“La sensualità del libro. Piccole erranze sensoriali tra manoscritti e libri antichi” di Angelo Floramo

Dott. Angelo Floramo, Lei è autore del libro La sensualità del libro. Piccole erranze sensoriali tra manoscritti e libri antichi edito da Ediciclo. Come definirebbe la Sua passione per i libri: bibliofilia, bibliomania, o come?
La sensualità del libro. Piccole erranze sensoriali tra manoscritti e libri antichi, Angelo FloramoBibliomania, certo, si avvicina di parecchio. È una malattia molto pervasiva, immagino senza possibilità di cura. Ne avverto i sintomi non appena entro in una biblioteca antica. La reazione è quasi immediata e consiste in una acuita percezione dei sensi: l’olfatto va ad indagare nell’aria il profumo, inconfondibile, delle carte intrise dagli inchiostri. E quello più pungente delle pergamene; non parliamo poi del legno con cui sono intelaiate le scaffalature. Ma basta molto meno: è sufficiente una libreria moderna, con tanta seduzione esposta e a portata di mano per indurmi a incontrollate esplorazioni, carezze furtive alle copertine, dissimulate perlustrazioni tra le pagine: una scusa per sfiorare, annusare…

Quando è nato il Suo amore per i libri?
Non ne ho memoria. Ancestrale. Penso ereditato geneticamente e poi coltivato dalla età più tenera. Quando i genitori imponevano il coprifuoco serale, con lo spegnimento della luce. E la lettura continuava clandestina con una torcia elettrica, sotto le coperte. Le estati sonnacchiose e libere dagli impegni della scuola erano spese alla ricerca di un luogo ombroso, sotto un albero in aperta campagna, o al riparo dal sole, presso un muretto di orto. Dovevano venire a cercarmi e spesso mi trovavano dolcemente addormentato, ovviamente abbracciato a un libro.

Nel libro descrive con dovizia di particolari l’esperienza sensoriale dei libri antichi: in che modo un libro antico può stimolare i sensi fino a divenire ‘sensuale’?
Un libro antico deve essere accostato in una sorta di rituale di corteggiamento. Lo devi cercare, innanzitutto. E si nega, come farebbe una bella donna con uno spasimante. Ne insegui le tracce lasciate da eruditi, nei secoli, negli indici di polverosi cataloghi. Poi, quando finalmente sai dove si trova, non c’è nulla che possa tenerti lontano dal primo incontro. Che è sempre segnato da una fortissima suggestione. Le carte che hanno qualche secolo non vanno svogliate, ma accompagnate piano dalla mano, quasi si abbandonassero ad una carezza. E la granitura dei fogli, il crepitio sussurrato delle pergamene sono quasi un gemito appena modulato, un alito fresco, il respiro di quel libro, che vuoi solo per te, possibilmente lontano da occhi indiscreti. Uno studioso di codicologia sa bene che un codice o un manoscritto vanno educatamente palpeggiati, solleticati, aperti nelle loro pieghe più riposte. Avvicini piano il naso e ad occhi socchiusi aspiri. Inebriante, vero?

Le capita mai di fare tsundoku, acquistare cioè compulsivamente libri senza però poi trovare il tempo o la voglia di leggerli?
Esco sempre da una libreria con più di un libro tra le mani. Entro cercando altri titoli, poi mi lascio irretire e non posso fare a meno di portarmeli a casa. Capita che una volta assaggiati vengano riposti e dimenticati. È bellissima epifania la meraviglia di ritrovarli ancora intatti, dopo molti anni, in terza o quarta fila, trangugiati da scaffali troppo pieni. Sono sempre stati lì. So che mi aspettavano. E si nascondevano, per palesarsi al momento più opportuno. Per questo quando mi perdo tra gli scaffali della mia libreria domestica so con una certa sicurezza che troverò sempre qualcosa che non avevo letto ancora. E il cortocircuito è proustiano: rivivo il momento dell’acquisto, il luogo, l’ora, l’eccitazione di quella sorpresa che ora si ripresenta, facendomi battere il cuore. È grave?

I dati Istat evidenziano come oltre il 60% degli italiani non legga: quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?
È una tristissima percentuale. Viviamo in una società superficiale, dove l’immagine è tutto, il tempo viene consumato tra impegni, scadenze, marce forzate cui ci sottoponiamo senza nemmeno sapere perché: la palestra, la piscina, l’ora dell’aperitivo in centro. E il libro resta l’ultimo dei pensieri. Meglio un film, magari una di quelle serie che guardiamo in podcast sullo schermo del telefonino, tra i suoni suadenti dei messaggini che ci crivellano la concentrazione ad ogni respiro. La scuola – e lo dico da insegnante – ha le sue gravissime responsabilità. Disabitua alla lettura, allontana invece di stimolare. Gli insegnanti si ostinano ad assegnare i libri come compiti per casa: qualcosa da dissezionare in quelle orribili schede per la comprensione del testo, tutte crocette e quadratini di spunta, riassuntini forzati, analisi morfologica dei periodi. Chi mai vorrebbe baciare un’amante fatta a pezzi in una sala settoria? Io lascio che gli studenti entrino in libreria, scelgano loro quello che li attrae. Nessuna relazione richiesta. Solo il piacere di raccontare in classe, se lo vogliono, quello che li ha emozionati, o infastiditi. Con il permesso di interrompere il rapporto se non piace. Una soluzione? Inventarsi spazi di libertà per gustare una pagina buona. Anche tra amici, leggendo a voce alta, perché no? O da soli, ovunque sia dato ricetto alle anime vagabonde. In cattedrale o in osteria poco importa.

È possibile educare alla lettura? Se sì, come?
Con il rispetto assoluto per il giovane lettore. Che non è mai un imbuto, un sacco da riempire. Non sei credibile se non mostri apertamente la tua passione per le storie. Bello lasciare che i tuoi studenti vedano la tua commozione, o la tua rabbia, il tuo schifo. Ci sono pagine che se siamo innamorati ci accendono la fantasia, altre che ci fanno sghignazzare, altre ancora che titillano la nostra rabbia più profonda verso la stupidità del mondo. Con i libri si viaggia in contrade mai prima battute, ci si eleva ad altitudini insperate, si precipita nell’abisso più nero. Poi basta chiudere la copertina e ricominciare a vivere, ma con una maggiore leggerezza. Ecco, il libro va cucinato, fatto assaggiare, degustare. Solo così c’è speranza che si ritorni a leggere.

La tecnologia fatta di tablet ed e-book reader insidia il libro cartaceo: quale futuro per i libri?
Non credo che la tecnologia sia davvero un’insidia. Anzi, potrebbe essere un incentivo. È di una democraticità straordinaria la possibilità di archiviare in uno spazio pari ad un’unghia migliaia di libri. La Biblioteca di Alessandria d’Egitto oggi se ne starebbe comoda in una chiavetta USB. Si comincia così. Poi, quando ci si rende conto che nessuna “app” è capace di farti sentire il crocchiare dei millenni quando si gira la pagina di una Bibbia atlantica, e non è possibile lasciare le briciole della crostata che trangugi mentre ti perdi dentro l’avventura – briciole segnatempo, segnapasso, segnalibro, per me! – allora ti accorgi che quell’oggettino che da tempo immemorabile si chiama libro e ha la stessa etimologia di libero e di figlio è un gioiello di valore inestimabile. E non devi nemmeno metterlo in carica. Non perde mai nemmeno una tacchetta di campo.

Quali provvedimenti andrebbero a Suo avviso adottati per favorire la diffusione dei libri e della lettura?
Bisognerebbe incentivare gli aspetti ludici della conoscenza. Imparare deve essere un divertimento. E accostarsi al sapere dev’essere seduttivo. Come baciare, amare o mangiare. Per troppo tempo ci hanno fatto credere che la cultura, per essere seria, dev’essere triste e noiosa. Non è così. Dimostriamolo: facciamo capire quanto sia golosa una pagina di Rabelais, tanto da rosicchiarla in rosticceria, tra intingoli e sughi. Oh, un bacio rugiadoso condiviso durante la lettura, condivisa, dell’Ars amatoria di Ovidio, avrà un altro sapore. Lo giuro, l’ho provato. Aprire le pagine come fossero le vele di un vascello, salpare assieme a coloro che ami verso i contorni del continente più misterioso che esiste, la fantasia, è avventura impagabile, irrinunciabile. Aprire le biblioteche anche di notte, esplorarle come fossero miniere di gemme preziose, condividere il batticuore: la lettura è social! È nata per esserlo. E l’uomo, diceva Aristotele, è un animale sociale.

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