
La sicurezza è un bisogno primario dell’uomo: il terrorismo persegue i suoi scopi facendo leva proprio su questo assioma.
Il discorso del terrorismo che ci rivolge il terrorismo è chiaro: “Pensate di essere sicuri e non lo siete”. Capovolgendo un assetto plurisecolare, gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno mostrato che la metropoli globalizzata non è più sicura. Naturalmente questo decorso non rende più sicura la periferia globalizzata, anzi. Il risultato è una nemesi senza pace, cioè privato delle condizioni grazie alle quali la periferia potrebbe eventualmente avere giustizia dei torti subìti dalla metropoli. Ciò che il terrorismo offre alla periferia è soltanto vendetta, oltre tutto mettendo nel mirino la vita di coloro che non hanno alcuna colpa: i cittadini inermi, con particolare predilezione per i giovani e i giovanissimi. Come mai sono questi ultimi – dal Bataclan di Parigi all’Arena di Manchester (ma dovrebbero essere almeno ricordati i 180 bambini della scuola di Beslan) – le vittime privilegiate? In questo il terrorismo islamista rivela una perfidia strategica solo apparentemente contraddittoria. A differenza dei terrorismi sperimentati dai paesi europei negli anni Settanta del secolo scorso, i quali selezionavano bersagli politicamente significativi, i kamikaze massimizzano senza limiti la risonanza dell’orrore che provocano nelle società attaccate. In modo solo apparentemente contraddittorio, da un lato “sparano nel mucchio” così che ciascuno debba sentirsi un potenziale bersaglio, dall’altro mirano a un “mucchio” la cui composizione non è casuale bensì altamente simbolica. Si tratta dei giovani, la melior pars che la popolazione percepisce come la parte migliore di sè da proteggere e da tramandare al futuro. Non riuscire in questa missione esistenziale aumenta il panico nella società e, se non si trova rapidamente una soluzione, nel tempo minerà la coesione sociale.
Come può la razionalità essere d’ausilio nell’affrontare le sfide della sicurezza?
Ne La sicurezza e la sua ombra ho definito la razionalità l’arma segreta della nostra specie. Come tutte le armi risolutive, peraltro, anch’essa è monopolizzata, centellinata e tenuta segreta dalle élites del potere. Se dovessero ammettere che molti dei danni che incombono su di noi, cioè molti fattori di insicurezza, hanno origine nelle nostre (o meglio nelle loro) decisioni – e quindi sono dei rischi – i governanti dovrebbero modificare le loro strategie e i loro comportamenti nel senso democratico, pro-sociale e nonviolento di cui si diceva. È molto più facile rendere tutto, indistintamente, una minaccia, esportare ogni responsabilità sul nemico, auto-assolversi per gli errori e per le colpe e accusare entità e attori esterni per i danni che ci colpiscono. È quella che il grande psicanalista Franco Fornari chiamava l’elaborazione paranoica del lutto, una pseudo-soluzione al male. La via maestra, invece, è un’analisi realistica ed equilibrata dei costi e dei benefici che i fenomeni storici portano con sé e, nell’ambito dei costi, di quelli che è giusto pagare e di quelli che è ingiusto che altri vogliano farci pagare. Nel primo caso la sicurezza si garantisce con le risorse politiche, economiche e sociali che è cosa morale e utile investire nella prevenzione dei conflitti. Nel secondo caso, di fronte a conflitti ingiusti come quello imposto dal terrorismo, è morale e necessario resistere e opporsi con i mezzi giuridici e tecnici dello Stato di diritto.
Il tema della sicurezza è destinato sempre più a condizionare le campagne elettorali e l’agenda politica delle nazioni occidentali: con quali conseguenze a Suo avviso?
La fase che attraversiamo oggi, dopo la Brexit e l’ascesa realizzata o paventata di capi populisti, è molto delicata. Nello stesso tempo siamo pur sempre di fronte alla dialettica della democrazia. C’è sempre stato e sempre ci sarà chi, con il pretesto di difendere, propone di aggredire. Accade che, di fronte agli stress che il terrorismo sta infliggendo alla società europea, a una crisi economica che dieci anni fa ha lasciato macerie e infine alla sofferenza sociale indotta dal progressivo collasso delle relazioni individuali e di gruppo, molte persone siano esasperate e alcune cerchino protezione nell’uomo (o nella donna) forte, e dunque nell’ideologia della destra. La capacità mimetica di questa politica è, grazie anche alla inadeguatezza delle alternative, formidabile: si fa passare per popolare, si propone di rappresentare gli strati lasciati indietro dalla turboeconomia senza più confini, inventa nuove denominazioni definendosi “sovranista”. Il nome è suggestivo ma, grattando, riemerge la vecchia materia nazionalista che, per due volte, nel “secolo breve” ha devastato l’Europa e il mondo. La proposta è di sostituire la guerra, diventata impraticabile in presenza di armi di distruzione assoluta come quella nucleare, coi dazi, coi muri e con la compressione dei diritti umani. Una risposta democratica e nonviolenta significa cercare un percorso che indubbiamente è, soprattutto nelle scadenze elettorali, arduo e stretto. Da un lato deve prendere l’insicurezza sul serio, senza sottovalutare le questioni che pone e senza ignorare/colpevolizzare i soggetti (numerosi) che avvertono questo disagio. Contemporaneamente non può mettersi in competizione con la destra sul suo terreno e con i suoi mezzi, bensì deve approntarne o rilanciarne di alternativi, a cominciare dalla prevenzione sociale. Strategie inclusive a favore dei giovani e degli immigrati (come fa con buoni risultati la scuola italiana), politiche pubbliche di inclusione delle periferie (invece scarse a livello locale, pressoché inesistenti a livello nazionale) sono o sarebbero decisive per prevenire strutturalmente l’emarginazione e l’alienazione della popolazione giovanile, in particolare gli immigrati di seconda generazione. Obiettivi che non sono unicamente di giustizia ma, anche, di una coesione sociale che è già di per sè prevenzione.
Fabrizio Battistelli è Ordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università La Sapienza di Roma