“La società dei poeti. Per una nuova sociologia dei trovatori” di Simone Marcenaro

Prof. Simone Marcenaro, Lei è autore del libro La società dei poeti. Per una nuova sociologia dei trovatori, edito da Mimesis: che rapporto esiste tra la letteratura trobadorica e la struttura sociale in cui essa è inserita?
La società dei poeti. Per una nuova sociologia dei trovatori, Simone MarcenaroL’idea che sta alla base di questo libro è che per comprendere la poesia dei trovatori (provenzali, in primis, ma anche galego-portoghesi e francesi del nord) sia necessario considerare la struttura sociale di cui essi fanno parte.

Fino ad oggi, questo rapporto era stato indagato dal grande filologo tedesco Erich Köhler, il quale, sulla scia degli studi di sociologia del testo di stampo marxiano, vedeva i trovatori come una sorta di portavoce delle esigenze sociali dei cavalieri senza feudo, i figli cadetti che non potevano ambire a un potere assicurato dai possedimenti terrieri. Essi, allora, avrebbero promosso un nuovo ideale di nobiltà fondato sull’esercizio dell’amore e non più sulla nobiltà del sangue, nel contesto delle corti medievali francesi e occitane. Köhler leggeva quindi il rapporto tra poesia e società essenzialmente in termini politici (i trovatori come “classe sociale” marxianamente intesa), intendendo il rapporto asimmetrico del servizio amoroso cantato dal trovatore come una sorta di trasfigurazione metaforica dei rapporti feudali.

Ora, se si analizzano i testi dei trovatori da vicino, ci si rende conto che questo modello è a dir poco imperfetto, perché la poesia trobadorica non comprende solo le tematiche amorose, bensì quelle politiche, satiriche, morali e altro ancora. Pertanto, il “mestiere” del trovatore non si limita soltanto a promuovere la nuova ideologia del cosiddetto amor cortese.

Io credo che i trovatori vadano semmai intesi come nuove figure sociali: persone che si muovono per le corti con un ruolo preciso, quello dell’intrattenitore, e che non potrebbero esistere al di fuori del contesto cortese. Sappiamo ancora poco riguardo alla strutturazione delle corti provenzali, ma una chiave di lettura interessante è proprio quella sociologica: vedere le corti, cioè, come uno spazio sociale, perimetrato con precisione e spesso impermeabile verso l’esterno, nel quale ognuno svolge una funzione e un ruolo ben precisi. Ci sono quindi coloro che si occupano della difesa, chi consiglia il signore (o la signora) feudale, chi ricopre l’ambito della spiritualità e della religione, e poi cuochi, stallieri, dispensieri, valletti… ma da un certo momento – direi dall’inizio del XII secolo – entrano figure nuove, quelle dei trovatori appunto, che nella maggior parte dei casi si guadagnano da vivere mediante la loro arte, ma che non sono, per così dire, salariati stabili, e per questo sono costretti a girovagare. Le traiettorie biografiche di molti autori di primissimo piano (Marcabru, che è uno dei più antichi, ma anche Bernart de Ventadorn, Giraut de Bornelh, Arnaut Daniel) ci raccontano esattamente questa storia.

Altra cosa interessante è notare la natura fortemente interclassista dei trovatori. Accanto a nobili di alto rango come Guglielmo IX, l’autore più antico che conosciamo, abbiamo molti autori che le antiche biografie duecentesche (le cosiddette vidas) definiscono joglars, ma che in realtà erano poeti di professione che scrivevano e forse, in alcuni casi, eseguivano anche i loro testi; ma si hanno anche canonici e prelati, cavalieri feudali, borghesi e tanto altro ancora. Ecco perché definisco i trovatori come “gruppo sociale”: invece di essere una “classe”, cioè un insieme di persone accomunate dalla difesa e promozione di un’ideologia, essi si configurano come gruppo di individui che, pur di provenienza socio-economica diversissima, si situano stare sullo stesso piano proprio perché condividono l’appartenenza a questa nuova figura di poeta cortese in lingua volgare.

Come si articola il paradigma kohleriano e quale validità mantiene?
Come appena detto, il modello di Köhler puntava a integrare la poesia trobadorica nell’ambito degli studi di sociologia del testo di tipo marxiano. Si trattava, è bene ricordarlo, di una grande novità culturale, tra la fine degli anni Cinquanta e lungo le tre decadi successive, perché la critica letteraria ispirata all’opera di Marx ebbe il pregio di slegare gli studi letterari, non solo medievali, da paradigmi ormai inadeguati come quello romantico e post-romantico, ma anche quello positivista e quello, imperante in Italia, dell’Idealismo crociano. Finalmente si metteva in luce il rapporto ineludibile tra la conformazione della società e la creazione di prodotti letterari, in quella dialettica tra “struttura” e “sovrastruttura” che, in termini generali, resta a mio modo di vedere ancora la migliore chiave di lettura per comprendere il rapporto tra la società e le sue espressioni di tipo artistico-culturale.

Il problema di questa “teoria sociologica”, così come si è soliti chiamarla, è però duplice. Da un lato, è divenuta rapidamente una vulgata, anche grazie alla grande diffusione, assicurata ad esempio in Italia dalla magistrale raccolta dei principali contributi kohleriani tradotta da Mario Mancini nel 1976, che però, come spesso accade per le auctoritates teoriche, ha portato generazioni di studiosi ad adagiarvisi acriticamente, salvo pochissime eccezioni (penso a Ingrid Kasten, in Germania; a Linda Paterson, nel Regno Unito; o a Pietro G. Beltrami, in Italia).

Se si leggono le pagine dello storico medievale che, di fatto, ha ispirato l’architettura della teoria di Köhler, Georges Duby, si scopre ad esempio che il modello sociale dello iuvenis, cioè il cavaliere senza feudo, si osserva soprattutto nella Francia nord-orientale, che conosceva una struttura socio-politica molto diversa da quella occitana; quest’ultima, infatti, era sì basata su un sistema feudale, ma molto più frammentario rispetto a quello del nord e soprattutto indipendente, fino almeno alla famigerata crociata antialbigese, dal potere regio.

Ecco perché la sequenza ipotizzata da Köhler lat. iuvenis > iuventus > prov. joven nei testi provenzali non regge: secondo il tedesco, infatti, il termine-chiave joven, cioè la ‘gioventù’ che viene cantata come principale valore cortese da tantissimi trovatori, non era altro che il nucleo lessicale, per così dire, di quella trasfigurazione che la cultura cortese avrebbe attuato tra il piano politico-sociale e quello letterario. Peccato, però, che joven venga utilizzato già da Guglielmo IX, potentissimo nobile che certo non si curava delle pretese degli iuvenes, assieme a joi come qualità che, assieme al joi, egli stesso vuole dare a un suo vers; o che joven sia caratterizzato da Marcabru, forse il più antico “trovatore di professione”; non solo come requisito primario per amare cortesamen, ma anche come qualità ineludibile per i potenti (fino allo stesso Emperaire).

La gioventù associata all’amore, semmai, è un concetto ben più antico, che possiamo facilmente trovare nel modello classico per antonomasia nel campo della letteratura erotica, Ovidio, tanto nell’Ars Amandi, quanto nei Remedia Amoris. Quello che Köhler chiamava “sociologia della superficie”, cioè l’analisi sociologica che mira a comprendere la natura sociale dei trovatori come persone e non come figure ideologiche, è insomma l’unico modo per capire davvero come e quanto il mondo in cui i trovatori vivevano plasmasse e influenzasse la loro ispirazione poetica e, soprattutto, la loro trasformazione in “figura sociale” che si replica, al netto delle differenze storico-politiche, anche in altri territori, come ad esempio quello galego-portoghese (dove infatti abbiamo trobadores e jograres, in perfetta analogia con il modello occitano).

Quale apporto offre la nozione di rete sociale nel descrivere il sistema di organizzazione del gruppo sociale trobadorico?
L’idea di partenza è che tutte le società complesse si strutturino in gruppi sociali, a loro volta articolati in sistemi reticolari, che descrivono non solo la connessione tra i vari individui di quel gruppo, ma anche la densità delle loro relazioni. Si tratta di un’idea sviluppata da sociologi dagli anni Settanta, e che raramente si è applicata a società del passato, perché è difficile trovare testimonianze che rendano conto della natura di queste molteplici relazioni. Il caso dei trovatori, in questo senso, è davvero unico: per la prima volta nella storia della letteratura occidentale, esiste un gruppo sociale caratterizzato da un preciso genere letterario, quello della poesia per musica, e, poiché si tratta di un movimento letterario che nasce e cresce in strettissima relazione con il sorgere della cultura scritta in lingua volgare, abbiamo ancora oggi la fortuna di poterne ricostruire la natura sociale tanto leggendo gli stessi testi poetici, quanto affidandoci alle (poche) notizie storiche in nostro possesso e alle già menzionate vidas, biografie scritte da connaisseurs di poesia del XIII secolo che spesso romanzavano la reale biografia del trovatore, ma che anche così ci forniscono indizi importanti su come un lettore di poesia trobadorica leggeva le stratificazioni sociali ad essa legate.

Nel libro propongo un esempio di rete sociale basato su Marcabru, che è uno dei case studies più intriganti per una lettura sociologica della poesia trobadorica. Quello che mi interessa di più, però, non sono tanto i cosiddetti “sociogrammi”, cioè la visualizzazione grafica dei rapporti reticolari che il poeta intratteneva con i suoi colleghi e con i suoi protettori, quanto l’esistenza e la conformazione delle reti stesse. Non è un caso, ad esempio, che proprio la più antica rete sociale in cui entra Marcabru, quella che si articola attorno alla figura del nobile Guglielmo X di Aquitania (figlio di Guglielmo IX, il poeta di cui s’è parlato prima), sia il primo passo che permette alla poesia dei trovatori di trasmettersi orizzontalmente, vale a dire da poeta a poeta, garantendo così una circolazione dei testi e un rapporto dialettico tra questi.

Possiamo immaginare che, man mano che la poesia trobadorica si espande anche territorialmente, si vengano a creare una serie di reti interconnesse tra di loro, che funzionano come una specie di autostrada culturale: grazie a queste relazioni di tipo orizzontale, in cui cioè non conta lo status sociale, perché si tratta di poeti accomunati dall’ufficio trobadorico, viaggiano testi e saperi, oltre alle persone. Questo tipo di connessione non si era verificato fino a quel momento in nessun altro caso nella letteratura medievale.

Qual era il livello di cultura nei territori in cui fiorì la poesia dei trovatori?
Credo si tratti di una componente importante, perché se vogliamo disegnare un profillo sociologico del poeta medievale dobbiamo anzitutto capire quale fosse il suo status culturale.

Dalle analisi intraprese emerge molto bene come il meridione francese si caratterizzi per una certa frammentarietà delle istituzioni scolastiche, che dalla fine del XI secolo iniziano ad abbandonare il mondo monastico per spostarsi verso le scuole cattedrali e, in certi casi, addirittura laiche. Rispetto al nord, con città come Parigi, certamente, ma anche Laon o Reims, il Midi manca di un grande centro intellettuale versato nelle arti del trivium, e ancora meno del quadrivium, ma non per questo mancano le scuole. Si può vedere, anzi, che il territorio occitano era costellato di scuole cattedrali e monastiche, in certi casi anche di una certa importanza, e i patrimoni librari che ancora oggi sopravvivono ci lasciano un’immagine vivace, con i “grandi classici” Virgilio, Orazio o Cicerone, ma anche autori in cui proprio il sud sembra essersi specializzato, in qualche modo, come ad esempio Persio o Terenzio.

Chi frequentava queste scuole? Non lo sappiamo con certezza, ma a partire dal 1079 la Chiesa interviene direttamente sul nodo dell’istruzione verso i ceti meno abbienti e, anche se non conosciamo l’effettiva applicazione dei decreti papali, è verosimile credere che l’educazione di base, che andava circa dai sei ai quindici anni, fosse più estesa di quanto non si creda. Non erano quindi soltanto i figli dei nobili a ricevere un’istruzione che oggi chiameremmo “primaria”, anche se poi solo questi ultimi potevano accedere ai gradi più elevati, che portavano eventualmente alle università.

Ma la domanda è in qualche modo connessa a ciò che si è detto nella risposta precedente. Anche qui, infatti, diventa centrale la natura reticolare della poesia trobadorica, poiché è grazie a quelle “autostrade” che si può muovere la conoscenza della letteratura classica, i diversi stili di scrittura, il repertorio lessicale, tutti quegli strumenti che servono al poeta per diventare un buon trovatore. Si passa così da un acculturamento di tipo verticale, tradizionalmente scolastico, che ruota attorno alla lingua e alla cultura latina, ad uno orizzontale, completamente in volgare, che permette la nascita di una nuova poesia, in una nuova lingua (il volgare) e con una nuova retorica.

Un ottimo esempio è proprio Ovidio: i fondi librari cui si è accennato poc’anzi mostrano pochi esempi ovidiani, e ancora meno sotto forma di florilegio, che è il mezzo didattico in assoluto più impiegato nelle scuole medievali. La mia ipotesi è che, come sappiamo essere accaduto con certezza in alcune corti del nord, anche nel sud i libri ovidiani, e quindi la sua visione dell’amore che costituisce una pietra angolare dell’ideologia definibile come “amor cortese”, circolasse fra i trovatori quando erano già adulti, e giravano per le corti procacciandosi da vivere grazie alla loro arte. Non credo, in altre parole, che la conoscenza di Ovidio, o di Orazio, o di Virgilio acquisita a scuola garantisse che questi autori venissero assimilati come modelli letterari, perché a quel livello di istruzione erano impiegati esclusivamente come specimen per l’insegnamento della lingua latina, anche mediante la tecnica del cantus (ne abbiamo inconfutabili prove proprio in manoscritti che provengono dall’Occitania).

Stessa cosa avviene per la musica; chi sapeva comporre non aveva bisogno di una formazione teorica, perché la natura orizzontale delle reti permetteva la creazione di un vero e proprio repertorio melodico, cui ogni autore poteva attingere. A tal proposito, a differenza di quasi tutti gli studiosi di poesia trobadorica, sono fermamente convinto che i poeti potessero usare un sistema di scrittura anche per ricordarsi la melodia. I provenzalisti hanno sempre ignorato, infatti, che proprio nel territorio in cui nasce la poesia trobadorica, l’Aquitania, il grande intellettuale Ademaro di Chabannes, verso la metà del Mille, aveva inventato un sistema di notazione rudimentale che teneva conto degli intervalli e delle altezze, ma senza ancora “ingabbiare” la scrittura in un elemento diastematico (vale a dire, quello che poi diverrà il moderno pentagramma). Ora, questo sistema si espande rapidamente in tutti il territorio aquitano e non solo, e sappiamo che i bambini del coro, diffusi in tutte le chiese d’Europa, imparavano il solfeggio e le varie tecniche del canto anche grazie a supporti di tipo scritto. Per comporre, in altre parole, non era necessaria un’alfabetizzazione musicale, perché il repertorio di melodie e modi musicali si tramandava all’interno del gruppo sociale trobadorico, ma esisteva comunque la possibilità di fissare per iscritto la melodia ideata.

In che modo le reti consentono di inquadrare il rapporto fra poesia trobadorica e lingua volgare da un’angolazione nuova?
Così come per introdurre le reti sociali mi sono servito della sociologia “classica”, per questo aspetto, che è ovviamente complementare, ho voluto testare la validità del paradigma sociolinguistico. Ancora una volta, è difficile applicare metodi nati per la contemporaneità, nella quale si può osservare la lingua parlata, a una società del passato. I sociolinguisti hanno provato a farlo, a partire dagli anni Ottanta, con la cosiddetta sociolinguistica storica, che però non si misurata molto raramente sul campo della letteratura, e quasi mai con quella di epoca medievale. Il pregiudizio, grosso modo, è questo: l’analisi sociolinguistica della letteratura ha scarsa validità, perché la lingua letteraria è altra cosa rispetto a quella parlata, in quanto selezionata e rarefatta, e quindi ci può dire poco sulla relazione tra i fenomeni linguistici e la struttura della società in cui essi si creano. Ciò è senz’altro vero per la maggior parte della letteratura del passato, ma nel caso dei trovatori, ancora una volta, abbiamo un case study davvero esemplare: si tratta di un genere letterario la cui novità è intimamente legata all’uso di una lingua che non è nuova per il parlato – quando scrive Guglielmo IX, si parlava occitano già da almeno quattro secoli – ma lo è per la produzione scritta. In un panorama esclusivamente monolingue, vale a dire latino, nasce una nuova letteratura in una nuova lingua. Ciò è reso possibile proprio dalle reti, perché la struttura reticolare assicura il passaggio dell’informazione linguistica rapidamente e in maniera capillare.

Questo ragionamento porta alla nozione di “lingua di koinè”, per la quale, nuovamente, è necessario smontare uno stereotipo ancora tenace negli studi trobadorici. Si dice generalmente, infatti, che la lingua dei trovatori è un occitano “di koinè”, cioè una lingua sovraregionale che non coincide con una varietà precisa tra quelle possibili del sistema dialettale occitano. I linguisti, in verità, oggi non credono quasi più a questa teoria, che però ha ancora una forte diffusione a livello didattico; ma questi stessi studiosi, se non in tempi recentissimi, non hanno ancora saputo definire con precisione quale fosse il punto di partenza linguistico dal quale i trovatori iniziarono a comporre.

Secondo una visuale sociolinguistica, io credo che la lingua della poesia nasca anzitutto come varietà diafasicamente “alta”, secondo processi che tecnicamente si definiscono di “selezione” e “specializzazione”, in un contesto che vede il volgare scritto affacciarsi molto precocemente in tutti gli ambiti della scrittura, al di là di quello letterario, laddove invece in Francia del nord, ma anche in Spagna e in Italia, questo succederà molti decenni dopo. Ma questo non impedisce che, nella sua fase iniziale, la poesia dei trovatori utilizzasse una varietà precisa, che io concordo, con Riccardo Viel e Martin Glessgen, a identificare in una varietà limosino-pittavina, che poi inizia a mutare con il passare delle generazioni verso varietà più meridionali, visto che il fulcro della poesia trobadorica aveva, nella seconda metà del XII secolo, progressivamente abbandonato l’antica Aquitania in favore di terre più meridionali come la Provenza propriamente detta o la Linguadoca. Il cambiamento, però, non avviene per iniziative individuali di singoli poeti, bensì grazie alle reti, all’interno delle quali, così come abbiamo visto per la musica, si crea altrettanto rapidamente un repertorio linguistico. Purtroppo oggi possiamo dire ben poco sulla lingua degli autori, perché la stratificazione della tradizione manoscritta ha introdotto tante variabili dovute alla lingua dei copisti, lungo l’arco temporale in cui essa nasce e si perpetua. Ma possiamo tracciare un quadro culturale all’interno del quale la lingua della poesia nasce e si consolida come tale, privilegiando quindi l’analisi macro-linguistica a quella di tipo dialettologico-variazionistico.

Nel ringraziarvi per questa intervista, vorrei concludere ricordando un collega che purtroppo ci ha lasciati proprio in questi giorni. Si tratta del Professor Alessio Monciatti, Ordinario di Storia dell’Arte Medievale all’Università del Molise, che ho avuto il pregio di avere come collega e amico. Monciatti è uno dei più importanti e riconosciuti esperti di Giotto, grazie a studi e ricerche che, come accade per il volume «E ridusse al moderno». Giotto gotico nel rinnovamento delle arti, hanno saputo ridisegnare molte delle coordinate che necessitavano una corposa revisione e rilettura in merito all’opera del grande artista toscano. Ecco, mi piace pensare che proprio questo Alessio mi ha insegnato: saper affrontare i paradigmi teorici inveterati, anche per autori di grande importanza, è l’opportunità più bella e appagante che uno studioso ha per lasciare una traccia di sé nel mondo degli studi umanistici.

Simone Marcenaro (Finale Ligure, 1978) insegna Filologia e Linguistica romanza all’Università degli Studi del Molise

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