“La scoperta della prima infanzia. Per una storia della pedagogia 0-3” di Evelina Scaglia

Dott.ssa Evelina Scaglia, Lei è autrice del libro La scoperta della prima infanzia. Per una storia della pedagogia 0-3 edito da Studium. Un’opera in due volumi (vol. I Dall’antichità a Comenio, vol. II Da Locke alla contemporaneità) che esamina la condizione delle bambine e dei bambini nella fascia d’età fra 0 e 3 anni dall’antichità ai giorni nostri: innanzitutto, quando compare per la prima volta un pensiero «intenzionalmente» pedagogico?
La scoperta della prima infanzia. Per una storia della pedagogia 0-3, Evelina ScagliaUn pensiero «intenzionalmente» pedagogico comparve fin dai primordi dell’umanità, quando nel passaggio da una civiltà di guerrieri ad una civiltà di scribi, come ricostruito da Henri Irenée Marrou, la scrittura divenne il principale dispositivo attraverso il quale tradurre in “segni” il sapere fino ad allora maturato dall’uomo attraverso gli occhi, la lingua e le mani, al fine di educare e formare i nuovi nati, sul duplice piano etico e tecnico, per far sì che entrassero a far parte della loro comunità di appartenenza. Non si può prescindere da questa stratificazione di consuetudini, costumi, credenze, miti, per cogliere l’origine remota della paideia, che contiene nella sua stessa etimologia la parola pâis (= fanciullo, figlio). Ed è a questa origine remota che la pedagogia contemporanea dovrebbe guardare, per difendere appieno la sua peculiarità scientifica, non sostituibile, né sovrapponibile a quella di altre scienze. Da qui la scelta di proporre all’interno dei miei due volumi una “storia della pedagogia 0-3” che, facendo tesoro dei numerosi studi condotti negli ultimi decenni nell’ambito della storia dell’educazione, possa contribuire a far emergere la peculiarità del “pedagogico”, capace di abbracciare sia la dimensione empirica (che per millenni vide i più piccoli vittime di emarginazione, abusi e silenzi), sia quella meta-empirica (che implica, necessariamente, il richiamo al “dover essere”, anche nel senso dell’utopia di un mondo migliore, in vista di un costante perfezionamento del proprio agire educativo).

Qual era la concezione greca della paideia?
La paideia greca si caratterizzò per la permanenza di alcuni caratteri e la mutevolezza di altri, in ragione di un progressivo processo di evoluzione storica, che dalla società arcaica di guerrieri decantata da Omero portò alla nascita delle prime poleis e alla democrazia ateniese. Se vi fu una profonda differenza, per esempio, sul triplice piano teleologico, antropologico ed epistemologico nel percorso paideutico di Achille bambino, di Astianatte o del futuro filosofo-reggitore dello Stato platonico, non si può disconoscere il fatto che in tutti e tre i casi l’infanzia era concepita come un periodo da superare il prima possibile, per entrare nell’età adulta, o età del lógos. Questo valse, lo ripetiamo, anche per Platone, che pur si interessò nella Repubblica e nelle Leggi di riformulare il rapporto fra paideia e politeia, mettendo al centro dell’attenzione la trophé, cioè la cura e l’allevamento delle bambine e dei bambini fra 0 e 7 anni, considerata già da Senofonte come un’attività da svolgersi nell’intimità e al riparo delle mura domestiche, per esclusiva mano femminile.

Quale visione era diffusa nell’antica Roma degli infantes?
Per cogliere al meglio la concezione della prima infanzia nell’antica Roma occorre analizzare l’origine etimologica del termine infantes, utilizzato per indicare la condizione vissuta dai bambini dalla nascita alla soglia “fatidica” dei sette anni; essi erano paragonati ai corvi e ai pappagalli, perché erano capaci di articolare suoni, ma lo facevano meccanicamente, imitando senza lógos quanto vedevano e sentivano fare dagli altri. Anche per i romani l’infanzia era un periodo della vita da superare il prima possibile, costellato com’era dal pericolo di morti improvvise o di malattie.

Quali novità nell’educazione degli infanti introduce il cristianesimo?
Le principali novità introdotte dal cristianesimo nell’educazione degli infanti vanno, innanzitutto, ricondotte alla natura della “rivoluzione” introdotta nella storia dell’uomo dalla figura e dall’insegnamento di Gesù Cristo. Vale la pena di richiamare quanto scrisse Benedetto Croce nel Perché non possiamo non dirci “cristiani”, pubblicato dalla rivista «La Critica» nel 1942, nel pieno degli orrori del secondo conflitto mondiale. A fronte delle grandi “scoperte” dell’umanità avvenute nel corso dell’antichità, come l’alfabeto, la matematica, la scienza astronomica, la filosofia, l’arte, la poesia, ecc., ma anche di quelle della modernità, la rivoluzione cristiana fu per Croce «la più grande, comprensiva e profonda», perché «operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità». L’episodio evangelico del Sinite parvulos venire ad me va riletto come emblema dell’affermazione di una nuova paideia, fondata sulla valorizzazione di caratteristiche tipicamente infantili, come l’innocenza, la fiducia spontanea e la purezza, innalzate a virtù. I bambini, riconosciuti come portatori di lógos fin dal concepimento – si pensi all’episodio dei ventri “sussultanti” di Maria ed Elisabetta -, furono indicati dal Cristo come exempla da seguire per entrare nel regno dei cieli.

Come evolve nel medioevo la concezione della paideia?
Il Medioevo, da riscoprire nel suo significato di “ponte” fra l’evo antico e l’evo moderno, rappresentò sul piano della paideia un periodo caratterizzato da una forte ambiguità nella concezione dell’infanzia, per la coesistenza di motivi eterogenei, tra tradizione e innovazione. Accanto ai pueri oblati, donati dai loro genitori ai monasteri – spesso ancora in fasce – e cresciuti secondo un percorso di vita ascetico ma attento alle loro esigenze materiali e spirituali, vi erano gli enfants mal aimés nati nelle numerose famiglie popolari, costretti a combattere quotidianamente con la miseria e l’indigenza, per crescere in fretta e sconfiggere lo spettro della morte infantile. La rivoluzione culturale carolingia e, ancor più, la rinascita dell’XI secolo contribuirono all’avanzata di nuove istanze, volte ora ad una maggiore cura della salute del neonato – si pensi alla diffusione di manuali di divulgazione medica – ora a sensibilizzare il popolo ad una crescita e ad un’educazione più rispettose delle virtù proprie dell’infanzia, attraverso il culto del Gesù bambino raffigurato, per ragioni teologiche, come un fanciullo qualsiasi nella sua quotidianità. Iniziarono ad attecchire, in questo modo, i semi di quel «sentimento dell’infanzia», che avrebbe dovuto attendere la rivoluzione dell’Umanesimo per trovare un terreno pronto ad accogliere la sua piena fioritura.

Qual è la visione del bambino nella paideia umanistica?
Per cogliere al meglio le novità introdotte dalla paideia umanistica, occorre innanzitutto ricordare che l’Umanesimo fu un movimento culturale fondato su una nuova filosofia dell’uomo, non più di tipo aristotelico-scolastico, ma scaturita dalla felice congiunzione fra una nuova teoria dell’educazione contraddistinta dalla fiducia nella natura dell’uomo e la diffusione di attività professionali, come quelle artigianali, che diedero vita all’ideale dell’homo artifex fortunae suae. Il bambino fu considerato, nella perfettibilità della sua natura, il punto di avvio di una progettualità pedagogica finalizzata a formare l’uomo nella completezza delle sue facoltà, a partire dalla pratica di un’osservazione accurata dei «buoni semi» fin dai primi mesi di vita, da parte soprattutto del padre. Come raccomandato da Pier Paolo Vergerio il Vecchio: «è in quella verde età […] che si devono gettare le fondamenta di tutto il nostro vivere, ed informare l’animo a virtù finché sia tenero e capace di ricevere qualunque impronta, la quale, come allora sarà fatta, durerà per tutta la nostra vita avvenire».

Quando si assiste alla formulazione di una pedagogia sistematica?
La formulazione di una pedagogia sistematica, intesa come teoria e pratica dell’educazione, sorse dal felice connubio venutosi a creare fra le istanze scientifiche, sociali e politiche avanzate dall’era moderna e le innovazioni educative suscitate, rispettivamente, dalla riforma protestante e dal rinnovamento cattolico. Jan Amos Comenio fu un autore simbolo di questo processo, perché contribuì alla nascita di una pedagogia come scienza organica dell’educazione, autonoma da tutti i saperi filosofici, teologici, letterari, artistici, ecc., che fino a quel momento si erano occupati di educazione. Egli seppe cavalcare il passaggio dalla paideia alla pedagogia, rispondendo all’esigenza, ormai ineludibile, di formalizzare con un proprio linguaggio e con la ricerca di norme di carattere universale il principio dell’insegnare tutto a tutti completamente, nella maniera più consona possibile alla natura dei processi di insegnamento-apprendimento nell’uomo, dalla nascita fino all’età adulta.

Che cosa propugna l’Illuminismo in tema di educazione della prima infanzia?
L’Illuminismo può essere considerato, sul piano dell’educazione della prima infanzia, come il primo punto di approdo del processo di sviluppo del «sentimento dell’infanzia» avviatosi, come si è visto, fra la tarda età medievale e l’umanesimo. La nascita della scienza igienica, con i suoi attacchi a pratiche tradizionali come la fasciatura dei neonati e il baliatico, la diffusione del modello di famiglia nucleare e il conseguente processo di «privatizzazione degli affetti», l’assunzione da parte delle madri più “illuminate” delle proprie funzioni educative genitoriali in risposta alle esigenze dei loro piccini furono fattori, che contribuirono alla diffusione di una sempre maggiore sensibilità pedagogica nei confronti dei più piccoli. Non si può non ricordare come in quest’alveo si erse l’opera di Jean Jacques Rousseau che, sebbene attenta a tali istanze, le superò in un più ampio e ambizioso progetto pedagogico, fondato sull’affermazione della centralità del principio metafisico della physis.

Come evolve nell’Ottocento la pedagogia?
Se si volessero riassumere, in una breve formula, le principali caratteristiche assunte dalla pedagogia nel corso del XIX secolo si dovrebbe parlare di «pedagogia del popolo e della madre», perché per la prima volta due soggetti considerati tradizionalmente “marginali” iniziarono ad essere riconosciuti come protagonisti di relazioni educative, e non di disciplinamento, condizionamento o ammaestramento. Le sollecitazioni offerte dall’Émile di Jean Jacques Rousseau in tema di educazione secundum naturam trovarono una risposta nella prospettiva pedagogica pestalozziana e in quella fröbeliana, capaci entrambe – attraverso la valorizzazione del ruolo educativo materno e, più in generale, della famiglia quale ambiente educativo naturale – di preparare il terreno ad una vera e propria «pedagogia dell’infanzia». Quest’ultima si avvantaggiò anche della nascita dei primi asili infantili che, su modello della infant school di Robert Owen, contribuirono sia all’identificazione e al riconoscimento in chiave pedagogica della cosiddetta «seconda infanzia» (corrispondente alla fascia 3-6 anni), sia alla fuoriuscita dal “buio” della trophé della «prima infanzia», in nome di quella che Jean-Nöel Luc definì una «pedagogia del movimento, dell’amore, della gioia, dell’intuizione».

Quali sono i principali temi del dibattito pedagogico contemporaneo?
Se la contemporaneità, fin dagli esordi del Novecento, ha conosciuto il movimento dell’educazione nuova e una traduzione sul piano delle pratiche educative, e non solo della riflessione pedagogica, del principio del puerocentrismo, sarà grazie alla “rivoluzione” Montessori e agli sviluppi ulteriori nel secondo dopoguerra che si potrà iniziare a parlare di «pedagogie della prima infanzia».

Nel vol. 2 viene dato spazio, in particolare, a figure come quelle di Adele Costa Gnocchi, Elinor Goldschmied, Emmi Pikler, Loris Malaguzzi, la cui pedagogia “si è fatta” attraverso l’opera delle loro istituzioni educative e la formazione professionale degli educatori. La promozione di un’educazione del neonato all’indipendenza a partire dalla sua capacità innata di autoregolazione, la concezione di bambino come «soggetto di diritti» e portatore di «cento linguaggi», il riconoscimento del valore formativo di ogni experientia di vita quotidiana e del valore aggiunto dell’utilizzo di materiale educativo “povero” e “destrutturato” costituiscono alcuni dei capisaldi delle loro proposte. Queste ultime, va ribadito, si sono contraddistinte rispetto ad altre per il primato accordato al rispetto della personalità originale dei piccolissimi e per la consapevolezza della finitezza di ogni intervento educativo, di fronte all’ineludibile unicità di ogni processo di formazione personale in quanto processo di autoeducazione.

Evelina Scaglia è ricercatrice in Storia della Pedagogia presso l’Università di Bergamo

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