
La questione impone una riflessione più ragionata, che vada al di là di pregiudizi e grossolane valutazioni, tra chi considera il classico una vieta reliquia e chi invece continua a decantarne il valore pedagogico-formativo. È ciò di cui si incarica meritoriamente il prof. Federico Condello, ordinario di Filologia greco-latina e Letteratura e tradizione classica all’Università di Bologna, nel libro La scuola giusta. In difesa del liceo classico edito da Mondadori.
Come egli stesso afferma sin dalle primissime pagine, il liceo classico «non è affatto la scuola del greco e del latino.» La riflessione si snoda infatti «su cosa il liceo classico sia oggi e che cosa possa ancora essere» quello che «è stato, in molte fasi della sua storia, uno fra i più estesi e impressionanti esperimenti di democrazia formativa e culturale tentati nell’Italia e nell’Europa moderne».
Occorre innanzitutto sfatare il più persistente dei miti, quello relativo alla sua nascita, che fa scattare nei più l’automatismo «liceo classico = riforma Gentile»: «È la legge Casati (13 novembre 1859) , infatti – con le sue antenate dirette, la legge Boncompagni del 1848 e la riforma progettata da Luigi Cibrario nel 1854 –, l’inizio prediletto da buone, spesso ottime storie del liceo classico o dell’istruzione italiana». È questa difatti l’epoca in cui nascono i «più antichi licei classici d’Italia» i cui nomi «celebrano, tutt’oggi, il pantheon letterario, scientifico e politico del Risorgimento, preferibilmente sabaudo e neoclassico e illuministico, ma con più di un «letterato, scienziato o gagliardo pensatore politico» – come recita il Regio Decreto n. 2229 del 4 aprile 1865 – di altra epoca o ambiente, purché ormai arruolato fra i classici nazionali. Di qui, fra gli altri, il Cavour e il Gioberti a Torino; il Parini e il Beccaria a Milano; il Pellico a Cuneo, il Foscolo a Pavia, e naturalmente il Colombo a Genova; a Bologna il Galvani, il Muratori a Modena, il Monti a Cesena e l’Ariosto a Ferrara; il Galilei a Pisa, il Petrarca ad Arezzo e il Dante – omaggio agrodolce – nella neocapitale Firenze; e poi il Vico a Chieti e il Leopardi a Macerata; a Salerno il Tasso e il Sannazzaro a Lecce; il Giannone a Benevento e il Campanella a Reggio Calabria; il Maurolico a Messina e a Trapani lo Ximenes (dove avrebbe studiato Gentile fino al 1893). E via ribattezzando, via rifondando: con molti nomi di eretici e martiri del sapere, scelti apposta per urtare vescovi e preti; e con molti uomini di scienza, come si vede; ma senza nemmeno un antico greco o romano, perché l’istruzione classica si sentiva orgogliosamente moderna».
Senonché «gli odierni storici dell’istruzione suggeriscono sempre più spesso una prospettiva genealogica di lunga durata», ragione per la quale si possono ricercare le radici del classico nelle «esperienze scolastiche primo-ottocentesche del Lombardo-Veneto austriaco». In realtà il metodo seguito ancora oggi, e oggetto di appassionati dibattiti, di studiare prima la «lingua» e poi gli «autori» risale niente di meno che alla Ratio studiorum gesuitica (1599).
Il termine «Liceo» arriva dalla Francia: «dopo essersi diffuso, fra XVII e XVIII secolo, quale generica designazione di università e scuole […] entrò ufficialmente nella nomenclatura scolastica europea con la prima età napoleonica»; «l’aggettivo «classico» – invece – compare nell’uso moderno «nel XVI secolo senza mostrare alcuna specializzazione per gli autori greci e romani». L’espressione «Liceo classico» compare solamente con la Carta della Scuola di Giuseppe Bottai, nel 1939.
Frequentare il liceo classico rappresenta un rito intergenerazionale, che ha spesso coinvolto i padri prima e i figli dopo, con il vocabolario di greco, il mitico Rocci, passato di mano in mano, una tradizione che si porta appresso formule iniziatiche che «solo chi ha fatto il classico conosce […] come «Marmaluòt», che sembra uno spauracchio, ma è stato e rimane un amico quando si tratta di tenere a mente i quattro sciagurati mesi giuliani – marzo, maggio, luglio e ottobre – con le idi e le none fuori posto; solo chi ha fatto il classico conosce […] il misterioso «Enea Maria» – che raduna le vocali tematiche del congiuntivo presente latino – e forse ancora sa recitare il surreale «dic, duc, fac, fer se n’andarono alla guer…».
In realtà il liceo classico, il «liceo “di classe” per eccellenza», «emblema del classismo scolastico» «con il suo strutturale elitismo a base umanistica» «è stato – nei fatti e nei numeri – uno straordinario, coraggioso e riuscito esperimento di democrazia scolastica, volto a rendere patrimonio diffuso quel che per secoli è stato cultura d’élite» anche e nonostante nel frattempo il latino vedesse progressivamente ridimensionata la sua presenza nella scuola italiana: con la legge 1859, approvata il 31 dicembre 1962, e la nascita della scuola media unica e obbligatoria tuttora vigente (c.d. riforma Gui), «il latino si trovò mutato in un ibrido italiano-latino al secondo anno, e in materia opzionale al terzo […] latino che però rimaneva di fatto obbligatorio per chi intendeva iscriversi – previo esame sulla materia – al liceo classico. L’equilibristico compromesso durò meno di quindici anni, e nel giugno 1977, con la legge 348 […], il latino sparì del tutto». La versione dall’italiano al latino agli esami di maturità scompariva invece nel 1968.
Le proposte di riforma, quando si tratta di liceo classico, abbondano, in «un’esuberante fiorita di progetti riformistici, tutti puntualmente finiti in fieno»: dai «progetti di Marino Raicich per il PCI e di Oscar Luigi Scalfaro per la DC» negli anni Settanta alla Commissione Brocca, «che lavorò per cinque anni (1988-1992) e sopravvisse, in quel quinquennio, a ben tre ministri», fino alla riforma Berlinguer (legge 30/2000) e alla più recente riforma Gelmini del 2008-2010.
Il liceo classico è sopravvissuto, pur nella consapevolezza che «quella che fu la scuola per eccellenza» è ormai divenuta «scuola fra le scuole».
Il dibattito sulle sorti del classico e sullo studio delle discipline classiche nella scuola italiana non ha fatto altro che ravvivare l’interesse per il futuro dell’«ambiziosa funzione che tali studi hanno assunto […] entro un contesto di scolarità pubblica diffusa» generando «un’intensa mobilitazione di energie intellettuali e istituzionali» che ha visto moltiplicarsi «le iniziative volte a tutelare o a rilanciare una scuola sentita come una sorta di patrimonio nazionale» dando vita ad una messe di «saggi a favore delle discipline classiche e dei saperi umanistici» che «hanno conosciuto impressionanti successi di pubblico, da L’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine (2013) a Il presente non basta di Ivano Dionigi (2016), da Gli antichi ci riguardano di Luciano Canfora (2014) a La lingua geniale di Andrea Marcolongo (2016) e Viva il latino di Nicola Gardini (2016)» così come «la cerimonia annuale della Notte nazionale del liceo classico, che rintocca ogni 12 gennaio».
Ha forse sintetizzato per il meglio «l’avvenuta, inarrestabile metamorfosi del liceo classico» Claudio Giunta nel suo E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica (2017): «È chiaro che il classico non è e non sarà più la scuola dell’élite, […] il liceo d’eccellenza. […] È e sarà un liceo come gli altri, ma calibrato su quei giovani che, per un pezzo della loro vita o per tutta, vogliono imparare molte cose sul passato e leggere molti libri che non hanno alcuna evidente utilità pratica. Può sembrare una cattiva notizia a quelli che vaneggiano della speciale apertura mentale conferita dallo studio del latino, o della Grande Bellezza che si dischiude solo ai classicisti, o di Zuckerberg che ha inventato Facebook perché ha letto l’Eneide. Ma non è necessariamente una brutta notizia. Un tempo si faceva il classico perché quella era la scuola di chi andava a comandare, o di chi ci provava: il latino e il greco erano una metonimia: averli studiati voleva dire appartenere a un piccolo club di privilegiati… Adesso è e sarà la scuola di quelli che hanno un reale, non metonimico interesse per quelle discipline. Che il numero degli iscritti cali mi pare a questo punto inevitabile, e forse persino auspicabile.»