
di Mark Manson
traduzione di Micol Cerato
Newton Compton
«Affrontare la realtà della nostra mortalità è importante perché annienta tutti i valori merdosi, fragili e superficiali della vita. Anche se la maggior parte della gente consuma i propri giorni all’inseguimento di un dollaro in più, o un po’ più di fama e attenzione, o qualche altra rassicurazione che siamo amati o abbiamo ragione, la morte ci costringe tutti ad affrontare una domanda molto più dolorosa e importante: che cosa lasci in eredità?
Il mondo sarà diverso e migliore quando te ne sarai andato? Quale segno avrai lasciato? Quale influenza avrai causato? […]
Come sottolineava Becker, questa è probabilmente l’unica domanda davvero importante della vita. Eppure evitiamo di pensarci. Uno, perché è difficile. Due, perché è spaventoso. Tre, perché non abbiamo la minima idea di che cazzo stiamo facendo.
E quando evitiamo questa domanda, lasciamo che valori banali e pieni di odio dirottino il nostro cervello e controllino i nostri desideri e le nostre ambizioni. Se non riconosciamo lo sguardo onnipresente della morte, ciò che è superficiale sembrerà importante, e ciò che è importante superficiale. La morte è l’unica cosa che possiamo conoscere con certezza. E in quanto tale, deve essere la bussola attraverso cui orientiamo i nostri valori e le nostre decisioni. È la risposta corretta a tutte le domande che dovremmo fare ma non facciamo mai. Per sentirti a tuo agio con la morte l’unica soluzione è comprenderti e vederti come qualcosa di più grande di te stesso; scegliere valori che non siano solo al tuo servizio, che siano semplici e immediati e controllabili e tolleranti del mondo caotico che ti circonda. È questa la causa ultima di ogni felicità. Che si ascolti Aristotele, gli psicologi di Harvard o Gesù Cristo o i maledetti Beatles, tutti dicono che la felicità ha origine dalla stessa cosa: dare importanza a qualcosa di più grande di te, credere che contribuisci a qualche entità molto più vasta, che la tua vita non è altro che un semplice processo secondario di qualche grandiosa produzione inintelligibile. È per questa sensazione che la gente va in chiesa; è per questo che si combattono le guerre; è ciò che fa crescere le famiglie e risparmiare per le pensioni e costruire ponti e inventare i cellulari: questo senso fugace di far parte di qualcosa di più grande e più imperscrutabile di noi stessi.
E il narcisismo ci toglie tutto questo. La sua forza di gravità risucchia ogni attenzione verso l’interno, verso di noi, dandoci l’impressione di essere al centro di tutti i problemi dell’universo, di patire tutte le ingiustizie, di meritare la grandezza più di ogni altro.
Per quanto seducente, il narcisismo ci isola. La nostra curiosità ed eccitazione verso il mondo si ritorce su se stessa e riflette i nostri preconcetti e le nostre proiezioni su ogni persona incontrata e ogni evento vissuto. La cosa sembra attraente e allettante e per un po’ potrebbe non essere male e avere molto successo, ma è veleno spirituale. […]
L’indulgenza con cui si vizia la mente moderna ha come risultato una popolazione convinta di meritare le cose senza guadagnarsele, una popolazione che si sente in diritto di avere cose senza sacrificare niente. Le persone si spacciano per esperti, imprenditori, inventori, innovatori, anticonformisti e maestri senza avere nessuna reale esperienza di vita. E non lo fanno perché pensano davvero di essere migliori degli altri; lo fanno perché sentono la necessità di essere grandi per venire accettati da un mondo che punta i riflettori solo sullo straordinario.
Oggigiorno la nostra cultura confonde l’attenzione con il successo, presumendo che siano la stessa cosa. Ma non è così.
Tu sei grande. Già adesso. Che tu te ne renda conto o no. Che se ne rendano conto o no gli altri. E non perché hai lanciato un’app dell’iPhone, o ti sei diplomato con un anno di anticipo, o ti sei comprato una bella barca. Queste cose non definiscono la grandezza.
Sei già grande perché di fronte alla confusione infinita e alla morte certa, continui a decidere per cosa sbatterti e per cosa no. Questo semplice fatto, il semplice scegliere i valori della tua vita, ti rende già una persona bellissima, di successo e amata. Anche se tu non te ne rendi conto. Anche se stai morendo di fame e dormendo sotto un ponte.
Anche tu morirai e questo perché anche tu hai avuto l’enorme fortuna di avere vissuto. Puoi non crederci. Ma vai su una scogliera, se ti capita, e forse cambierai idea. […]
La morte di Josh mi ha insegnato molto più di quanto avessi inizialmente realizzato. Sì, mi ha aiutato a cogliere l’attimo, ad assumermi le responsabilità delle mie scelte e a inseguire i miei sogni con meno vergogna e inibizione.
Ma questi sono effetti collaterali di una lezione più profonda e fondamentale. E la lezione fondamentale è stata questa: non c’è nulla di cui avere paura. Mai. E nel corso degli anni, ricordarmi ripetutamente della mia morte – che fosse attraverso la meditazione, leggendo testi di filosofia o facendo cose assurde come fermarmi in cima a una scogliera in Sud Africa – è stata l’unica cosa che mi ha aiutato a mantenere questa consapevolezza al centro della mia mente. Quest’accettazione della mia morte, questa comprensione della mia fragilità, ha reso tutto più semplice – sbrogliare il nodo delle mie dipendenze, identificare e affrontare il mio narcisismo, accettare la responsabilità dei miei problemi – resistere alle paure e alle incertezze, accogliere i miei fallimenti e abbracciare i rifiuti – tutto questo è stato reso più leggero dal pensiero della mia morte. Più mi sforzo di guardare nel buio, più la vita diventa luminosa, e il mondo tranquillo, e meno resistenza inconscia sento verso, be’, verso tutto.»