
L’aggettivazione è necessaria perché, come si vede anche dai saggi contenuti nel volume, sulla costituzione jugoslava, la prima ad essere pubblicata nell’Europa ormai divisa e poi sull’insieme delle Carte delle “democrazie popolari”, contemporaneamente a quello democratico si sviluppa un costituzionalismo formale nei paesi ad egemonia sovietica, sulla base del modello già sperimentato con le Carte del 1918, del 1924 e del 1936 prima della Russia e poi dell’Urss.
Le costituzioni democratiche non possono non misurarsi con la precedente esperienza novecentesca, ovvero quella del primo dopoguerra, a partire dalla Carta della Repubblica di Germania elaborata dalla Costituente convocata a Weimar. È stata una stagione molto feconda: quelle costituzioni, una dozzina nell’Europa centro-orientale e balcanica, formalizzavano due novità: il catalogo dei diritti sociali e ipotesi di “parlamentarismo razionalizzato”. Testi lunghi, ambiziosi, che disegnavano tuttavia un quadro avanzato in contesti invece ancora alle prese con conflitti e ad alta instabilità. Non è un caso che tutte, ad eccezione della costituzione finlandese, saranno travolte o dal collasso interno, dovuto all’affermazione di regimi autoritari, o dalla guerra.
Così al di qua della cortina di ferro da un lato le democrazie dell’Europa settentrionale e scandinava riprendono il loro percorso, dall’altro le costituenti dei grandi Paesi dell’Europa occidentale, Francia, Italia e il consiglio parlamentare della Germania Ovest riprendono il filo dell’elaborazione costituzionale del primo dopoguerra, cercando di superare le rigidità, assimilando la lezione della storia e riproponendo da un lato un efficace catalogo di diritti sociali, dall’altro forme più o meno riuscite di “razionalizzazione” del sistema parlamentare. Inoltre tutte riconoscevano il ruolo dei partiti nella società democratica.
Si ricollegano direttamente a questa stagione, che ha un’appendice nel 1958, quando viene elaborata la nuova costituzione francese della Quinta Repubblica, le Carte costituzionali dei Paesi reduci da regimi autoritari, Grecia, Portogallo e Spagna e poi, dopo la caduta della cortina di ferro, quelle degli stati dell’Europa centrale ed orientale. Suggella la centralità e la riuscita del processo costituzionale del secondo dopoguerra il fatto che la riunificazione tedesca, che conclude, con la fine dell’unione sovietica il cosiddetto secolo breve, sia avvenuta a costituzione invariata.
Quali vicende hanno condotto alla nascita della Costituzione francese del 1946?
Il percorso costituente francese dopo la Liberazione è molto interessante, anche perché è quello che per alcuni importanti aspetti (ruolo fondamentale dei partiti di massa democristiano, socialista e comunista, consacrazione costituzionale dello Stato sociale, idee di rinnovamento del sistema parlamentare) si presenta come il più vicino al processo costituente italiano. La Terza Repubblica si era dissolta il 10 luglio 1940 con l’atto sacrificale compiuto dal Parlamento a favore del maresciallo Pétain. Poiché tale atto era stato definito illegale dalla Francia Libera di Charles de Gaulle, alla fine della guerra si sarebbe potuto ripristinare tale regime. Invece il 96,4% dei francesi optò tramite referendum per il passaggio a una nuova Costituzione: fu la Costituzione della Quarta Repubblica, che risultò peraltro il prodotto di una vicenda molto travagliata. Infatti, fu eletta una prima Costituente che si caratterizzò per la frattura tra le forze che si erano trovate unite nella Resistenza. Ne scaturì un progetto costituzionale approvato “a colpi di maggioranza” (volendo utilizzare una terminologia divenuta di uso frequente per le riforme istituzionali realizzate in Italia negli ultimi anni). E che fu bocciato nell’obbligatorio referendum di ratifica. Fu necessario così eleggere una nuova Costituente, che con difficoltà adottò un testo che ebbe il consenso questa volta di tutti e tre i partiti di massa. Ormai però lo “spirito costituente” si era piuttosto deteriorato, e la Costituzione definitivamente approvata non assunse, a differenza di quanto sarebbe avvenuto per la Costituzione italiana, un profondo valore simbolico per gli attori politici che l’avevano redatta. In compenso, le due assemblee costituenti francesi furono in grade di attuare numerose riforme legislative, cosa che non avvenne con la nostra Costituente che sotto questo profilo ebbe competenze molto più limitate.
Una particolarità della Costituzione francese del 1946 fu che con essa si tentò di dar vita anche a una riforma dell’imponente impero coloniale (il secondo al mondo dopo quello britannico) costruito in un lungo arco storico. Tra i costituenti vi furono una trentina di deputati (alcuni dei quali, come l’intellettuale senegalese Léopold Sédar Senghor, destinati ad assumere un ruolo chiave nei loro paesi dopo l’indipendenza) che rappresentavano i popoli colonizzati e che diedero un contributo importante ai lavori delle Assemblee. Tuttavia, i fautori della difesa ad oltranza della sovranità francese circoscrissero la portata del nuovo indirizzo riformatore, e l’Unione francese che prese il posto del tradizionale “Impero” fu ben presto colpita da crisi molto gravi e irreversibili.
Quali elementi comuni è possibile ravvisare nei processi costituenti di Austria e Germania?
In realtà dopo la seconda guerra mondiale il percorso della repubblica austriaca e della Germania differisce profondamente, pur arrivando al medesimo risultato.
La Germania è divisa e si producono due costituzioni nuove per i due Stati, sotto la vigilanza delle autorità di occupazione rispettivamente anglo-franco-americana e sovietica. L’Austria invece è “neutralizzata”, come terra cuscinetto tra i due blocchi e, nell’impossibilità di arrivare ad una nuova costituzione, si decide di richiamare in vigore quella del 1920, così come era stata emendata nel 1929, rafforzando la figura del presidente della Repubblica. Così di fatto i due ordinamenti, quello della ritrovata repubblica austriaca, e quello della Germania federale, al termine del percorso diversamente “costituente” risultano entrambi sintonizzati sulla lunghezza d’onda che prima si diceva, cioè sul costituzionalismo democratico e sociale con sistemi di “razionalizzazione” istituzionale. Prospettiva completata, sul piano istituzionale, dalla comune scelta federale, sia pure in una scala di intensità diversa, più accentuata in Germania e più temperata in Austria, da forme di stabilizzazione del parlamentarismo, che valorizzano il ruolo del cancelliere con un ruolo incisivo per la Corte Costituzionale. Sostanzialmente diverso il ruolo del Presidente, che a Bonn è ridotto ad una figura rappresentativa, alla luce dell’esperienza negativa interbellica.
Nell’un caso come nell’altro questo assetto costituzionale è accompagnato da una chiara strutturazione del sistema politico intorno a partiti forti. Con la differenza che il partito socialdemocratico e quello democristiano nella Germania federale rappresentano le due polarità del sistema democratico, in Austria instaurano invece un sistema di grande coalizione permanente, funzionale alla stabilità appunto di uno stato-cuscinetto tra i blocchi. Anche se nel 1966 questa formula sarà sperimentata anche in Germania, dove tutt’ora come sappiamo la cancelliera Merkel guida una grande coalizione.
Il buon rendimento istituzionale della costituzione tedesca ne ha fatto poi un modello per le costituzioni successive nell’Europa iberica e centro-orientale.
Quali specificità caratterizzano il processo «costituente» della Spagna franchista?
Nella Spagna di Franco il processo di edificazione di una struttura di natura costituzionale avviene in maniera graduale: comincia nel corso della guerra civile, nella lotta contro la Seconda Repubblica spagnola fondata sulla Costituzione democratico-sociale del 1931 (che aveva definito la Spagna come una “Repubblica democratica di lavoratori di ogni classe”, definizione che eserciterà una certa influenza anche sulle proposte del PCI alla nostra Costituente), e prosegue nei decenni successivi. Non si giungerà mai a un unico testo: l’impianto costituzionale sarà formalmente definito da sette provvedimenti normativi, adottati con modalità diverse, che verranno chiamati “leggi fondamentali”. Il primo fu il decreto del 1938 che approvò il “Fuero del Trabajo”; l’ultimo la “Ley Orgánica del Estado” del 1967, che completò il quadro normativo modificando alcune delle leggi precedenti. Alcune di queste leggi fondamentali furono elaborate con il concorso delle Cortes, e in alcuni casi si ricorse al referendum. Naturalmente, parliamo di uno Stato retto da principi antitetici a quelli democratici: le Cortes del regime franchista, create nel 1942, erano formate secondo un’idea di rappresentanza organica ben lontana dal concetto di suffragio universale, e i referendum erano dei plebisciti dall’esito del tutto scontato. In realtà, il funzionamento del sistema istituzionale era imperniato soprattutto sulla figura del Caudillo, il “Jefe del Estado” che si autorappresentava come l’unica autorità legittimata a indicare al paese la via da seguire.
Come si esprime il pluralismo democratico nella Costituzione brasiliana del 1946?
La costituzione brasiliana del 1946 rappresenta un punto di passaggio significativo nella storia costituzionale di quel grande Paese, ma anche di quella dell’interno sub-continente americano. Dopo la seconda guerra mondiale assistiamo infatti alla redazione di molte Costituzioni, che, senza identificare, come in Europa, una omogenea “stagione” presentano comunque diversi punti di interesse. Anche se sono l’espressione di una instabilità, che resterà la caratteristica saliente dei sistemi latino-americani.
Nonostante la partecipazione alla guerra con gli Alleati (il Brasile sarà l’unico ad inviare un contingente sul fronte europeo), la pace comporta la fine dell’esperienza dell’Estado Novo, il regime del presidente Getulio Vargas, che aveva governato per 15 anni con una originale formula populista, che echeggiava il corporativismo fascista e si ritira a vita privata.
La costituzione della Quarta repubblica brasiliana è elaborata da una costituente eletta democraticamente, in cui è anche presente un partito ispirato a Vargas stesso: un testo molto lungo ed articolato, che disegna un catalogo di diritti democratico-sociali, e un positivo rapporto stato-chiesa. Dal punto di vista della forma di governo sono ribaditi il sistema federale e un assetto presidenziale all’americana, con un parlamento bicamerale. L’originalità, ma anche il vincolo che la democrazia brasiliana paga in questa costituzione della IV Repubblica – e che annuncia le modalità della sua fine nel 1964 – è il titolo VII, dedicato alle Forze Armate, di cui è formalizzato un vero e proprio ruolo tutorio: “garantire i poteri costituzionali, la legge e l’ordine”.
È il segno di una Carta che garantisce diritti democratico-sociali e istituzioni democratiche, ma è attraversata, così come la società, da contraddizioni che poi risulteranno fatali alla stabilità democratica delle istituzioni. Una vicenda peraltro che accomuna tutti gli stati latino-americani
Quali eventi hanno segnato le vicende costituzionali di Giappone e India?
È classica la definizione della costituzione giapponese, che oggi è la più antica costituzione non emendata nel quadro mondiale, come scritta sotto dettatura del Supreme Commander of the Allied Powers, il generale Douglas MacArthur. In realtà si creò un rapido processo, che coinvolge anche quel che restava di più rispettabile delle élites giuridiche giapponesi in un gioco che coinvolge una commissione redattrice, il comando alleato, il governo e la Dieta, ovvero la camera, eletta nell’aprile 1946 ai sensi della Costituzione del 1889. Formalmente l’approvazione della nuova Carta risulterà pertanto una modificazione della cosiddetta costituzione Meiji, secondo le procedure dettate dalla stessa. Come quella aveva costituito il perno intorno al quale fare ruotare la modernizzazione e lo sviluppo del Giappone, attraverso l’acquisizione di forme giuridico-istituzionali compatibili con gli standard euro-atlantici più avanzati, lo stesso vale per la nuova Carta e il processo che questa garantisce. La nuova costituzione è in effetti un mosaico, costruito da parte giapponese sull’architettura imposta dall’occupante: un risultato raggiunto partendo dalla “dichiarazione della natura umana dell’imperatore” del 1 gennaio 1946. Questa rottura in una storia millenaria è il prezzo consapevolmente necessario per garantire, nella strutturale discontinuità, una costituzione e dunque lo sviluppo di un sistema istituzionale (e dal 1952 di un sistema politico) compatibile con l’identità e gli interessi di quella che presto sarebbe ritornata ad essere una grande potenza mondiale.
Per quanto riguarda l’India, la vicenda costituzionale si interseca ovviamente con quella della conquista dell’indipendenza. Dopo la prima guerra mondiale, con i Government of India Acts del 1919 e del 1935 la Gran Bretagna, che nel governo delle colonie non aveva seguito generalmente il modello centralistico applicato dalla Francia, aveva concesso alcuni rilevanti spazi di autonomia e posto le basi di una struttura federale tra le varie province. Nel 1946 le assemblee provinciali, come fu stabilito dai britannici con il consenso dei principali partiti indiani, elessero i membri dell’Assemblea costituente che avrebbe dovuto redigere la Costituzione da dare al paese nel contesto della prevista indipendenza. L’Assemblea costituente così formata, che si riunì a partire dal dicembre 1946, si caratterizzò però per gli insormontabili contrasti tra la componente indù e quella musulmana, con la conseguenza che tramontò l’idea di dar vita a uno Stato unitario: il conseguimento dell’indipendenza, nell’agosto 1947, si tradusse nella separazione tra l’India e il Pakistan. Dopo questa divisione, l’Assemblea costituente indiana scrisse la Costituzione che entrò in vigore nel gennaio 1950: una Costituzione molto lunga, composta di ben 395 articoli, che se da un lato risultava ispirata al costituzionalismo occidentale di marca soprattutto anglosassone, dall’altro era il frutto di un ripensamento di questa tradizione alla luce dell’identità indiana. L’Assemblea, guidata dal Partito del Congresso che per diversi decenni si sarebbe mantenuto come la forza politica egemone del paese, era riuscita pertanto a dar vita a una costruzione originale, il cui valore, anche in termini di governo di una realtà estremamente differenziata sul piano territoriale, sociale e culturale, è stato nel tempo ampiamente riconosciuto.
Quali prospettive, a Vostro avviso, per il progetto di Costituzione europea?
L’idea di una Costituzione europea si è periodicamente ripresentata nel corso del processo di integrazione. Fu avanzata dalle correnti federaliste durante la seconda guerra mondiale, fu ripresa da molti parlamentari di diversi paesi (riuniti nell’Unione parlamentare europea) all’indomani del conflitto, e sembrò diventare una prospettiva concreta quando, grazie soprattutto all’iniziativa di Alcide De Gasperi, il trattato del 1952 sulla creazione della Comunità europea di difesa (CED) delineò un possibile percorso verso la fondazione di un’unione politica. La mancata ratifica della CED comportò l’affossamento di questo progetto, e di unione politica di stampo costituzionale si ricominciò concretamente a parlare solo con l’iniziativa assunta da Altiero Spinelli nel Parlamento europeo eletto nel 1979. Egli creò il celebre “club del coccodrillo”, gruppo trasversale per promuovere l’idea di un’Europa politica, e guidò il processo di elaborazione del progetto di Unione che il Parlamento approvò nel 1984. I governi seguirono un’altra strada, ma il tema di una Costituzione europea fu rilanciato dal Parlamento europeo nel 1994 e soprattutto fu al centro del lavoro della Convenzione europea negli anni 2002-2003. Da questo lavoro scaturì nel 2004 il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa che fu però bocciato nei referendum di ratifica in Francia e Olanda del 2005. Il Trattato di Lisbona del 2007 ha recepito molte delle norme contenuto nel progetto di Costituzione, ma all’interno della cornice tradizionale dei trattati esistenti e anestetizzandone la dimensione simbolica, destinata a suscitare un sentimento di appartenenza nei cittadini europei. L’assenza, o quanto meno la debolezza, di questo sentimento di condivisione di valori si è fatta drammaticamente sentire con la crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008 e nella prima fase dell’attuale pandemia. La risposta europea a quest’ultima si è fortunatamente concretizzata nei mesi successivi in un grande sforzo finanziario e operativo e su questa base si può riprendere la discussione sul rafforzamento dell’Europa politica, in uno scenario in cui i paesi europei sono sempre meno in grado di far fronte alle sfide del nostro tempo con soluzioni basate sul sovranismo nazionale. È vero però che l’Europa a 27 è sempre più differenziata, e che difficilmente si potrà trovare un’intesa su un percorso costituzionale da tutti condiviso. La pandemia e l’emergenza climatica dovrebbero spingere gli europei a costruire delle nuove forme di integrazione, anche sul piano politico-istituzionale, a cui partecipino innanzitutto i paesi che si rendono maggiormente conto che dai drammatici problemi che stiamo vivendo si dovrà uscire con più solidarietà sovranazionale, e non con il ritorno ai nazionalismi che hanno insanguinato i primi decenni del “secolo breve”.
Francesco Bonini, phd a Sciences-Po e alla Normale di Pisa, è professore ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche alla LUMSA di Roma, di cui è rettore dal 2014. Tra i suoi volumi Lezioni di storia delle istituzioni politiche (Giappichelli 2010), Le istituzioni sportive italiane. Storia e Politica (Giappichelli 2006), Storia costituzionale della Repubblica (Carocci 2007). Da ultimo ha curato con G. Tognon e T. Di Maio, Italia Europea (Studium 2017), con V. Capperucci e P. Carlucci, La Costituzione nella storia della Repubblica. Sette decennali: 1957-2018 (Carocci 2020) e con S. Guerrieri, La scrittura delle Costituzioni. Il secondo dopoguerra in un quadro mondiale (il Mulino 2020)
Sandro Guerrieri è professore ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche alla Sapienza Università di Roma. Tra i suoi volumi: L’ora del Maresciallo. Vichy, 10 luglio 1940: il conferimento dei pieni poteri a Pétain (Il Mulino 2005); Un Parlamento oltre le nazioni. L’Assemblea Comune della CECA e le sfide dell’integrazione europea (1952-1958) (Il Mulino 2016). Ha curato, con U. De Siervo e A. Varsori, La prima legislatura repubblicana. Continuità e discontinuità nell’azione delle istituzioni (Carocci 2004), con P.L. Ballini e Antonio Varsori, Le istituzioni repubblicane dal centrismo al centro-sinistra (Carocci 2006) e con F. Bonini, La scrittura delle Costituzioni. Il secondo dopoguerra in un quadro mondiale (il Mulino 2020).