
La Cina ormai risorta accetta molti degli insegnamenti occidentali in campo economico, ma rigetta quelli politici. Nel partito comunista la Cina ha un modello (moderno) per il suo (antico) sistema di sovranità imperiale e di burocrazia meritocratica. Il Partito è l’Imperatore che controlla tutto. La combinazione del Partito-Imperatore con un’economia di mercato ha un nome: Capitalismo politico. Quest’ultimo possiamo classificarlo come un’ulteriore forma del capitalismo.
Il comunismo è (stato) un sistema sociale che ha permesso alle società arretrate e colonizzate di abolire il feudalesimo, riguadagnare l’indipendenza politica ed economica, e costruire un capitalismo indigeno. La differenza fra la Cina e l’Unione Sovietica è che quest’ultima non riuscì negli anni Cinquanta, a differenza della Cina negli anni Ottanta, a legarsi allo sviluppo economico occidentale. Come conseguenza, è arrivata al capitalismo solo negli anni Novanta – quello degli oligarchi, ma solo dopo la caduta dell’economia di piano.
Potrà il capitalismo politico funzionare? Una risposta positiva potrebbe essere che questo sistema non solo si adatta alle tradizioni cinesi, ma anche che quei burocrati sono capaci. Una prima risposta negativa potrebbe essere che il partito è al di sopra della legge, ciò che rende il potere senza legge. Una seconda risposta negativa, che è poi un’estensione della prima, è che la corruzione è insita in un sistema privo di controlli dal basso. Altrimenti detto, che la corruzione è endemica al capitalismo politico. Qualsiasi sistema che richiede un processo decisionale discrezionale finisce con il presentare una corruzione endemica.
Il problema della corruzione, dal punto di vista dell’élite, è che questa tende a minare l’integrità della burocrazia e la capacità di condurre politiche economiche che producano un’alta crescita. Il rischio è allora che il patto sociale del capitalismo politico venga messo in discussione. La popolazione può tollerare la mancanza di voce fintanto che l’élite offre miglioramenti tangibili negli standard di vita, fornisce un’amministrazione tollerabile della giustizia, e non consente delle disparità troppo evidenti. Ma, se la corruzione va oltre, quel patto non regge più.
Quali vicende hanno segnato l’evoluzione del capitalismo occidentale?
Il perseguimento della piena occupazione aveva negli anni Sessanta e Settanta spinto all’incremento del costo del lavoro che le imprese scaricavano sui prezzi. Si aveva, infatti, una crescita salariale maggiore della crescita della produttività. La maggiore inflazione che scaturiva, era non solo elevata, ma anche difficile da prevedere. Si avevano così l’inflazione e la stagnazione, che erano allora combinate nell’espressione stagflazione.
La pietra d’inciampo del capitalismo ottocentesco fu la crisi degli anni Trenta, quella del capitalismo interventista fu la stagflazione degli anni Settanta combinata con dei gran debiti pubblici. La reazione ai limiti del capitalismo interventista si sono perciò manifestati negli anni Settanta.
Dagli anni Ottanta vi è stata la sostituzione dell’obiettivo della piena occupazione con quello della stabilità dei prezzi. La stabilità dei prezzi – questa era l’idea, riducendo l’incertezza, avrebbe fatto ripartire gli investimenti e, come conseguenza, l’economia tutta. L’espressione che si usava era trickle-down. Le imprese investono, la quota dei profitti aumenta nell’immediato, ma, alla lunga, con la crescita, salgono anche i salari. Funzionale al perseguimento della stabilità dei prezzi era la liberalizzazione finanziaria e la globalizzazione della produzione. I capitali liberi di muoversi, vale a dire non catturati dal potere politico, potevano essere impiegati dove si aveva una maggiore efficienza. La produzione distribuita nel mondo secondo la specialità produttiva dei diversi Paesi avrebbe ampliato la platea della crescita e abbattuto i prezzi di molti beni.
Quando il capitalismo post interventista, o neo-liberale, fu concepito si pensava che i mercati finanziari avrebbero svolto un ruolo di promozione della disciplina. Disciplina nei confronti dei governi, perché il debito pubblico non sarebbe stato più acquistato per motivazioni politiche, come avveniva quando le banche centrali compravano le obbligazioni dei tesori non comprate dai privati, e auto-disciplina dei mercati finanziari e creditizi. L’esperienza successiva, soprattutto la crisi del 2008, ha mostrato i limiti della virtù della disciplina accreditata ai mercati finanziari. L’esperienza è stata, invece, quella delle bolle in campo azionario, e dei prodotti finanziari non trasparenti come i mutui sub-prime.
Nel capitalismo neo-liberale, l’individuo, e non più la dinamica fra le classi sociali, è al centro della costruzione. E poi è arrivato il Corona virus.
La combinazione di spesa dei Tesori e di costo del debito compresso consente di finanziare gli enormi programmi di stimolo fiscale volti a contrastare la crisi che trae origine dal Corona virus. Le banche centrali possono continuare a finanziare i governi finché l’inflazione rimane bassa o nulla, perché un suo rialzo spingerebbe i tassi al rialzo, ciò che renderebbe il debito pubblico – di suo cresciuto verso livelli che si sono visti solo con le guerre mondiali, molto costoso e quindi il suo finanziamento molto poco agevole.
Ormai tutti (o quasi) gli osservatori nei Paesi dove prevale l’Ordine liberale, sono a favore dell’intervento pubblico nel combattere il Corona virus. Lo scopo di queste azioni è il salvataggio delle imprese e la distribuzione di un reddito a chi ne ha necessità. Questo intervento sarà temporaneo? L’esperienza storica mostra che, una volta che l’intervento pubblico si sia materializzato, specie se questo avviene in seguito a un evento grave come una guerra, o, come sta avvenendo oggi, per una pandemia, alla fine rientra, ma dopo molto tempo. Si ha questo andamento, perché si formano delle forze politiche, economiche, sociali che trattengono l’intervento pubblico sul maggior livello raggiunto.
Quali prospettive per la democrazia nei Paesi autocratici?
A seguito della caduta dell’Unione Sovietica si è imposto prima un regime di oligarchie economiche e poi un regime politico autoritario. Dall’eredità industriale sovietica, centrata soprattutto sullo sfruttamento delle risorse naturali, è sorta una classe di proprietari per i quali è cruciale l’acquisizione di posizioni pubbliche per garantire l’estrazione delle rendite. Lo sviluppo economico basato sui livelli alti di istruzione, sulla fondazione di nuove imprese, e sui mercati finanziari trasparenti è qualcosa di estraneo a questa élite. Diventa così difficile intraprendere un percorso verso la modernità.
Cruciale quindi è comprendere il passaggio verso un sistema di autocrazia con caratteristiche nuove. Ciò che non accaduto solo in Russia. Putin, Chávez, ed Erdogan hanno smantellato la democrazia con un passo lento. Sono arrivati al governo con le elezioni. Poi hanno usato lo scontento diffuso per ridurre i vincoli al proprio potere. Lo schema è stato quello di imporre i propri uomini nel sistema giudiziario, nella sicurezza, intanto che si neutralizzava il sistema mediatico. Così non si è avuto un attacco visibile alla democrazia, ma un attacco occulto che ha portato all’autocrazia. Va notato che all’autocrazia sono arrivati con un lavorio entro le istituzioni. Va anche notato che al potere non è andato un partito – come nel modello comunista – o un corpo militare – come con il golpismo classico – ma una personalità – un uomo forte.
Le caratteristiche di questi sistemi autoritari ruotanti intorno ad un uomo forte sono: 1) un cerchio magico di fedeli. 2) la creazione di un partito personale. 3) con la narrazione che li giustifica che si articola così: grazie ai poteri straordinari di cui dispone l’autocrate si possono risolvere i problemi del paese; il quale ultimo è finito dove è finito per l’incompetenza e la corruzione delle élite che si va a sostituire. 4) gli esperti non vanno creduti, mentre va creduto il rapporto pneumatico fra il duce (che sa che cosa si deve fare) e il suo popolo (che gli crede); chi dissente (esistendo una sola verità, che è rivelata, quindi non sottoposta a dimostrazione) è per conseguenza un nemico del popolo.
A differenza dei regimi dittatoriali degli anni Trenta quelli autocratici di oggi non spingono alla mobilizzazione delle masse, perché le preferiscono acquiescenti. I sistemi di propaganda degli anni Trenta come la radio aiutavano la diffusione di pochi messaggi che mobilitavano, mentre i media oggi disperdono i messaggi e quindi a creano una sorta di passività (rancorosa).
Giorgio Arfaras dal 1982 al 2007 ha lavorato nell’industria e nella finanza: alla Pirelli – ufficio studi, direzione strategie, segreteria della presidenza e direzione finanziaria; alla Prime, una società finanziaria della Fiat e poi alle Generali, come analista sui titoli italiani ed europei e poi come gestore; al Credit Suisse come gestore. Nel 2008 ha scritto Il grand’ammiraglio Zheng He e l’economia globale edito da Guerini. Dal 2009 scrive, insieme ad altri, il Rapporto sull’economia globale e l’Italia edito da Guerini per il Centro Einaudi di Torino. Dal 2009 e fino al 2020 ha diretto la Lettera Economica del Centro Einaudi. Collabora a giornali, riviste, e televisioni.