
di Federicomaria Muccioli
Mimesis Edizioni
Plutarco è uno «scrittore dall’erudizione impressionante, tanto da essere definito o un prolifico Pico della Mirandola dell’antichità, oppure il maître à penser di Cheronea, è un autore che, per la poliedricità dei suoi interessi, si presta a molteplici livelli di lettura e di indagine critica».
«Le Vite parallele di Plutarco abitualmente vengono considerate come un punto importante, se non fondamentale, nel lungo cammino della biografia antica, non solo greca. La scelta di abbinare la vita di un Greco a quella di un Romano, tranne l’eccezione di Artaserse II e di Arato, viene giustamente intesa nella sua portata rivoluzionaria all’interno del genere.» Esse «sono un tentativo, sia pure sui generis, di spiegare la storia greca e latina attraverso i protagonisti considerati più significativi, ovvero attraverso il loro percorso etico, prima ancora che politico e culturale […]. Non sappiamo con esattezza quale fosse il programma di Plutarco nel redigere le Vite parallele, giacché questo era probabilmente contenuto nella coppia Epaminonda-Scipione, andata perduta.»
La rilevanza storiografica dell’intera sua opera è inoltre data dal fatto «gli storici citati da Plutarco siano numerosi, alcuni dei quali altrimenti pressoché sconosciuti se non possedessimo i frammenti tràditi dallo scrittore di Cheronea. È una quantità di citazioni forse solo equiparabile, nell’antichità, a quella contenuta nei Deipnosofisti di Ateneo, per non parlare poi anche delle frequentissime citazioni letterarie.»
A Plutarco la critica ha contestato una «non approfondita conoscenza della lingua latina», corroborata dalla sua stessa ammissione nei «due capitoli iniziali della Vita di Demostene, che peraltro non è un unicum nelle biografie». In effetti nei suoi scritti sono «presenti e ben documentabili diversi fraintendimenti, errori e alterazioni nell’uso delle fonti latine, a cui peraltro Plutarco ricorre diffusamente, nonché un certo impaccio o approssimazione soprattutto nella resa di termini politico-istituzionali. Queste incertezze di ordine linguistico (peraltro comuni a molti storici di lingua greca) si accompagnano ad una innegabile difficoltà nel leggere in modo lucidamente critico le dinamiche politiche romane, senza sottrarsi ad una più o meno scoperta assimilazione e sovrapposizione con le realtà greche […]. In altri termini, Plutarco non è Polibio e interpreta la storia romana e i suoi protagonisti tenendo conto di categorie politiche greche e luoghi comuni consolidati».
«Il sostanziale misunderstanding plutarcheo nei confronti dell’altro è confermato dalla scarsa attenzione nei confronti dell’India, anche dal punto di vista strettamente etnografico. La regione conosceva un certo successo fin dall’epoca delle conquiste di Alessandro Magno e di ciò vi adeguato riflesso nei passi relativi al Macedone, sia nella Vita sia nel De Alexandri Magni fortuna aut virtute. Numerosi sono nella letteratura greca gli esempi di Indiká, il più noto dei quali è forse quello di Megastene, autore appena citato nel Corpus Plutarcheum. […] Se è pur vero che l’India è messa in rapporto con Dioniso e con l’introduzione del vino in Grecia, vi è inoltre il misconoscimento di una figura basilare della storia della grecità orientale come Menandro, il noto re indo-greco protagonista dei Milindapañha, testo fondante del Buddismo. Costui è definito soltanto «un certo Menandro», a sottolineare tutta la distanza culturale, prima ancora che geografica, che separava lo scrittore di Cheronea da una realtà come quella della grecità asiatica. Pur in considerazione di questo scarso interesse, risulta comunque singolarmente significativo che Plutarco, certo del tutto meccanicamente, abbia raccolto una versione antitetica a quella buddista e sostanzialmente più attendibile. Se per la tradizione indiana il sovrano si sarebbe convertito al Buddismo e avrebbe abbandonato la vita terrena, abdicando in favore del figlio, dai Praecepta invece sappiamo che costui morì nel corso di una spedizione militare e le città gli resero in comune onori funebri; successivamente vennero a contrasto e se ne contesero le ceneri e ognuna eresse un monumento in onore del sovrano.»
«La posizione di Plutarco […] è senz’altro simile o omologabile a quella della classe dirigente greca delle città, tra età repubblicana ed età imperiale. Una classe dirigente che esaltava i Romani definendoli ‘comuni benefattori’ (koinoi euergetai) fin dall’età repubblicana […]. Una posizione che Plutarco condivide, senza peraltro enfatizzarla e senza istituire un esplicito confronto con dominazioni precedenti, a differenza di altri autori greci (portati a confrontare la dominazione macedone con quella romana, a tutto vantaggio della seconda). Vi è in lui anzi un certo realismo, in diverse sue opere, laddove afferma e poi ribadisce, probabilmente anche a distanza di anni, che il dominio romano ha portato alla Grecia pace e tranquillità, eliminando ogni altra sciagura. Una situazione che riflette, evidentemente, soprattutto la rinnovata concordia all’interno dell’impero a partire dall’età traianea […] In questo senso può essere senz’altro definito un Greco riconoscente a Roma, certo non entusiasta ma comunque convinto.»