“La santità in Occidente. Introduzione all’agiografia medievale” di Giovanni Paolo Maggioni

Prof. Giovanni Paolo Maggioni, Lei è autore del libro La santità in Occidente. Introduzione all’agiografia medievale, edito da Carocci: innanzitutto, cos’è un santo?
La santità in Occidente. Introduzione all’agiografia medievale, Giovanni Paolo MaggioniCon la parola “santo” si intende una persona onorata dalla Chiesa con un culto pubblico e canonizzata (attraverso processi che sono variati di molto nei secoli) o considerata tale, una figura oggetto di venerazione che compartecipando già ora, prima del Giudizio finale, della gloria di Dio può intercedere presso di lui in favore degli uomini in vita su questa terra. L’esempio immediato è quello del ladrone crocifisso, santificato come san Disma, a cui Cristo secondo il Vangelo di Luca sulla croce disse, .”In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23, 43). Si è però santi, perché qualcuno ci considera santi, si potrebbe dire. C’è un livello di santità popolare, culti che nascono e si affermano anche a prescindere dalle opinioni in proposito della Chiesa e che in ultimo possono venire accettati, e ci sono modelli di santità che vengono proposti alla comunità dei fedeli per così dire dall’alto, e che possono essere diversamente accolti. In ogni caso, fondamentale per una corretta interpretazione della storia della santità e della disciplina agiografica è la distinzione tra culto e leggenda (si indica con questo termine i testi “da leggere” per conoscere un determinato santo). È infatti importante distinguere tra culti di santi e testi che parlano di santi, poiché, è un’ovvia considerazione, le due cose non coincidono, potendoci essere culti senza testi che ne parlano e (più raramente) testi agiografici che non corrispondono effettivamente ad alcun culto devozionale. Questo è tanto più vero in quanto gran parte delle leggende agiografiche, e soprattutto quelle che riguardano i martiri, sono state scritte alcuni secoli dopo il martirio da persone che non avevano alcuno strumento, se non la propria immaginazione, per ricostruire la verità storica. L’immagine del persecutore che si accanisce sul corpo del (o della) martire per ottenere l’abiura è dunque falsa e non corrisponde allo scrupoloso rispetto del diritto romano da parte degli inquirenti, tanto è vero che Paolo di Tarso viene portato, in quanto cittadino romano, senza torcegli un capello a Roma. Il processo si concludeva con l’ammissione di colpa e che poi la condanna capitale potesse essere eseguita in modo fantasiosamente cruento nell’arena è un altro discorso.

La figura del santo presenta comunque alcuni aspetti fondamentali che vanno tenuti in conto. Innanzitutto bisogna considerare da una parte la sua ammirabilità, la meraviglia che i prodigi a lui legati producono, e dall’altra la sua imitabilità, l’esempio che ha offerto durante la sua vita e che può indirizzare i fedeli sulla via della salvezza. Il santo nei cieli (così come in vita) può intercedere e produrre prodigi e segni nella vita quotidiana degli uomini, modellando la cultura e il folklore; è dunque colui che produce miracoli, i quali inducono meraviglia e rispetto sacrale e fanno di lui un uomo ammirabile e ammirato; è il patronus che, dopo aver vissuto seguendo il modello di Gesù, grazie alla comunione con Dio soccorre e protegge l’uomo nella sua quotidianità. Il miracolo è richiesto quindi come prova nel processo di canonizzazione, come testimonianza dell’intima comunione con Dio. Il santo per le sue opere imitabili è però anche un modello per la comunità ecclesiale, ponendosi in un contesto intellettualmente e culturalmente più alto. Nella figura agiografica ci sono dunque due polarità, una estremamente lontana, il cielo, la vicinanza con Dio, l’altra estremamente vicina, la terra, la vita quotidiana. Tra questi due poli sta il santo, vicino a Dio, partecipe della Sua gloria, oggetto di rispetto e di venerazione, ma anche vicino a coloro che lo venerano, che lo possono prendere a modello e che possono beneficiare dei suoi prodigi. Per questi motivi la figura del santo, così come ogni altro aspetto della sacralità religiosa, è estremamente importante per comprendere una cultura e per interpretare alcune correnti d’opinione che possono orientare il pensiero comune. Non è inutile dunque chiarire dove nasca la fama di santità che sta alle radici di ogni processo di canonizzazione. Anche ai giorni nostri si può riconoscere l’indubbia forza della santità popolare che dal basso riesce a forzare le eventuali diffidenze e resistenze della Chiesa ufficiale. Si può anche riconoscere una dinamica inversa, quando la Chiesa, dall’alto, investe autorevolmente un santo onorato localmente proponendolo all’intera comunità ecclesiale come modello, al di là dell’angusto ambito cronologico o geografico dov’era vissuto e dove era venerato da una piccola comunità locale. L’ammirabilità, l’imitabilità, la fama popolare di santità, la proposizione di modelli di comportamento sono elementi importanti da considerare per comprendere l’istituirsi di un culto e lo svilupparsi di una tradizione agiografica.

A quando risale la nascita del culto dei santi? Esistevano figure di santi prima del cristianesimo?
Alla fine del iv secolo, con Ambrogio e Agostino il culto dei santi nel cristianesimo ha acquisito una dimensione ufficiale, ma si è trattato dell’esito di un lungo e travagliato percorso che affondava le radici nella variegata cultura del Mediterraneo di molti secoli prima. Una prima questione da affrontare per quanto riguarda la nascita del culto cristiano dei santi e la sua novità rispetto alla tradizione ebraica e pagana è quella dei miracoli, cioè dei prodigi che vanno al di là e contro il corso naturale degli eventi. Da sempre sono esistiti uomini a cui sono stati attribuiti prodigi e meraviglie. Gli Ebrei e i pagani vedevano i miracoli di Gesù e degli apostoli non diversamente da come giudicavano i prodigi dei molti stregoni di cui il mar Mediterraneo brulicava e di cui danno testimonianza gli stessi Atti degli Apostoli. D’altra parte nella cultura ebraica l’aspettativa messianica comprendeva necessariamente un’attenzione rivolta alla produzione di segni palesi e di prodigi, con i quali si sarebbe rivelata da parte di Dio l’autentificazione del Messia. I vangeli sottolineano infatti il potere taumaturgico di Gesù, sia per mezzo del Padre che è in lui compiendo le sue opere (come si dice nel vangelo di Giovanni), sia per la potenza che esce da lui, come nel caso dell’emorroissa, annotando che Giovanni Battista non fece alcun miracolo significativo; nello stesso tempo però mostrano come Cristo stesso si sia rifiutato di produrre miracoli spettacolari senza ragione davanti ai farisei, imponendo talvolta il silenzio sulle sue guarigioni miracolose e che abbia più volte sottolineato che anche i farisei espellevano i demoni e che segni e prodigi sarebbero stati prodotti da falsi profeti. Rispetto poi al mondo classico, c’è una differenza tra il prodigio meraviglioso della tradizione tardoantica e il miracolo della tradizione ebraica e cristiana: il miracolo tardoantico è un fatto meraviglioso, che abbaglia per la sua straordinarietà, come del resto mostra l’etimologia dei termini greci e latini (thauma o mirabilia), mentre il miracolo cristiano e giudaico, riconducibile a Dio stesso o a personaggi straordinari, che ne sono strumenti, è innanzitutto corrispondente e discendente dalla volontà di Dio ed è in un certo senso provvidenziale. In ogni caso, è evidente la santità cristiana ha un profondo legame con il miracolo, con il segno della potenza divina: i segni sono stati dati da Gesù fino al più grande di tutti, la resurrezione, e ogni santo incarna il modello di Gesù. Un’altra grande e importante questione riguarda lo stretto legame che il culto cristiano dei santi ha con i resti mortali su questa terra. Il culto dei semidèi era già presente nell’antichità nell’area mediterranea, ma il punto discriminante rimaneva l’insanabile contraddizione tra corpo e anima, tra spirito e materia, che permeava tutte le visioni del mondo predominanti. La morte, la liberazione dell’anima dai vincoli e dai difetti del corpo, era vista come il finale superamento dell’imperfezione umana. Qui si riscontra una differenza fondamentale rispetto al culto cristiano dei santi: la separazione tra corpo e anima, creatasi con la morte, con il corpo deposto e lasciato alla corruzione naturale nella tomba e l’anima elevata al cielo è solo temporanea, la resurrezione della carne postula una riunione finale e perfetta a ricomporre l’antica dualità. In altre parole, la naturale contrapposizione tra aldilà e aldiqua, tra cielo e terra, anticipata da qualche traccia nella cultura giudaica, ebbe un’evoluzione importante nel cristianesimo, con la creazione di un centro focale nella tomba dei “santi”. Si riconosceva infatti in essa, così come nella tomba dei patriarchi, un punto di intersezione tra cielo e terra, un luogo terreno dove aldiqua e aldilà in un certo senso coincidevano.

Invece per gli eroi greci, la cui figura cultuale può essere in un certo modo accostata ai santi cristiani, come Eracle, vivere è innanzitutto agire e in questo si rivela la loro virtù, la loro areté: vivere senza agire non è vivere degnamente e dimostrare il proprio valore è preferibile a una vita ingloriosa. Un esempio evidente di questa considerazione è Achille, preso a modello da Alessandro Magno e da Cesare, consapevole di andare verso la morte certa, nella cui figura viene espresso il concetto che è meglio morire che tradire il proprio valore. E in questo la figura di Eracle diventa anche esempio di sopportazione martiriale, la sua sapienza viene dalla paziente accettazione delle fatiche, non dai libri. La sua vita viene dunque considerata come una successione di prove e la sua figura diventa così esempio per i cinici e gli stoici, contribuendo alla costituzione di una visione culturale che si dimostrerà fertile per il culto cristiano dei martiri. Ma va ripetuto che, oltre al fatto che la santità viene da Dio, una delle caratteristiche principali che distinguono il culto cristiano dei santi da quello classico degli eroi è la diversa considerazione nei confronti del corpo e, soprattutto, riguardo al corpo deprivato dell’anima, il cadavere. Romolo ed Eracle vengono assunti in cielo e i loro resti sono lontani dagli occhi degli uomini. In modo corrispondente, nell’antichità i cadaveri, o anche solo la loro vista, erano osceni e contaminanti, mentre nel cristianesimo vi è una grande venerazione per i corpi umani, anche per la fede nella resurrezione della carne che lo contraddistingue, il corpo non è una salma, un bagaglio che non ha più alcuna funzione e deve quindi essere bruciato o comunque eliminato, ma è considerato ancora come parte importante della persona defunta. Per quanto riguarda i santi, la loro tomba può unire cielo e terra e la loro anima è in stretto collegamento con quello che resta del corpo, sfruttando su questa terra quella potenza che deriva dalla compartecipazione con la gloria di Dio.

Come si diventa santo? Quali erano, nel Medioevo, le modalità di canonizzazione?
All’inizio la fama di santità, quella che poi divenne legata a un processo di canonizzazione progressivamente sempre più regolato, era frutto di un’opinione popolare che nasceva dal basso e che ovviamente i vescovi cercavano di controllare e di indirizzare, sia in senso positivo (incoraggiando e patrocinando il culto di un santo), sia in senso negativo (opponendosi e svelando l’origine ambigua o addirittura truffaldina del culto). Due esempi possono illustrare gli alterni esiti dell’intervento vescovile. Intorno al 414 ad Alessandria d’Egitto il patriarca Cirillo (anche lui futuro santo) cercò di far onorare come santo Ammonio, coinvolto e ucciso nel quadro degli scontri contro il prefetto augustale Oreste, facendo collocare il cadavere in una chiesa e cambiandogli il nome di Taumasio, ma incontrò numerose resistenze da parte della popolazione che considerava quel personaggio come un fanatico che aveva semplicemente trovato la morte che meritava. Sulpicio Severo racconta invece di come Martino di Tours si era reso protagonista di un episodio di senso contrario, intervenendo a proposito di un altare che era stato consacrato a un martire, non lontano da Tours. Martino condusse una sorta di indagine, interrogando gli anziani della chiesa locale, in cerca di informazioni sul santo venerato e sulle circostanze del suo martirio. Non avendo ricavato nulla di certo, si recò sul luogo e fu illuminato da una visione: il santo era in realtà un brigante condannato a morte che scontava la sua pena all’inferno ed era onorato indebitamente dal volgo. Martino provvide dunque a rimuovere l’altare e a sradicare quel culto superstizioso. Alla relativa facilità con cui poteva nascere un culto, influenzando le dinamiche sociali e politiche all’interno di diversi territori, cercarono di porre un argine le autorità civili ed ecclesiastiche. In epoca carolingia alcuni capitolari di Carlo Magno e di Ludovico il Pio riservano ai principi o ai vescovi il diritto di traslare reliquie, di fatto ponendo sotto il proprio controllo eventuali iniziative delle comunità locali. Di fatto, l’esumazione delle reliquie di un santo ad opera del vescovo – e quindi il suo riconoscimento ecclesiale – equivaleva all’approvazione del culto ed era una data solenne come l’anniversario della sua morte o anche più solenne, visto che se le due date non coincidevano, quella della traslazione veniva spesso preferita per la celebrazione annuale. In ogni caso, la regolamentazione carolingia non ebbe un’applicazione uniforme, anche in ragione del grande traffico di reliquie, soprattutto da Roma, inesauribile deposito, anche per lo sfruttamento delle catacombe, verso Francia e Germania. Il possesso di una reliquia garantiva devozione, miracoli, pellegrinaggi e il rafforzamento del clero locale. In questo senso, le reliquie tradizionalmente derivate da massacri collettivi, come le 11.000 compagne di Orsola o i martiri della legione tebana capitanati da Maurizio, erano una fonte inesauribile e si può ben capire i procedimenti mentali che hanno portato a fraintendere l’iscrizione che indicava in xi (undici) il numero delle vergini di Orsola nell’viii secolo, moltiplicandolo per mille nei calendari di Hereford e di Colonia nel ix secolo. Era dunque inevitabile che si cominciasse a sentire l’esigenza di un maggiore controllo e infatti già nel ix secolo nei territori imperiali tedeschi alcuni vescovi si consultarono in sinodo, a diversi livelli, prima di procedere a una traslazione. La data che tradizionalmente indica l’inizio delle canonizzazioni pontificie e dunque del progressivo controllo papale sui culti dei santi è il 993, l’anno in cui Giovanni xv a Roma proclamò santo Ulrico vescovo di Augsburg, morto vent’anni prima. In realtà si trattò di un fatto episodico, non dell’inizio di una prassi. Semplicemente, il nuovo vescovo della città, Liutolfo, aveva presentato al sinodo romano un libro attestante la vita e i miracoli del suo successore, in modo da portare maggior gloria alla sua venerazione con una proclamazione pontificia che avvenne subito dopo con quella che si potrebbe considerare la prima bolla di canonizzazione, che annunciava a vescovi e abati il nuovo santo. La cosa non ebbe seguito immediato, se non per una lettera di Benedetto viii (1017-24) al marchese Bonifacio di Mantova con la quale autorizzava la costruzione di una chiesa e la traslazione dell’eremita Simeone di Polirone ‘da poco santificato’, scrivendo esplicitamente che ‘se il corpo è così reso illustre da miracoli come il vostro uomo ci ha riferito, costruite una chiesa, collocatevi il corpo ‘, dove è visibile una distinzione tra l’essere santificato (da Dio, evidentemente, come testimoniano i miracoli) e trattare come santo, cosa che veniva autorizzata dal papa con la sua lettera. Ma ancora una volta come in altri casi, si trattava semplicemente di rendere più illustre la venerazione del santo con una ratifica papale che l’avrebbe messo in condizioni di privilegio rispetto a culti per così dire concorrenti. Il pontificato di Gregorio vii (1073-85) con l’esaltazione del potere del papa portò come naturale conseguenza l’accresciuta e indiscussa autorità del pontefice sul riconoscimento dei nuovi culti. Il primo passo fu una maggiore attenzione al fatto che i miracoli fossero verificati come tali: Urbano ii (1088-99) chiese garanzie in tal senso e Callisto ii nel 1120 pretese che fossero portate testimonianze affidabili per approvare il culto di Davide di Menevia e quindi per favorirne la diffusione oltre l’ambito locale delle isole britanniche. Poco tempo dopo, a partire dal pontificato di Eugenio iii (1145-53) si incontrano casi in cui la sede papale proclamò canonizzazioni anche senza la presenza di un sinodo vescovile, sostituendo le autorità locali con un ristretto gruppo di cardinali, in genere tre, che fungevano in questo caso da consiglieri del papa. Ancora una volta però, non si tratta di una prassi normativa, ma le canonizzazioni papali, indirizzate all’intera comunità ecclesiale, avevano sicuramente più prestigio rispetto alle traslazioni vescovili, per forza di cose ristrette a un ambito che travalicava difficilmente i confini della diocesi. Alessandro iii (1159-81) fornì invece un solido precedente per l’avocazione a Roma delle cause di canonizzazione negli anni a venire. Nel 1171 (o nel 1172) scrisse al re di Svezia una lettera in cui un paragrafo, che aveva tra le parole iniziali audivimus, inibì a lui e ai suoi il culto del suo predecessore, ucciso mentre era ubriaco. Quand’anche fossero stati prodotti miracoli non importava, mancando l’autorizzazione papale. Beninteso, anche questa lettera non fu normativamente intesa a disciplinare il sorgere dei culti nell’intera cristianità occidentale, ma nonostante le cose procedessero più o meno come al solito, un precedente era stato costituito. Questa parte, definita in seguito con la sola parola audivimus, entrò come breve nelle decretali di Gregorio ix nel 1234 e divenne da quel momento un punto fermoper i processi di canonizzazione. All’inizio del xiii secolo sotto il pontificato di Innocenzo iii (1198-1216) la bolla relativa a santa Cunegonda affermava a chiare lettere l’esclusività papale nel giudizio di canonizzazione, legata alla plenitudo maiestatis che era propria del solo pontefice. Nel frattempo, per un maggiore controllo sull’effettiva santità di coloro che venivano portati sugli altari, in Italia, dove oltre a risiedere la curia papale esisteva una tradizione notarile, si iniziò a verificare l’effettiva esistenza delle prove di santità con inchieste che sfociarono in un processo di canonizzazione. Il più antico conservato è quello del 1185 relativo a san Galgano, il santo eremita morto nel 1181 di cui è celebre la spada nella roccia visibile nell’abbazia omonima a Montesiepi. Alla presenza di un cardinale e di due altri commissari pontifici, venti testi giurati deposero testimoniando quasi esclusivamente sui miracoli che provavano la santità di Galgano. Si trattava, pur nella sua struttura primitiva, del primo esempio di quello che qualche decennio dopo sarebbe divenuto il processo di canonizzazione. Il periodo chiave per l’istituzione del processo di canonizzazione fu senza dubbio il già citato pontificato di Innocenzo III. In particolare il papa si sforzò di ridimensionare il ruolo che indubbiamente rivestivano i prodigi acclamati nell’immediato riconoscimento della santità da parte di una festante comunità locale, non solo i prodigi, ma anche la vita stessa della persona doveva essere esaminata scrupolosamente, poichè nel modello di perfezione che si stava affermando le virtù avevano una importanza sempre maggiore. Da una parte a essere comprovate erano le doti spirituali della persona, dunque il suo essere imitabile, e dall’altra i prodigi che ne sancivano la sua compartecipazione alla gloria di Dio e contemporaneamente la sua efficace presenza nella devozione popolare. A fronte del progressivo irrigidimento delle procedure del processo di canonizzazione e della severità nelle verifiche giudiziali va però registrato, in senso contrario, un sostanziale disinteresse della Chiesa per le devozioni popolari che si accentuò soprattutto dopo la fine del xiii secolo. Dopo le riforme gregoriane e la maggiore attenzione per le figure di santità contemporanee, si è visto come i modelli agiografici fossero caratterizzati da un’azione visibile nell’esercizio delle virtù quotidiane ed efficace nella società. A partire da Thomas Becket e Bernardo da Chiaravalle per arrivare a Pietro martire e Luigi ix, passando per Francesco, Antonio di Padova e Domenico – solo per fare alcuni esempi – le canonizzazioni corrispondono a una santità per così dire moderna, percepita anche a livello sociale, tra l’altro efficace nella lotta contro i movimenti ereticali, sia dal punto di vista etico, mostrando una vita evangelicamente austera, sia dal punto di vista dottrinale, celebrando Dio creatore di tutte le cose. La devozione popolare, anche per impulso delle grandi campagne di predicazione degli ordini mendicanti, crebbe senza precedenti, ma fino alla fine del Duecento fu indirizzata e trovò corresponsione nei santi canonizzati (che per altro in larga parte erano appunto francescani e domenicani). Il fervore perdurò e continuò a crescere, privilegiando i santi “nuovi”, vicini alle necessità quotidiane, a prescindere che vi fosse in corso un processo di canonizzazione o meno, senza che la Chiesa intervenisse. Così si creò una sorta di doppio binario, da una parte i santi veri e propri, ufficialmente canonizzati dalla Chiesa a seguito di un lungo e rigoroso processo, dall’altra i santi della devozione popolare (come san Rocco, la cui devozione nasce durante le epidemie di peste del xiv-xv secolo, ma la cui canonizzazione è del 1629). Si sviluppò anche una distinzione lessicale tra i termini, fino ad allora sinonimi e intercambiabili, sanctus e beatus, riservando il termine “santo” a coloro che erano stati debitamente canonizzati mediante le procedure ecclesiastiche e definendo “beati” tutte le altre figure oggetto della devozione popolare. Con la Riforma, in buona parte della cristianità si afferm. il concetto che solo Dio è “santo” e solo Cristo è l’intercessore. L’uomo, con le sue imperfezioni, non può arrivare a essere un modello di perfezione e tantomeno essere oggetto di culto. Parallelamente, per la cristianità riformata i testi agiografici persero ogni interesse, e gli studi si concentrarono sulla Bibbia. Con la Controriforma, la Chiesa cattolica di fronte a questo attacco radicale al culto dei santi si arroccò a difesa della venerazione cultuale. Da una parte, a livello di vertice, approfondì gli studi scientifici sui testi agiografici e irrigidì la normativa per la canonizzazione, dall’altra, a livello della devozione popolare, accentuò l’aspetto solenne e meraviglioso delle feste di canonizzazione e delle ritualità connesse. Nel 1588 Sisto v creò la Sacra Congregazione dei riti perché si occupasse del culto dei santi, verificando la fama di santità e la realtà dei miracoli. Durante il pontificato di Urbano viii (1625-34) oltre a riaffermare le condizioni vincolanti per la proclamazione della santità, si fissò un termine di cinquant’anni dopo la morte perché fosse possibile aprire un processo di canonizzazione, in cui la santità del candidato sarebbe stata discussa da un “promotore della fede”, cioé il cosiddetto avvocato del diavolo. Nel frattempo, qualsiasi attività devozionale era rigorosamente interdetta e controllata dall’Inquisizione e persino gli autori di testi agiografici avevano bisogno del nulla osta delle autorità ecclesiali per scrivere di prodigi e miracoli. Nonostante qualche tentativo di aggiornamento delle norme, il severo irrigidimento delle procedure di canonizzazione terminò solo con il pontificato di Giovanni Paolo ii, con l’istituzione della procedura tuttora in vigore. Il pontificato di Giovanni Paolo ii ha appunto prodotto una macroscopica inversione di tendenza e si è parlato di una vera propria “fabbrica dei santi”. D’altra parte la Chiesa istituzionale si è trovata a confrontarsi con le comunità del Terzo mondo, con i movimenti sociali e con la necessità di una presenza efficace sul territorio, richiedendo modelli di santità per così dire più aggiornati e più vicini alla vita quotidiana. Due esempi recentissimi sono quelli di Carlo Acutis, beatificato di recente, un adolescente che si occupava di siti web, le cui spoglie riposano (e sono state esposte) con un paio di scarpe sportive ai piedi; e quello di don Roberto Malgesini, un sacerdote comasco ucciso da uno squilibrato mentre portava tè caldo e la colazione all’alba ai senzatetto di Como. D’altra parte, con ogni evidenza, nonostante le cautele e le riserve secolari della Chiesa ufficiale, si sono diffuse forme di pietà popolare che prescindono dal riconoscimento ufficiale della Chiesa o addirittura lo scavalcano. Con la procedura istituita da Giovanni Paolo ii, per la canonizzazione bastano cinque anni (e d’altra parte tutti ricordano il “santo subito” in occasione dei funerali del pontefice) e lo svolgimento del processo non è più soggetto al promotore della fede, soppresso nel 1983, appunto per snellire la procedura. Durante il suo pontificato sono stati fatti più beati e santi che nei due millenni precedenti, tanto da far nascere appunto la definizione di “fabbrica dei santi”.

Quale evoluzione caratterizzò la venerazione, dai martiri delle origini alle esperienze mistiche del tardo Medioevo?
La santità cristiana discende dunque dal rispondere alla chiamata di Cristo e dall’intima comunione con il divino. Naturalmente ci sono figure che, poiché sono state in contatto fisico con il divino, sono state considerate “sante” per antonomasia, come Maria Vergine, Giovanni Battista, gli apostoli e gli evangelisti, ma si sono sviluppate presto delle forme di venerazione e di culto verso modelli di santità particolari nei vari momenti della storia sociale e religiosa. Il punto di partenza è stato il culto dei martiri. Il martire è stato il primo modello di santità, testimoniando la propria fede e sacrificando la propria vita pubblicamente nei luoghi centrali del contesto sociale dei primi secoli, come il tribunale e l’anfiteatro. Poco più tardi a questo primo modello si è affiancata la figura, parallela e complementare, del monaco che si allontanava dal mondo civile per vivere nel modo più spirituale possibile la propria vita religiosa. Più avanti ancora, con il crollo delle istituzioni statali e l’aprirsi di orizzonti più o meno nuovi per la comunità ecclesiale, relativi ad esempio alla cristianizzazione o alla riconversione di città, paesi e popoli, si affermano le figure dei vescovi e dei confessori, che estendono il proprio nume tutelare su nazioni, città o gruppi di individui.

L’affermarsi delle figure dei vescovi in Occidente mette in evidenza una diversa sfumatura dei modelli di santità rispetto all’Oriente. A partire proprio da Ambrogio e Agostino, è evidente come l’ascesi e la contemplazione monacale predominanti nel mondo orientale, dominato dalla figura dell’imperatore bizantino che incarnava la possibilità di agire cristianamente nella storia e che era l’emblema di uno stato cristiano omogeneo che aveva Cristo come fulcro, richiedessero una diversa declinazione in Occidente, alle prese con i contrasti con il potere politico imperiale e l’insediamento delle popolazioni germaniche. Nell’Europa latina infatti la separazione – e spesso l’opposizione – tra Chiesa e regnanti detentori del potere politico richiedeva alle Chiese locali un’azione più efficace nel contesto storico e sociale. L’imperatore era di là dal mare e in Occidente i regni germanici si stavano consolidando, una presenza più attiva nella storia era necessaria, a differenza di quanto veniva sentito nelle chiese orientali. I modelli di santità occidentali ne tengono conto, sottolineando, anche nel caso di monaci, l’attività sul territorio, attraverso la predicazione, la costruzione di chiese e l’attività pastorale, mentre i santi esclusivamente dediti alla contemplazione anacoretica sono rari. In più bisogna tener conto della diffusione del cristianesimo nelle campagne e tra le popolazioni germaniche che si stavano stanziando in Occidente, molto sensibili ai miracoli, soprattutto in ambito quotidiano e militare. Questo portò alla moltiplicazione dei culti locali e delle reliquie, espandendo così i luoghi dove la potentia del santo era sperimentabile, grazie ai numerosi ritrovamenti di corpi attribuiti ai martiri del cristianesimo delle origini. Contemporaneamente nel resto dell’Europa, in assenza di una prassi consolidata per la canonizzazione, la sostanziale consonanza, se non proprio coincidenza, tra alto clero e aristocrazia nobiliare portò alla formazione di un modello di santità esemplificato sulle personalità di nobile origine che avevano favorito la conversione delle popolazioni rurali grazie alla fondazione di chiese, abbazie e monasteri. Divennero così oggetto di culto non solo monaci e vescovi di origine nobile, ma anche regine e sovrani che avevano favorito con le loro fondazioni la cristianizzazione del territorio. In Europa dunque alla fine dell’XI secolo diventano oggetto di culto re come Stefano di Ungheria e Olaf di Norvegia, e si assiste alla diffusione di una tipologia agiografica caratterizzata dalla nobiltà di natali, accompagnata da potere e ricchezza. Non solo, attraverso il monachesimo riformatore, l’aristocrazia segna in un certo senso anche le istituzioni ecclesiastiche secolari e monacali. In questo contesto si inquadrano nell’XI secolo le posizioni della curia romana e di Gregorio vii. Le riforme di quest’ultimo rappresentano un punto discriminante anche per l’agiografia, poiché evidenziano come i modelli di perfezione monacali, per il monachesimo inteso come separazione del mondo, fossero manchevoli di una reale efficacia nel mondo reale. Con il pontificato di Gregorio vii la figura del papa viene infatti sacralizzata, mentre al contrario veniva sottolineata, sempre a proposito di santi, l’ambiguità del potere laico in una lettera del pontefice a Ermanno di Metz, in cui si ricordava che nelle scritture “autentiche” erano rarissimi i re dotati di religiosità e di segni miracolosi, contrastando così le ambizioni di santità dei regnanti. Non esistevano però ancora procedure di canonizzazione vere e proprie e la santità era promossa dunque localmente, sotto il controllo di vescovi e abati. Ma le riforme gregoriane, imponendo al clero secolare alcune pratiche monastiche e dunque moralizzandolo ed elevando la sua considerazione agli occhi dei fedeli, prepararono anche il terreno perché la santità venisse messa sotto controllo dalla gerarchia ecclesiastica e venissero istituite delle procedure di canonizzazione centralizzate e dirette dal papato. In questa nuova situazione, si produssero dei cambiamenti in ciò che veniva proposto (e ricercato) nei modelli di santità. In quelli precedenti dei secoli v-xi era prevalsa comunque una ricerca della santità che aveva come cardine la contemplazione di Dio, mentre tra i secoli xii e xvi il santo fu caratterizzato nella sua perfezione soprattutto dall’imitazione di Cristo, cioè per i cristiani, Dio fattosi uomo su questa terra. L’apice e insieme il superamento di questa trasformazione si può rintracciare nella figura agiografica di Francesco d’Assisi, in cui è visibile una nuova interpretazione della imitatio Christi che non comprende più solo le doti spirituali ed evangeliche, ma arriva anche a includere il corpo stesso del santo, santificato dalle stimmate. Nello stesso tempo vennero fatte sante figure imitabili nella normalità della vita di tutti i giorni, provenienti dal laicato e impegnate nella vita quotidiana (come Omobono di Cremona) o nell’assistenza sociale (come Elisabetta di Turingia).

Cosa si intende per agiografia e per testi agiografici? Che rapporto esiste tra la letteratura agiografica e la storia?
Il termine agiografia come è comunemente inteso ai giorni nostri ha un duplice significato, poiché indica sia la letteratura relativa ai santi (e dunque Sulpicio Severo è un agiografo, poiché autore di un’opera agiografica, la Vita di Martino di Tours), sia la disciplina scientifica che si occupa di tale letteratura (e dunque Henri Delehaye è un agiografo, poiché autore di testi fondamentali). In realtà la questione è più complessa, perché a ben vedere il termine attualmente viene utilizzato in molti ambiti, che spaziano dalla composizione di un testo riguardante il santo, all’evoluzione della tradizione che lo riguarda, al genere letterario nella storia della letteratura, alla disciplina in generale che si occupa di questi testi con una prospettiva filologica letteraria o storica (ammesso che sia possibile considerare come autonomamente separabili queste prospettive) e infine, ma non ultima, alla disciplina storica che ha come oggetto l’esistenza storica e il culto dei santi. Proprio dal punto di vista dell’oggetto di studio, ci sono tre livelli di indagine, il primo, basilare, che riguarda il santo, la sua vita, le sue opere; in secondo luogo il fenomeno agiografico, ovvero il culto e la venerazione tributati; infine, la letteratura agiografica. L’agiografia può essere intesa come una specifica branca della storia, in cui le fonti vengono vagliate criticamente per una ricostruzione storica. A questo nucleo centrale, all’agiografia come studio storico della vita di un santo e della nascita e della diffusione del suo culto per. va necessariamente aggiunto un corollario. Poiché nei documenti letterari gli uomini santi sono esempi scelti e proposti in un particolare momento storico, da uno scrittore che si rivolge a un pubblico soggiacendo agli influssi culturali predominanti nella sua epoca, interpretando idee, ricordi, relazioni, materiali cultuali antichi o recenti, l’agiografia intesa come studio dei documenti letterari implica un’indagine che tenga anche conto di cosa si intendesse in un determinato periodo con l’espressione “uomo santo”, quali fossero gli esempi di santità predominanti, quali fossero i procedimenti e l’iter per cui si veniva, più o meno “ufficialmente”, riconosciuti santi.

Quali sono le fonti agiografiche?
Come si è detto, è fondamentale tenere ben distinti il culto di un santo e le leggende che riguardano il santo. In ogni caso, come ogni altra ricerca storica anche l’indagine agiografica implica un accurato e rigoroso studio delle fonti mirato all’oggetto di studio, che sia la vita del santo, il culto tributatogli, la letteratura e le altre espressioni che vanno a costituire la tradizione agiografica. Possiamo con una certa inevitabile approssimazione dividere le fonti agiografiche in due grandi gruppi, ovvero distinguendo da una parte le fonti legate alla liturgia – in massima parte calendari e martirologi – che attestano quantomeno la presenza di un culto, e dall’altra le fonti documentarie e narrative, che attestano quantomeno l’esistenza di una leggenda. Con il passare del tempo è stato però quasi naturale che nella tradizione dei martirologi confluissero alcune notizie narrative sulle circostanze del martirio o sulla vicenda terrena del santo, dando così origine a quelli che vengono chiamati “martirologi storici”. Per quanto riguarda le fonti che potremmo definire narrative, cioè i testi che raccontano con taglio narrativo il martirio del santo, vanno premesse alcune, forse ovvie, considerazioni. Ipotizzando uno schema teorico che abbia idealmente al centro l’accadimento storico (ovvero il processo e l’esecuzione capitale del martire), vi si potrebbero immaginare disposti intorno a questo centro dei cerchi concentrici più o meno lontani (ovvero le testimonianze più o meno immediate, interpreti di diverse possibili tipologie narrative). Si devono quindi distinguere in primo luogo le testimonianze dirette, testimoni oculari o persone a loro vicine, mettono per iscritto ciò che hanno visto e udito, permettendoci una conoscenza di prima mano dell’accadimento, sia pure filtrato attraverso canoni e convenzioni legate al genere letterario; in secondo luogo le fonti mediate: le testimonianze dirette – composte seguendo canoni letterari ed estetici del loro tempo e facendo uso della lingua letteraria propria del periodo – possono essere considerate inadeguate a un nuovo contesto storico culturale e quindi possono venire riscritte in un’altra forma, più adatta a un pubblico diverso, distante anche molti secoli dall’accadimento storico principale; infine i testi narrativi irrimediabilmente lontani dall’evento storico, separati da esso da un’impenetrabile cortina di dimenticanza e di oblio, quando delle circostanze del martirio non si ricorda nulla, se non il nome del santo e la data della sua passione. In questo caso, la narrazione serve a colmare una lacuna testimoniale nel panorama delle fonti e fornisce quindi una leggenda a un evento ormai lontano di cui si era persa memoria. Henri Delehaye ricorda l’esempio di Cipriano di Cartagine, di cui abbiamo a disposizione una gran numero di documenti a illustrare quanto la lontananza, temporale, geografica e culturale, possa contribuire a deformare gli avvenimenti fino a farli divenire totalmente altro, riguardo al martirio di Cipriano, avvenuto il 14 settembre 258 abbiamo a disposizione gli atti autentici del processo e del martirio (ed è un caso eccezionale), una biografia attribuita a un diacono, molte passioni scritte anche secoli dopo gli avvenimenti, un inno di Prudenzio e infine una leggenda favolosa in cui Cipriano, sovrapposto all’omonimo martire di Antiochia, è un mago, evocatore di demoni, che si converte al cristianesimo dopo il fallimento dei diavoli da lui evocati per sedurre la vergine cristiana Giustina. Si è così assistito a una progressiva astrazione delle figure agiografiche che si sono sempre più avvicinate a dei modelli ideali, che prescindevano in parte dai particolari contingenti della loro vicenda terrena. Una volta ancora bisogna distinguere tra i culti, le fonti più affidabili che ne riferiscono (calendari e martirologi), e le leggende (di valore variabile, diversamente attestate in leggendari di vario genere).

A quale importante opera si dedicarono i Bollandisti?
I Bollandisti, quasi esclusivamente gesuiti, sono specialisti che si occupano di riconoscere la storicità delle leggende agiografiche. A loro si deve la monumentale collana degli Acta sanctorum. Si tratta di una serie di ponderosi volumi che testimoniano un’impresa plurisecolare iniziata secoli fa dal gesuita Jean Bolland intorno al 1630. Si trattava di un lavoro pionieristico, che continuava il lavoro di un confratello (Heribert van Roswey, in latino Rosweidus) e che costituiva la risposta principale della Chiesa cattolica alle critiche avanzate da molte parti, e non esclusivamente protestanti, alla storicità delle leggende agiografiche e alla verifica dell’origine delle tradizioni cultuali. Bolland e i suoi successori cercavano criticamente le attestazioni per storicizzare culti e leggende sulla base dei documenti. Si trattava di un metodo scientificamente critico, ma si trattava anche di difendere le radici storiche del culto dei santi dagli attacchi protestanti, eliminando ciò che era evidentemente favolistico e privo di plausibilità storica. Si tratta di un’impresa titanica, non ancora portata a termine, una serie di volumi dedicati ai santi del giorno, di ogni giorno, a partire da gennaio, che raccoglie vitae, bolle di canonizzazione e la documentazione storica. Allo stato attuale si è arrivati al primo volume di dicembre, in realtà un volume introduttivo, dove Hippolyte Delehaye ha pubblicato il commentario al Martirologio romano, ma bisogna tener conto che i metodi scientifici, storici e filologici, sono ovviamente molto cambiati nei quattro secoli intercorsi e che portare a termine un volume degli Acta sanctorum oggi, trattando scientificamente tutta la documentazione di tutti i santi del giorno per ogni giorno, è per forza di cose un’impresa assai impegnativa, anche perché l’approccio dei bollandisti ai testi è saldamente storico-filologico: vengono ricercate tutte le versioni e tutti i testi riguardanti un santo, classificando fonti e testimoni manoscritti, senza scartarne alcuno, poiché anche le leggende più favolose contribuiscono a ricostruire la nascita e l’evoluzione di un culto e di una figura agiografica. Per questo ai ponderosi volumi degli Acta i bollandisti hanno affiancato riviste per accogliervi studi monografici (gli “Analecta Bollandiana”), hanno stilato repertori di testi per riordinare le leggende e i documenti testuali agiografici secondo il santo trattato (la Bibliotheca Hagiographica Latina, ma anche Graeca e Orientalis) e hanno creato una collana di volumi dedicati a cataloghi e di studi monografici (i Subsidia hagiographica).

Il volume presenta dodici casi esemplari e questioni importanti per gli studi agiografici: quali tra questi ritiene più significativi e rappresentativi della complessa evoluzione del culto dei santi, della letteratura agiografica e del loro rapporto con la storia?
Gli atti di Perpetua e Felicita hanno un valore testimoniale importante, per quanto riguarda l’agiografia. Vi compaiono magistrati rispettosi delle procedure processuali del diritto romano – che le pene capitali siano spettacolarmente cruente è un altro discorso – rispetto alle passioni leggendarie divenute ormai parte del nostro immaginario, dove il magistrato inquirente si lascia per così dire prendere la mano, divenendo un sadico persecutore che incrudelisce sul corpo degli inquisiti, sulla falsariga del martirio di Policarpo, dove in effetti questi abusi sono registrati. Il magistrato in genere aveva come unico scopo di accertare la fede dell’accusato per condannarlo, una volta registrata la confessione, il suo ruolo era terminato. Certo il proconsole poteva chiedere al condannato di abiurare, ma lo faceva invitandolo a parole, in considerazione del suo ceto o della sua età, invitando ad esempio il cristiano a considerare il dolore e la vergogna che avrebbe causato una condanna per la sua famiglia. È un contesto processuale in cui Perpetua si lamenta di non poter avere un pasto decente, in cui l’unico inconveniente occorso a Policarpo prima del rogo è una scorticatura per essere stato spinto giù dal carro. In ogni caso, questi atti, purtroppo pervenutici in scarso numero, lasciano a volte intuire l’impiego di trascrizioni degli interrogatori, ad opera di stenografi ufficiali o privati, così come vi si possono riconoscere delle parti adattate o aggiunte per uso liturgico o devozionale. La Passione di Perpetua e Felicita è un opuscolo letterario dove confluiscono il racconto del martirio, adattato per una lettura pubblica, e la descrizione delle visioni dei protagonisti. Avrà una notevole influenza non solo sulle successive leggende martiriali, ma giocherà un ruolo anche nella letteratura visionaria della tarda antichità e del Medioevo, poiché contiene una sorta di visione purgatoriale dove sembra possibile per Perpetua alleviare con le sue preghiere le sofferenze oltremondane del fratellino defunto.

Non si può inoltre non citare la figura agiografica di Francesco, che segna un modello di santità radicalmente nuovo, con un’immedesimazione totale con Dio che finisce per segnare anche il corpo stesso del santo, che si identifica con il Crocefisso attraverso le stimmate. Francesco è una figura fondamentale e per molti aspetti nodale nella storia della santità e lo è anche per la letteratura agiografica che ha cercato con molta difficoltà di incanalare nei suoi schemi letterari la rivoluzionaria vicenda terrena del santo di Assisi, in un contesto, quello dell’Ordine dei frati minori, dilaniato tra diverse anime e tra diverse interpretazioni dell’eredità e della figura del fondatore.

Giovanni Paolo Maggioni insegna Letteratura latina medievale e Filologia mediolatina all’Università degli Studi del Molise

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