“La Scapigliatura” di Cletto Arrighi

La Scapigliatura, Cletto ArrighiLa Scapigliatura e il 6 Febbrajo
di Cletto Arrighi

«Un’indagine sul significato e sulla diffusione dei termini «Scapigliato» e «Scapigliatura» deve necessariamente partire dalle pagine de La Scapigliatura e il 6 febbraio, il noto romanzo di Cletto Arrighi, al secolo Carlo Righetti, che introdusse nel lessico ottocentesco e portò agli onori della ribalta letteraria due termini mummificati nelle latebre del linguaggio secentesco. Ma dobbiamo chiarire subito che in quel libro i termini hanno un’accezione assai diversa da quella che, come vedremo, andarono via via assumendo.

L’opera dell’Arrighi, ingenua e macchinosa storia, ha come argomento le avventure di sei giovani, appartenenti alla cosiddetta «compagnia brusca», associazione a sfondo patriottico che propone ai suoi membri un programma assai semplice: goder la vita e preparare la rivolta della Lombardia alla dominazione austriaca (la seconda parte del programma è meno determinante della prima). Nel suo complesso la storia è d’impianto tradizionale, di gusto francese, con ricerca di colpi di scena a grosso effetto ove lo sfondo politico-patriottico è pretesto per una facile soluzione del dramma. […] Si tratta di rappresentazione quanto mai convenzionale, senza vivacità di colori e di accenti, condotta su temi privi ormai di qualsiasi suggestione fantastica; l’unica parte positiva del romanzo consiste nella descrizione di quella compagnia, del suo modo di vivere e di comportarsi, sempre in difficile equilibrio tra compromessi e debiti, sempre alla ricerca di un’agiatezza o di un benessere da trovarsi però al di fuori del lavoro. Dei giovani patrioti – li chiameremo così – protagonisti del suo racconto, l’Arrighi traccia un non superficiale ritratto nell’introduzione al romanzo, ritratto che è anche una fedele espressione di quel che lo scrittore intendeva allora per Scapigliatura: «In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste – scrive il Righetti – una certa quantità di individui di ambo i sessi fra i venti e i trentacinque anni, non più, pieni d’ingegno quasi sempre, più avanzati del loro tempo, indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; irrequieti, travagliati, turbolenti – i quali – o per certe contraddizioni terribili tra la loro condizione e il loro stato – vale a dire tra ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca – o per certe influenze sociali da cui sono trascinati, o anche solo per una certa particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, o infine per mille altre cause, e mille altri effetti, il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano d’essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte le altre. Questa casta o classe – che sarà meglio detto – vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dai manicomi; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti; – io l’ho chiamata appunto la Scapigliatura…» […]

Sostanzialmente questa introduzione riproduce la presentazione del romanzo, comparsa, a firma dello stesso Arrighi, nell’«Almanacco del Pungolo» per il 1858 […]. Nella presentazione, però, troviamo un lungo brano – di cui mi limito a dare un breve saggio – che sarà espunto nell’introduzione del romanzo e che assai bene sottolinea la novità del termine introdotto dall’Arrighi e la coscienza che di tale novità egli sentiva nei riguardi dei suoi contemporanei: «Avvenne che un bel giorno – scrive l’Arrighi – dovendo pur trovare un titolo… mi trovai nella necessità di coniare un neologismo o di andare a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo… Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio… Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta. Infatti tra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose cosi a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, ehi: una chioma arruffata, e chi, finalmente – e costui fu un letterato – una vita da débauché; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontano le mille miglia dal qual significato in cui m’ero proposto di adoperarla io.» […]

E mi sembra che quel gruppo di giovani generosi, e squattrinati, senza – si badi bene – tendenze artistiche da prendere in seria considerazione, dediti alla bella vita assai più che alla pittura, alla poesia o alla musica, quei giovani, dicevo, appaiono nella Scapigliatura e il 6 febbraio già ben disegnati nelle loro ingenue caratteristiche, messe in luce con un candore che è di tutta l’opera di Arrighi, fino alle più banali macchiette del suo teatro comico. Ma il termine appare non più di due o tre volte (a parte l’introduzione) nel corso del romanzo e nella conclusione della vicenda si colora di romantico compiacimento: «Erano vissuti da scapigliati, erano morti da eroi. Da certi uomini gravi furono chiamati assassini…»; il finale del romanzo vuole riabilitare la vita oziosa dei giovani e riabilitare anche, in chiave romantica, la loro spensieratezza contrapponendola alla gravità degli uomini dabbene, dei borghesi contro i quali l’Arrighi spunta più d’una lancia, quasi per creare, con la sua «Scapigliatura», un contraltare sentimentalmente suggestivo alla genìa dei benpensanti privi di qualsiasi entusiasmo umano o patriottico. […]

Così il termine apre un altro capitolo della sua storia: nella stessa pagina dell’Arrighi esso assume una curiosa ambivalenza; da un lato è usato per indicare una classe di individui che si muove sempre, per colpa propria o altrui, ai margini della legge; dall’altro rimane a definire una particolare schiera di giovani anticonformisti, avversi a ogni forma di vita borghese, allegri e spensierati soci di quelle brigate squattrinatissime che riempivano le osterie della Milano romantica. […]

Quindi, neppure nel caldo clima patriottico-garibaldino l’espressione perde quella sottolineatura decisamente negativa che aveva nelle pagine della «Cronaca grigia». Sottolineatura che, anche fuori del dominio giornalistico e letterario del buon Cletto, il termine sembra conservare, almeno in un primo tempo, a scapito dell’altra accezione, quella di svagato perdigiorno senza soldi o, se vogliamo, di uomo squattrinato con ambizioni artistiche e letterarie, nel qual caso si usa di preferenza la vecchia definizione di bohéme.

Dobbiamo ora osservare che il termine, negli anni che andiamo indagando, è particolarmente diffuso soprattutto nel linguaggio giornalistico, e alludo ai giornali più aperti ad ogni tipo d’innovazione, sia di costume che di vocabolario; non per nulla il «dottor Etico» – che altri non era se non Cesare Tronconi – dando vita, il 17 dicembre 1866 a un nuovo foglio milanese, lo chiamava «Lo scapigliato», proponendosi di sottolineare, nel titolo stesso, la volontà di romperla con gli schemi borghesi, il desiderio di rinnovamento, l’incapacità di adagiarsi nei luoghi comuni, ma non fino al punto di offendere le leggi della morale […].

Il termine «scapigliato» appare difatti con singolare frequenza nella letteratura memorialistica garibaldina di questi anni […] Ma soffermiamoci un attimo su uno dei termini che rappresenta ormai l’equivalente di scapigliato: perduto […]. Annunciando «La strenna del 1876» promossa dalla «Mafia rosa», organo ufficiale della scapigliatura genovese, […] «La plebe», nel suo numero del 3l dicembre 1875, salutava appunto gli scapigliati liguri osservando: «Ecco in poche parole di che si tratta: sono i soliti bohémes della letteratura che quasi sempre le presenti condizioni della società condannano a forzato silenzio e a non geniali lavori; sono giovani che hanno più fede di quel che non voglian credere, sono perduti che combattono colla intrepidezza del mazziniano, colla tenacità del garibaldino, colla pazienza del socialismo.»

Dopo il ’70, infatti, nel clima polemico determinato dalle discussioni sull’arte realista, l’anticonformismo, che costituiva la carica essenziale del termine che studiamo, era esploso in direzione ben prevedibile: negli accesi dibattiti di quegli anni si riscopre anche la letteratura della vecchia bohéme francese […] Bohéme o spostato, scapigliato, refrattario o perduto è chiamato chiunque si ribelli alle convenzioni e segua una strada nuova. Tali termini sono usati indifferentemente dal Cameroni e dai suoi riecheggiatori; la Comune è vista come il banco di prova, il luminoso altare di questi scapigliati, e la lotta politico-sociale caratterizza più decisamente d’ogni impegno letterario, la fortuna del termine.

Nel campo strettamente letterario scapigliato diventa sinonimo di realista, e «realismo scapigliato» è la definizione che si dà all’arte nuova, alla poesia d’avanguardia: vero scapigliato è quello scrittore che non soltanto combatte per una letteratura realista, ma persegue anche ideali d’arte socialmente engagée. […] Ma, dicevamo, l’area d’impiego del termine è ora fondamentalmente in campo sociale, ove il vocabolo assume quella coloritura che lo caratterizzerà a lungo, sino a farne in qualche modo una chiave per penetrare nella sordida povertà di certi ambienti, per aprire le porte di quelle soffitte nelle quali – accanto al poeta e al pittore squattrinati in attesa della gloria – si muove una schiera di individui perseguitati dalla miseria e dalla fame. […]

A questo punto ci viene nuovamente incontro Cletto Arrighi, il quale nella sua «Cronaca grigia» aveva sempre combattuto una vivace battaglia a favore dei poveri, di coloro che le leggi trascuravano o dimenticavano, e che tra il 1876 e il 1880 era divenuto collaboratore di giornali che ponevano il problema sociale all’ordine del giorno […]. Se I quattro amori di Claudia, infatti, ci ripropongono il termine nelle oscillanti accezioni alle quali ci ha abituato la pagina del buon Cletto, un nuovo tipo di scapigliato sarà il protagonista de La canaglia felice, quel Carlo Rey, vittima innocente di una serie di raggiri, che in mezzo ai «locchi» milanesi riuscirà, dopo molte vicissitudini, a far trionfare le sue ragioni. Ma l’ambiente è ormai ben diverso da quello de La Scapigliatura e il 6 febbraio: venticinque anni di esperienze e di incontri hanno fatto di Cletto Arrighi il romanziere che con prodigiosa prontezza ha assimilato il verbo verista e lo bandisce in ogni campo delle attività artistiche: […] lo scapigliato Filippo Mailiani, protagonista di Nanà a Milano, è il solito bravo giovane, costretto a mettersi in una losca impresa in seguito ai debiti di gioco contratti per amor di Nanà, ma le pagine di Arrighi – abbandonate ora la storia e la politica – si infiammano per il problema del riscatto sociale […]. Così gli scapigliati divengono «canaglia», e come venticinque anni prima Arrighi si era proposto di richiamare in vita un termine suggestivo e dimenticato, ora si propone di rivalutarne un altro alla luce dei nuovi problemi che la società del suo tempo validamente poneva; la bolletta dello scapigliato – fuori ormai d’ogni preoccupazione letteraria o artistica, assai marginale d’altronde anche nel primo Arrighi – diviene la bolletta della canaglia che non sa come vivere; quell’interesse per gli umili, che era una delle bandiere della «Cronaca grigia», ora diviene interesse preminente […].

È questo il nuovo ambiente nel quale si muovono gli scapigliati di Arrighi, non più spensierati perdigiorno senza un domani, sì bene esemplari documenti di quell’ingiustizia sociale che condanna l’esistenza del povero.»

tratto da Alle origini della Scapigliatura di Gaetano Mariani, in «Convivium» 1961

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