esponente democristiano a digiuno di politica estera, il quale si era ritrovato a guidare la Farnesina nell’ambito di un governo “balneare” retto da Giovanni Leone. Con un ristrettissimo gruppo di diplomatici, Trabalza redasse un documento basato su 18 punti che costituì la base per le trattative. I successivi governi italiani accettarono l’impostazione proposta dai vertici della Farnesina, impegnandosi nel proseguimento dei colloqui esplorativi segreti. Da parte sua, il governo jugoslavo guardò con favore all’iniziativa italiana, rispettando la volontà italiana di mantenere i colloqui segreti. I contatti tra le parti si prolungarono fino all’autunno del 1974, quando una crisi diplomatica tra i due paesi convinse le due parti ad accelerare le trattative. Roma e Belgrado nominarono due ministri plenipotenziari che condussero speditamente le trattative bilaterali: da parte italiana il funzionario del ministero dell’industria Eugenio Carbone e, da parte, Jugoslava, Boris Šnuderl, membro del governo federale. Il volume evidenzia come entrambe le personalità fossero esperte del tema di confine e delle questioni bilaterali pendenti, avendo guidato la commissione mista per la cooperazione economica tra i due paesi sin dalla metà degli anni Sessanta. Inoltre, Carbone seguiva una linea diplomatica dettata dalla Farnesina e appoggiata dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano. É tuttavia importante sottolineare un punto di indubbio rilievo, che il libro pone in primo piano: il clou delle trattative guidate da Carbone si svolse in un effettivo momento di vuoto politico, ovvero tra le dimissioni del quinto governo Rumor e la costituzione del quarto governo Moro (ottobre-novembre 1974): quasi due mesi di vuoto governativo nei quali la trattativa, di fatto, fu conclusa. Ciò evidenzia il ruolo fondamentale giocato dalle élites tecniche e diplomatiche italiane. La formalizzazione dell’intesa sarebbe avvenuta solo un anno più tardi, in ragione della decisione della leadership democristiana di non influenzare negativamente le elezioni regionali della primavera 1975.
Quali risvolti internazionali accompagnarono le trattative?
In genere, i trattati di Osimo sono stati contestualizzati dalla storiografia nel clima di distensione internazionale che caratterizzò gli anni Settanta. Il libro dimostra tuttavia che tale interpretazione debba essere riconsiderata. Il dialogo italo-jugoslavo si sviluppò non grazie, ma nonostante la distensione così come essa si articolò nel bacino mediterraneo. Il confronto bipolare in tale area infatti non si arrestò: Italia e Jugoslavia erano parte dello stesso “sea of confusion” – segnato dalla penetrazione navale sovietica, dal conflitto mediorientale, dal mutamento dei regimi in Nord Africa, dalla crisi delle dittature in Grecia e Portogallo – che contribuì a esasperare i toni bilaterali e ad alimentare i sospetti reciproci che dietro a Italia e Jugoslavia si nascondessero gli interessi di Washington e Mosca. Per quanto riguarda la Conferenza di Helsinki sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa, conclusa nell’agosto del 1975 e considerata – a ragione – l’apice della distensione in Europa – essa fu principalmente motivo di scontro tra le parti riguardo alla questione di confine. Lo “spirito” di Helsinki fu usato solo come strumento da utilizzare nei confronti dell’opinione pubblica e della stampa nazionale nell’estate del 1975, quando l’accordo tra i due paesi era stato già negoziato e siglato. Vi è tuttavia un ulteriore elemento preso in considerazione nel libro, ovvero l’influenza di Washington nelle trattative. Dai documenti diplomatici analizzati emerge il fatto che gli Stati Uniti e le maggiori potenze occidentali, pur interessate alla positiva conclusione della questione di confine, si astennero da un’influenza diretta sui due governi. Di fatto, i trattati di Osimo furono un’intesa strettamente bilaterale, condotta segretamente in un contesto internazionale complicato ed incerto.
Quali concessioni reciproche dovettero fare i due contendenti?
Più che di concessioni, ritengo che sia opportuno parlare di un insieme di intese bilaterali che mirarono a regolare il confine di stato e – in un’ottica programmatica più che puntuale – il diritto di trasferimento delle minoranze italiane e jugoslave interessate dai mutamenti territoriali; la questione dell’indennizzo globale e forfettario dei beni, diritti ed interessi delle persone fisiche e giuridiche italiane situate nella ex zona B; i diritti di protezione sociale e pensionistica. L’accordo prevedeva inoltre il rafforzamento della cooperazione economica come volano per la cooperazione politica. Venne prevista la costituzione di una zona industriale franca transfrontaliera i cui caratteri erano tuttavia affidati a successive intese tra i due paesi. Nel complesso, ed è quello che il libro mira ad evidenziare, l’intesa fu di carattere programmatico. Seppur imperfetta e perfettibile, essa diede un’indicazione di carattere politico al futuro dei rapporti tra i due paesi. È bene evidenziare che molti dei principi sanciti ad Osimo rimasero disattesi negli anni successivi. Ciò non deve tuttavia indurre a sottostimare gli obiettivi politici raggiunti nel 1975.
Nel libro, Lei definisce quello di Osimo un «accordo tra due debolezze»: cosa significa?
Tradizionalmente, gli accordi di Osimo sono stati visti come un accordo asimmetrico tra un partner forte – l’Italia – ed un partner debole – la Jugoslavia. Ciò ha alimentato l’immagine di un trattato frutto di un negoziato malamente condotto dalla parte italiana, incapace di ottenere contropartite e disposta a “svendere” la propria sovranità sulla zona B. Il libro evidenzia invece come Italia e Jugoslavia fossero di fatto caratterizzate da analoghe situazioni di debolezza interna. Se l’Italia era preoccupata per il destino della Jugoslavia, la Jugoslavia – come dimostrano le analisi della diplomazia di Belgrado ampiamente citate nel volume – era preoccupata per il destino politico della penisola italiana. Il volume offre dunque un parallelismo tra due paesi in forte crisi interna, che trovarono nelle situazioni di rispettiva debolezza un fattore di convergenza, di fatto sancito ad Osimo nel 1975. L’immagine che – mi auspico – ricaverà il lettore, è quella evocata nel titolo del volume: due paesi allo specchio.