
di Gianluigi Tomassi
EDUCatt
«La Seconda sofistica fu un fenomeno straordinario, che interessò tutta la parte orientale grecofona dell’Impero romano e, in minor misura, la parte occidentale di lingua latina nei primi tre secoli dell’era cristiana, nel periodo che va da Nerone (54-68 d.C.) ad Alessandro Severo (222-235 d.C.). In quest’epoca, la retorica pervadeva tutta la produzione letteraria greca e romana; le scuole di retorica iniziavano a moltiplicarsi in tutte le regioni dell’Impero; nelle principali città dell’Occidente e dell’Oriente romano, a intervalli regolari, la folla si riuniva per ammirare esibirsi nella recitazione di discorsi un sofista, vero professionista della parola. Punta di diamante dello spettacolo sofistico era la declamazione, un discorso fittizio che non aveva lo scopo di persuadere una giuria o un’assemblea reali, come accadeva nella Grecia classica, ma era realizzato per sollecitare il piacere, l’ammirazione e l’empatia del pubblico. È difficile per noi oggi capire l’importanza di tali esibizioni e, al tempo stesso, non incorrere nell’errore di paragonarle a moderni spettacoli come i grandi avvenimenti sportivi, gli eventi religiosi più rilevanti o i concerti delle star della musica. Diversamente da quel che accade ai nostri giorni, infatti, tali esibizioni contavano sulla presenza di un pubblico d’eccezione e vedevano la partecipazione dei rappresentanti delle classi più alte della società, sia intellettuali sia studenti; rappresentavano spesso un momento cruciale della carriera di un sofista, perché erano il banco di prova per testarne la preparazione e lo status sociale e, di conseguenza, decretarne il successo o l’infamia; non costituivano un semplice momento di aggregazione o di svago, ma erano un importante strumento di condivisione e consolidamento del patrimonio culturale, delle ideologie e dei modelli di comportamento su cui la società era fondata.
La principale opera di riferimento per orientarci nel mondo della Seconda sofistica è rappresentata dalle Vite dei sofisti di Flavio Filostrato, scrittore greco vissuto fra il II e il III sec. d.C., che nella sua opera raccolse le biografie di 43 esponenti della sofistica imperiale, alcuni dei quali molto famosi e conosciuti anche da altre fonti, altri a noi noti solo grazie a lui. Di quasi tutti questi autori le opere sono andate perdute e solo di alcuni possiamo avere una conoscenza diretta tramite la loro produzione che, tuttavia, ci è pervenuta per lo più in minima parte o in frammenti. La stessa nozione di Seconda sofistica deriva da Filostrato, che nell’incipit delle sue Vite dei sofisti afferma:
«l’antica sofistica bisogna considerarla una «retorica filosofante», in quanto tratta i temi dei filosofi […] prolissamente e in modo diffuso, discutendo sul valore, sulla giustizia, sugli eroi, sugli dèi e su come si è configurata la forma dell’universo. La sofistica successiva a questa, che bisogna chiamare non «nuova», dal momento che pur essa è antica, ma piuttosto «seconda», ha rappresentato i poveri e i ricchi, i nobili, i tiranni e gli argomenti famosi di cui tratta la storia. A quella più antica diede inizio Gorgia da Leontini […], alla seconda, invece, Eschine, figlio di Atrometo”.»
La definizione di ‘Seconda sofistica’ coniata da Filostrato non risulta attestata presso altri autori a lui contemporanei. Questa è generalmente accolta dai critici moderni più per praticità che per altre, concrete motivazioni, perché gli antichi parlatori presocratici e i conferenzieri itineranti di età imperiale non ebbero altro in comune che il culto della parola: i primi, infatti, furono divulgatori instancabili di nuove teorie e misero l’uomo al centro di ogni loro riflessione, mentre i secondi non pretesero di sviluppare pensieri originali e non ebbero rivoluzioni culturali da proporre, ma solo una passione smisurata per il potere della parola e le sue infinite possibilità.
Un’altra importante fonte per gli studiosi della Seconda sofistica è rappresentata da quegli scritti che ne parlano più o meno direttamente, come il pamphlet satirico Il maestro di retorica di Luciano di Samosata. Quest’opera, al di là delle evidenti esagerazioni motivate dal suo intento critico, è un vero e proprio manifesto delle mode, delle manie e delle degenerazioni della sofistica imperiale. Luciano immagina che un giovane si rivolga a lui per avere consigli sul modo di diventare un perfetto sofista, per “essere imbattibile e irresistibile e […] essere ammirato e guardato da tutti avendo fama tra i Greci di persona che tutti cercano di ascoltare” (§ 1). Allora lo scrittore, costretto ad assistere ai clamorosi successi di tanti sofisti della sua epoca dotati di scarsa preparazione, ma di spocchia e vanità iperboliche, consiglia al ragazzo, parodiando il celebre apologo di Eracle al bivio (§§ 2-8), di non perdere tempo per la lunga e tortuosa via della fatica e dell’educazione (§§ 9-10), ma di prendere la strada più facile e comoda, a cui può condurlo un maestro amante più dell’apparenza che della sostanza (§§ 11-26). È un cammino basato sull’ignoranza, a cui bisogna associare “la tracotanza, l’audacia la sfrontatezza” e da cui si deve eliminare “il pudore, l’equità, la misura o il rossore, qualità inutili e contrarie allo scopo” (§ 15).
Un’altra opera lucianea, Il sogno o la vita di Luciano, ci ricorda come per molti la carriera di sofista poteva costituire un ottimo mezzo di avanzamento sociale (solo alcuni dei più grandi sofisti erano di estrazione sociale elevata). Luciano racconta di esser nato in una famiglia di modeste condizioni e, dal momento che già in tenera età aveva dato prova di plasmare belle figurine di cera, di essere stato mandato dal padre a fare apprendistato presso uno zio, che aveva fama di essere un ottimo statuario e che subito gli predisse una buona carriera. A causa di una punizione provocata dalla sua sbadataggine, Luciano scappò quasi subito via dalla bottega, tornò a casa in lacrime e continuò a piangere fino a quando venne la notte e si addormentò (§§ 1-4). Nella notte sognò due donne che se lo contendevano e volevano tirarlo dalla loro parte, Statuaria e Cultura. La prima offre al giovane un’immagine di sé seducente e affascinante, pur se “mascolina, incolta nei capelli, le mani piene di calli e la veste succinta, coperta di gesso”, e gli assicura che se la seguirà diventerà come Fidia, Policleto, Mirone o Prassitele, verrà venerato come un dio e assicurerà celebrità a se stesso e alla sua patria, rendendo in più orgoglioso suo padre (6-8).
Più convincenti appaiono a Luciano, però, le allettanti proposte della seconda donna, Cultura, che può offrirgli dei doni più preziosi, vale a dire abbellire la sua anima “di molti e begli ornamenti, della saggezza, della giustizia, della pietà, della mitezza, della bontà, dell’intelligenza, della continenza, dell’amore per le cose belle, dello slancio verso le cose più alte”, il che costituisce “il genuino e autentico decoro dell’anima” (§ 10). La lista delle ricompense che Cultura promette subito dopo al giovane Luciano (§§ 11-12) costituiscono, con una punta di esagerazione, un insieme di riconoscimenti che erano il traguardo naturale della carriera di un sofista e, insieme, rappresentano un esempio concreto della connessione fra cultura e possibilità di avanzamento sociale esistente a quei tempi.»