
Non passa giorno che non ci sia, da parte degli “addetti ai lavori”, un riferimento a prossime riforme. Lo ha fatto recentemente anche il ministro Bianchi annunciando che il prossimo anno l’esame di maturità cambierà. Verrebbe da dire: cambierà ancora, ma senza cambiare nulla. Mezzo secolo di demagogia scolastica, infatti, non si riforma: si sconta. E l’Italia – l’Italia intera, non solo la scuola – sconta la distruzione della scuola italiana che è diventata, ormai, quella che chiamo Post-scuola. Il passaggio delicato nella storia scolastica italiana si verifica tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta: muore la scuola di Giovanni Gentile ma non nasce una nuova scuola. La scuola di massa italiana che ne deriva sarà la distruzione della scuola precedente. Non a caso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta saranno decine e decine le proposte di legge presentate per riformare la scuola di secondo grado ma a quelle proposte non fece mai seguito alcuna riforma. Così accade quel che accade quasi sempre in Italia: il provvisorio diventa definitivo e lo sperimentale – con la famosa commissione Brocca – diventa normale. Ma la mancanza di una riforma non fu solo il risultato dello scontro politico. Fu prima di tutto l’assenza di una visione della scuola. Infatti, “fine della scuola gentiliana” non è un modo di dire ma riguarda precisi provvedimenti che vennero adottati nel 1969 e che togliendo gli esami di passaggio, gli esami di ammissione, garantendo a tutti l’accesso agli studi universitari trasformarono quello che era un uso indiretto e culturale del titolo di studio in un uso diretto e burocratico facendo nascere la scuola di massa nella sua dimensione statale e sindacale. In due parole: la scuola venne smantellata e ciò che restò in piedi fu il valore legale dei titoli di studio che da quel momento è diventato una sorta di pilota automatico della scuola. Il risultato lo avete sotto gli occhi: svalutazione degli studi, perdita di autorevolezza degli insegnanti sia al liceo sia all’università, burocratizzazione delle professioni, crisi delle classi dirigenti. Un capolavoro.
Quali vantaggi offrirebbe l’abolizione del valore legale del titolo di studio?
Nel 1974 Salvatore Valitutti, che è stato senz’altro il maggior conoscitore della storia della scuola italiana e il vero erede di Luigi Einaudi in questo campo, pubblicò un libro, Scuola e libertà, in cui spiegava con grande finezza culturale e precisione istituzionale il passaggio che si sarebbe dovuto fare per riformare e salvare la scuola italiana dal suo declino: dal monopolio della scuola di Stato al modello della scuola libera. Si badi: Valitutti metteva in luce che il passaggio dall’uno all’altro sistema andava fatto nell’interesse della scuola statale. Infatti, mentre il modello monopolistico della scuola di Stato esclude la scuola libera, il modello della scuola libera include l’esistenza della scuola di Stato e, anzi, le offre la concreta possibilità di svolgere il suo decisivo ruolo: garantire il diritto allo studio. Ora, l’abolizione del valore legale del diploma avrebbe nel tempo proprio questo effetto: sgraverebbe lo Stato da un peso eccessivo che non può più sostenere e gli fornirebbe la possibilità di indirizzare al meglio le sue forze.
In concreto abolire il valore legale dei titoli di studio vuol dire, per usare le parole di Einaudi, togliere dal sistema scolastico il veleno che lo stesso Stato gli ha iniettato nel momento in cui ha creato una situazione di monopolio dove ciò che vale non sono il sapere e la formazione bensì il possesso del diploma. Questo capovolgimento di valori che – ripeto – giunge al suo compimento nel 1969, alla lunga è deleterio. Un pezzo di carta, infatti, lo puoi distribuire, regalare, comprare ma il sapere, la cultura, la professionalità si possono solo conquistare. E una società, addirittura una nazione intera, che scambia l’ordine dei valori, si abitua a credere in cose finte ma credere alle finzioni è cosa estremamente pericolosa. Dunque, abolire il valore legale del diploma significa prima di tutto riportare la scuola a scuola e riprendere coscienza con serietà che è necessario studiare per migliorare e per imparare cose che non possono essere sostituite o surrogate dalla carta, dai titoli, dagli spagnolismi. La scuola ha un valore culturale, non pratico-legale. Il primo è la serietà della condizione umana, il secondo un’illusione gestita dal potere organizzato (qualunque cosa sia: partiti, sindacati, ordini professionali). Il primo nasce dalla libertà e crea libertà, il secondo nasce dalla dipendenza e crea dipendenza. La scuola dell’egualitarismo, pan-statale, crea diseguaglianza e alla lunga affossa sé stessa. La Post-scuola, appunto.
Come si articola la proposta di riforma del sistema scolastico presentata nel volume?
Abolire il valore legale dei titoli di studio – diplomi e lauree – significa una cosa concreta: passare dagli esami in uscita agli esami in entrata o dagli esami di licenza agli esami di ammissione. Oggi esistono gli esami di licenza che ci sono alla fine di un ciclo scolastico: esami di licenza media, esame di licenza liceale. Questi esami verrebbero eliminati e sostituiti da esami di ammissione che si dovrebbero sostenere per frequentare la scuola che si sceglierebbe e, lo stesso, per frequentare gli studi universitari. Non ci sarebbe più un pezzo di carta dall’uso legale e pratico da spendere nel sistema dell’istruzione e della ricerca ma si dovrebbe di volta in volta verificare sul campo la reale preparazione per accedere agli studi. Come si può capire, l’inversione del sistema toglierebbe l’indebito valore al pezzo di carta – che la realtà svaluta sistematicamente – per restituirlo alla stessa scuola: allo studio, alla cultura, alla conoscenza. Senza considerare che la riforma sarebbe a costo-zero: cioè non ci sono costi da sostenere.
L’abolizione o svalutazione del titolo di studio comporta tre riforme in una: scuola, amministrazione, professioni. La scuola l’abbiamo visto: passaggio dalla licenza all’ammissione. La riforma della pubblica amministrazione vorrebbe dire la rivalutazione dei concorsi per accedere agli uffici statali: concorsi che non sarebbero più degli esami di Stato scolastici ma degli esami di Stato extra-scolastici. Lo Stato, detto in due parole, deve sapere di cosa ha bisogno e come procurarselo senza rivalersi sulla scuola. In pratica, l’abolizione del valore pratico-legale dei titoli è una liberazione sia della Scuola sia dello Stato. Come si può vedere si disegna davanti ai nostri occhi la classica distinzione di sapere spirituale e sapere temporale. Terzo: trasformazione degli ordini professionali, che ora sono una sorta di lunga mano ministeriale, in associazioni o sindacati. Il valore pratico-legale del diploma è una finzione: si ritiene che il pezzo di carta certifichi non solo le conoscenze ma anche le competenze professionali. Appunto, una finzione. Perché la competenza professionale non è il frutto di nessun certificato ma solo ed esclusivamente del lavoro sul campo. Così avviene per ogni professione e ritenere che il possesso di un titolo dia diritto legale e pratico all’esercizio di una professione è una forma di inganno e perfino di comodo ma miope auto-inganno. Dunque, gli ordini professionali – che sono una specie di corporazioni – vanno semplicemente aboliti e la formazione professionale va messa in campo alle aziende che, del resto, già praticano in concreto questa strada. Ciò che, invece, devono garantire scuola e università è proprio la tanto bistrattata preparazione teorica: la distinzione di teoria e pratica è la premessa per saper imparare la professione sul campo. Così è sempre avvenuto, così sempre avverrà.
Che scuola sarebbe, finalmente, quella liberata dal valore legale del titolo di studio?
Sarebbe, prima di tutto, una scuola che avrebbe di nuovo il tempo della prospettiva del lavoro. A scuola, infatti, si lavora sulla vita e il tempo è fondamentale. L’ho detto prima: cinquant’anni di demagogia scolastica si scontano. Non c’è la bacchetta magica, ma almeno ci si può mettere su una buona strada e uscire dal labirinto senza uscita della Post-scuola.
Sarebbe una scuola libera, inventiva, studiosa, seria e laboratoriale e realmente autonoma. Perché lo studio è un laboratorio in cui chi insegna impara e chi impara insegna. Si uscirebbe dall’equivoco che la scuola è una sorta di “scuola guida”, una scuola di addestramento, un indottrinamento senza dottrina. Non sarebbe più una scuola dottorona e burocratica ma una scuola umile e autorevole in cui il cuore stesso della scuola ossia il rapporto maieutico tra insegnamento e apprendimento verrebbe ridefinito in base alla necessaria ricerca di avere buoni insegnanti per buoni insegnamenti. Sarebbe una scuola plurale, varia che avendo nella società e non nel ministero la sua fonte organizzativa risponderebbe in modo agevole alle esigenze umane e sociali. Oggi la scuola non è plurale ma monotematica: dà a tutti la stessa risposta, ma non tutti hanno bisogno della stessa cosa. Tutti, però, hanno bisogno della scuola. Ma proprio quando si ha bisogno della scuola, la scuola è assente. Ecco, si uscirebbe dal tempo dell’assenza scolastica che, per paradosso, è anche il tempo – mi si passi il brutto termine – della scolasticizzazione di tutto senza ottenere niente.
Giancristiano Desiderio. Studioso del pensiero e della vita di Benedetto Croce del quale ha scritto la biografia in tre volumi: Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce (Liberilibri e Aras). I suoi ultimi libri sono: L’individualismo statalista. La vera religione degli Italiani (Liberilibri); football. Trattato sulla libertà del calcio (Liberilibri); Croce ed Einaudi. Teoria e Pratica del liberalismo (Rubbettino); Teoria generale delle stronzate. Come si distrugge una nazione (Castelvecchi). Scrive per il Corriere della Sera.