
Come si articola il pensiero michelstaedteriano?
Quello di Michelstaedter è un pensiero non dialettico, influenzato da Arthur Schopenhauer, di cui Carlo legge già negli anni liceali Il mondo come volontà e rappresentazione, ma che poi trova la sua forma definitiva attraverso un’originalissima interpretazione del pensiero greco, di Platone, Aristotele e dei Presocratici, soprattutto Parmenide: ne La persuasione e la rettorica si contrappongono in modo irriducibile due vie, quella della verità, detta appunto persuasione, e quella della distorsione progressiva e ineluttabile che l’Occidente ha messo in atto nei confronti di questa verità al fine di garantire la propria conservazione e continuazione, la retorica; persuasione e retorica non sono due categorie astratte, ma divengono per Michelstaedter due modi di porsi concretamente di fronte all’esistenza, perché l’aspetto fondamentale e sempre presente in tutta la sua opera è l’esigenza individuale di realizzare nella vita l’unità di teoria e pratica, il calare il pensiero in un’etica che lo rispecchi senza compromessi o, per usare un’espressione molto cara al Nostro, il farsi carne del Verbo.
Che legame sviluppò Michelstaedter con la tradizione e la Grecità?
La filosofia michelstaedteriana scaturisce da un vero e proprio faccia a faccia con l’opera di Parmenide, che per primo, nel suo poema Sulla natura, associa i concetti di Verità (Alètheia) e Persuasione (Peithò); nell’interpretazione di Carlo la persuasione di cui parla Parmenide è il valore più alto che l’uomo possa perseguire, la più compiuta identità di pensiero e azione, di teoria e prassi; tale valore è ancora presente nell’opera del giovane Platone (in particolare nel Gorgia, dialogo prediletto da Michelstaedter ed ipotesto a La persuasione e la rettorica), ma si è ormai irrimediabilmente perduto negli ultimi dialoghi dell’ateniese, che anticipano l’avvento del pensiero aristotelico. I modelli dell’uomo persuaso sono Socrate e Cristo: entrambi, con la morte, danno un significato più profondo e autentico al proprio pensiero e alla propria vita. È questo il modo in cui Carlo Michelstaedter, ebreo goriziano, trova il suo spazio nella filosofia del Novecento, anticipando posizioni ermeneutiche che in Italia avrebbero avuto diffusione solo sessant’anni dopo la sua morte.
Quale influenza ebbe su Michelstaedter l’ambiente fiorentino d’inizio Novecento?
Firenze è stata determinante, prima di tutto come scelta identitaria. Nel 1905 Carlo volle con tutto se stesso trasferirsi nel capoluogo fiorentino, rinunciando all’idea, caldeggiata dalla famiglia, di frequentare la facoltà di Matematica a Vienna: a Firenze il giovane goriziano avrebbe voluto fare l’artista e vivere d’arte, di disegno e pittura, poi qualcosa andò storto in questo senso, e così decise per l’università, che all’inizio fu soltanto un ripiego. Carlo si iscrisse al RIIS, e per i successivi quattro anni avrebbe vissuto a Firenze, frequentando le lezioni del Regio Istituto, ma vivendo anche molte altre esperienze offerte dalla città, che era in quegli anni un crocevia di idee in fermento, ricca di mostre, spettacoli teatrali e riviste, basti pensare alle due che nascono proprio nel periodo che Michelstaedter vi trascorre , il Leonardo e La Voce, animate entrambe da Giovanni Papini, che tra l’altro fu l’autore del necrologio di Carlo.
Che relazione esiste tra la sua tesi di laurea, La persuasione e la rettorica, e la sua opera grafica e pittorica e poetica?
Come si è fatto per Leopardi parlerei anche in questo caso di pensiero poetante e, aggiungerei io, pensiero figurante, pensiero che si fa segno grafico, colore, figura: nel senso che in Michelstaedter l’evoluzione del linguaggio poetico e di quello grafico e pittorico procede di pari passo con quella della riflessione filosofica, talvolta persino anticipando aspetti che avrebbero poi trovato la definitiva formalizzazione concettuale ne La persuasione e la rettorica. C’è quindi una compenetrazione totale tra pensiero, poesia, disegno e pittura. Tutto ciò determina l’originalità del Michelstaedter poeta e artista: da un lato un autore che rinnova il genere della lirica amorosa, trovando in Petrarca e soprattutto in Leopardi i suoi punti di riferimento; dall’altro un artista che anticipa in Italia le soluzioni estetiche dell’Espressionismo.
Che interpretazione si può dare del suicidio di Michelstaedter?
Per quanto possa essere suggestiva l’idea del suicidio “metafisico”, o filosofico che dir si voglia, vale a dire l’ipotesi che il suicidio sia stato per Michelstaedter un modo ulteriore e definitivo di dare compimento al proprio pensiero, quindi una sua forma estrema di coerenza, tale idea non mi convince: ci sono pagine dell’opera michelstaedteriana che la sconfessano apertamente, così come ci sono pagine dell’epistolario, alcune delle quali sono state solo recentemente acquisite dalla critica, che attestano quanto Carlo fosse malato, di una malattia fisica, probabilmente la sifilide, ma soprattutto di un male nervoso che nel 1910 si acutizzò e che lo consumò nel giro di pochi mesi (d’altra parte, se si legge l’epistolario non si può non notare l’alternarsi, a partire dal 1906, di momenti di grande entusiasmo e di successive crisi, apici sempre più alti, seguiti poi da crolli emotivi e psicologici sempre più devastanti). Sono convinto che fu proprio in un momento di particolare inquietudine, in seguito a un banale litigio con sua madre, che Carlo si tolse la vita il 15 ottobre 1910, proprio nel giorno del di lei compleanno.
A distanza di oltre un secolo dalla sua morte, qual è la lezione di Carlo Michelstaedter?
È una lezione sul valore dell’onestà intellettuale, della coerenza con le idee che si professano, di cui è bello essere testimoni con le azioni, oltre che con le parole. È una lezione sul genio, in grado di cogliere, proprio là dove altri vedono limiti e divisioni, elementi di contatto e appartenenza tra ambiti diversi, culture distanti, personaggi lontanissimi tra loro, come Socrate e Buddha, Cristo e Parmenide, Eschilo e Pergolesi, Beethoven e Leopardi. Ed è una lezione sul prendere una lingua come il greco antico, comunemente considerata inutile e “morta”, e farne il bisturi più affilato attraverso cui sezionare, pezzo dopo pezzo, il cadavere in decomposizione dell’Occidente, quell’Occidente che solo pochi anni dopo la morte di Carlo si sarebbe concretamente fatto a pezzi nel massacro della guerra di trincea.
Luca Campana insegna nel Liceo classico della città di Ascoli Piceno e collabora con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata. Ha pubblicato il saggio La stella che sorge dal mare. Un’interpretazione di Carlo Michelstaedter (Il Poligrafo, 2019) e le raccolte poetiche Pietra pelle (Nervi, 2020), da cui sono state tradotte in inglese e russo alcune poesie, e Fioriture invernali (Interno Libri, 2021).