
La Sorellanza è un romanzo distopico ambientato in un futuro non troppo distante, che potrebbe facilmente venir scambiato per la realtà odierna, dove un’America al collasso economico raggiunge anche il collasso socio-culturale quando le leggi e il governo scompaiono in favore della legge (da leggersi come la brutalità) del più forte.
Il romanzo ha molto in comune con gli altri due lavori di Christina Dalcher: con Vox condivide la profonda critica sociale e con La classe condivide una protagonista che è parte attiva del problema, inoltre ci sono rimandi ad altri libri capisaldi della letteratura di questo genere — primo fra tutti Ragazze elettriche di Naomi Alderman. Il suo stile è inconfondibile, a partire dal ritmo incredibilmente serrato che ti porta a leggere una pagina dopo l’altra senza riuscire a smettere. Al contrario dei suoi altri due romanzi, la protagonista sa essere disprezzabile, nonostante un inizio in cui ci si può identificare in lei; dal secondo atto in poi la trama del libro prende il sopravvento a discapito della costruzione del suo personaggio. Ci sono dei buchi di trama e ci sono dei quesiti irrisolti come in quasi tutti i romanzi che affondano le proprie radici nella letteratura fantascientifica e distopica, ma tutto sommato viene lasciata la possibilità al lettore di appianare i conflitti con la sua immaginazione e la sua analisi del contesto sociale in cui viene inserito il romanzo, che un occhio attento può facilmente far corrispondere alla nostra realtà.
La protagonista, Miranda Somers, viene presentata come una donna come tante, è una donna che non ha ancora raggiunto la mezza età, con una figlia di sedici anni, che viene lasciata in balia dei debiti del marito e che in questa società distrutta non è in grado di sopravvivere soltanto con le sue forze: i supermercati vengono presi d’assalto, il suo lavoro diventa completamente inutile, non esiste più nulla che abbia senso. In mezzo a questa baraonda esistono delle oasi felici gestite da sole donne e fondate da Win, la madre della protagonista. La sinossi che ci fornisce il libro stesso in quarta di copertina ci dice che la madre di Miranda è una femminista radicale, ma questo non descrive con precisione il suo modo di vivere, il suo modo di essere e soprattutto il suo modo di trattare le altre persone. Nel momento in cui Miranda arriva in una di queste colonie — nel momento in cui arriva a Femlandia — c’è una discordanza tra ciò che noi lettori ci aspettiamo che accada, ciò che la protagonista si aspetta che accada, ciò che dovrebbe accadere, e ciò che effettivamente accade. Una zona protetta, autosufficiente ed esclusivamente femminile, dovrebbe rispettare determinati criteri: dovrebbe essere accogliente, dovrebbe basarsi sul rispetto reciproco e dovrebbe far sentire benvenuta ogni persona che cerca rifugio; ma nel momento in cui due bambini chiedono ospitalità e viene loro negata, il mondo che avrebbe dovuto essere perfetto si incrina. I due bambini vengono lasciati fuori dai cancelli solo perché sono uomini (per modo di dire, perché a dieci e quindici anni difficilmente possono essere definiti uomini) eppure ciò che hanno in mezzo alle gambe è sufficiente ad escluderli da Femlandia, e in questo universo narrativo significa condannarli a morte.
Alla narrazione dal punto di vista di Miranda vengono alternati alcuni capitoli dal punto di vista della madre di lei, che ci fornisce una spiegazione sul perché dei suoi comportamenti. Win non ha avuto una vita facile: ha subito gli abusi di diversi uomini, primo fra tutti il marito che non le ha permesso di abortire costringendola di fatto ad allevare una figlia che non ha mai voluto e con la quale sente di non avere nulla in comune — e questo è uno dei motivi per cui è stata volontaria in alcuni centri antiviolenza, dove può raccogliere testimonianze di donne che hanno un destino simile al suo o addirittura peggiore. Integrati all’interno della narrazione vengono riportati anche gli episodi di violenza che queste donne sono state costrette a subire e noi come lettori (e specialmente come lettrici) siamo portati ad empatizzare con loro, perché il dolore che provano è indicibile. Questo dolore però a Femlandia si trasforma in rabbia e in vendetta, rimane una ferita che non riuscirà mai a cicatrizzarsi e a guarire.
Il tema della vendetta e della guarigione è presente in tutto il romanzo, come fosse un filo conduttore ricercato da tutte le protagoniste — ed essendo un romanzo quasi corale permette ai lettori di vedere come i diversi personaggi riescano ad affrontare situazioni devastanti, sia per la psiche che per il corpo, e di come le soluzioni che vengono adottate, qualsiasi esse siano, non sono mai realmente risolutive. Il romanzo infatti si conclude in maniera speranzosa e proiettata verso il futuro, seguendo un arco narrativo che porta ad una fine soddisfacente, almeno finché non viene girata l’ultima pagina e si trova l’epilogo, che invece è un finale aperto che arriva al lettore come una pugnalata, facendolo ripensare ad ogni singola frase del romanzo e facendogli dire “avrei dovuto capire”. E quando si chiude definitivamente il libro, lo si appoggia allo scaffale e ci si guarda intorno nel mondo che viviamo oggi, ci sembra di riuscire a capirlo un po’ di più e allo stesso tempo ci sembra sempre che manchi un tassello per riuscire ad afferrare la realtà in maniera completa, come fossimo anche noi personaggi di una distopia. Ogni donna che legge quel romanzo alla fine si chiede “io sarei come Miranda o come Win?”, “come mi comporterei?”, “riuscirei a mantenere intatta la mia umanità o mi farei sopraffare dal desiderio di vendetta?” e la cosa ci lascia devastate, perché scopriamo che non esiste una risposta.
«Il concetto di scelta è complicato, forse come quello di libertà. La libertà va benissimo, finché non aggiungi una parolina in fondo. Sei libero di fare quello che vuoi… ma. Certo, fa’ pure… a meno che. Il filosofo che è in me si chiede cos’accade alla facoltà di scelta quando la si circoscrive. Immagino che smetta di essere una scelta.»
Silvia Biasiol