
La caduta di Belgrado, nel 1521, e la vittoria sugli Ungheresi a Mohács, nel 1526, costituiscono le ultime tappe del consolidamento ottomano nell’Europa centro-orientale. Da quel momento in poi, il grosso dei Balcani è turco e l’Ungheria, che nel Medioevo era stato un regno estesissimo, dall’Adriatico, fino ai Carpazi, è ridotta a una striscia di territorio, in alcuni punti larga poche decine di chilometri. Unico elemento positivo in una parabola disastrosa, la Corona ungherese, che nel XIV e nel XV secolo è stata ambita da dinastie europee di prima grandezza, come gli Angioini e i Lussemburgo, perviene stabilmente nello stesso torno di anni agli Asburgo, il cui titolo imperial-regio, giova forse ricordare, indica i titoli di imperatore del Sacro Romano Impero e – contemporaneamente, senza alcuna subordinazione – di re d’Ungheria.
I papi sono molto preoccupati di questa prossimità e cercano negli Asburgo degli alleati per tentare un rovesciamento della situazione. Già nel 1542 un contingente pontificio, del quale è commissario apostolico Giovan Angelo de’ Medici (il futuro papa Pio IV, il papa del Concilio di Trento) partecipa alle operazioni contro Pest; l’anno successivo ne viene inviato un altro, che però non riesce ad entrare in azione, trattenuto a lungo presso Vienna. Nel 1566 Pio V progetta una spedizione in Ungheria e, nel frattempo, manda subito sussidi finanziari e lascia che partano per il teatro di guerra molti nobili militari dello Stato della Chiesa. Le ambizioni pontificie si devono scontrare contro la Realpolitik degli Asburgo: i sovrani di casa d’Austria sembrano a lungo più interessati a mantenere il confine in pace, costruendo semmai un sistema difensivo contro ulteriori minacce (Vienna è ormai a pochissimi giorni di cammino dai territori sotto il potere degli Ottomani). Trattati di pace sono firmati a ripetizione. Con tutto ciò, i piccoli scontri sono sempre frequenti.
Solo nei primi anni Novanta del Cinquecento la guerra in Ungheria riprende e papa Clemente VIII non ha esitazioni. Vuole partecipare con un proprio esercito.
Quali vicende politico-militari accompagnarono la presa di Strigonia, l’assedio di Giavarino e la campagna sotto Canisa?
Colpisce nell’esame di quanto è avvenuto in occasione delle tre campagne del 1595, 1597 e 1601 verificare quanto poco gli stati europei sono stati capaci di muoversi insieme. L’anziano Filippo II, in occasione delle prime spedizioni, può concedere al massimo qualche sussidio finanziario. Non muove né flotta, né tercios. Enrico IV di Borbone: tutti sanno che sarebbe il migliore comandante disponibile. Nessuno osa pensare che possa impegnarsi direttamente. La Francia è amica del Sultano. È noto. I sovrani dei piccoli stati italiani non rispondono meglio. Venezia, ad esempio, resta immobile, critica anzi l’attivismo di papa Aldobrandini e lo denigra; il duca di Ferrara, come condizione per partecipare a una spedizione, vorrebbe dal papa la possibilità di scegliersi un successore; il duca di Mantova e il granduca di Toscana rispondono alla chiamata, ma giocano evidentemente partite in proprio.
Gli stessi vertici politici di parte asburgica restano sempre molto titubanti. Rodolfo II è lontano, a Praga. L’arciduca Mattia e suo fratello Massimiliano, che dovrebbero fronteggiare la guerra, sono spesso in contrasto; l’astro emergente è il loro cugino Ferdinando, il futuro imperatore della Guerra dei Trent’anni, ancora però giovane e dubbioso. Ne derivano una lacunosa considerazione degli obiettivi e una condotta del conflitto molto incerta. Nel 1595, Strigonia (Esztergom) è presa con il contributo essenziale pontificio, ma non diventa il punto di partenza di nessuna iniziativa di spessore. Nel 1597 si rinuncia ad investire direttamente Buda, come avrebbe voluto Giovan Francesco Aldobrandini. Il risultato della presa di Pápa viene vanificato dalle sterili operazioni contro Giavarino (Raab). Almeno però, durante le operazioni contro Vaccia (Vác), nel novembre dello stesso 1597, si hanno i primi scontri tra pontifici e turchi da soli a soli: stendardi della mezzaluna contro stendardi con le chiavi di San Pietro. Nel 1601 il quadro è ancora più fosco: i piani che la Segreteria pontificia affida ai suoi nunzi per un’alleanza generale contro i turchi attestati in Croazia non trovano ascolto. Il tentato assedio a Canisa (Nagykanizsa) si risolve in un disastro, anzi in una durissima ritirata nella neve, ordinata in un modo e per ragioni che ai comandanti pontifici appaiono incomprensibili. Una Lepanto ungherese, su terra, resta un sogno del papa.
Quale bilancio storiografico è possibile trarre delle campagne militari pontificie a sostegno dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo?
Dal punto di vista della storiografia, le spedizioni pontificie in Ungheria del 1595-1601 fanno acquisire importanti nuovi risultati: i nipoti dei papi potevano non essere solo dei fortunati parenti di una persona arrivata improvvisamente a detenere un potere amplissimo. Giovan Francesco Aldobrandini, nel nostro caso, si dimostra un vero comandante (ed è destinato a perdere la vita durante la terza campagna, quella del 1601); l’esercito pontificio non era un esercito da parata: diverse decine di migliaia di uomini, decine di nobili militari di Roma e della provincia pontificia risposero alla chiamata alle armi, sopportarono enormi sacrifici ed ebbero modo di distinguersi in guerra; soprattutto, un papa come Clemente VIII non è mosso soltanto da un semplice, anacronistico, spirito crociato, ma muove le sue armate per dare corpo a una politica molto concreta, che unisce allo sforzo militare una serie di iniziative diplomatiche senza precedenti, fino in Moscovia, fino ai contatti con lo Scià di Persia. L’obiettivo è quello di unire in azione di risposta tutti i nemici del Sultano, puntando direttamente a Costantinopoli, che sostituisce Gerusalemme come possibile conquista. Se il papa non raggiunge risultati, lo si deve alla complessità delle relazioni interstatuali europee, con antagonismi bilaterali ormai incrociati a tutti i livelli, non certo a una mancanza di chiarezza del suo disegno geopolitico.
Quale sorte subisce l’idea di Crociata dopo le spedizioni in Ungheria?
A distanza di più di ottant’anni dalle campagne in Ungheria di Clemente VIII, dunque, ancora i soldati del Papa affrontavano direttamente, viso a viso, i soldati turchi. Nel 1687 la squadra pontificia, insieme con i Veneziani, assedia Castelnuovo di Cattaro, in Dalmazia (l’attuale Herceg Novi). In questa occasione, durante l’assalto decisivo del 30 settembre, nonostante «il peso degli anni» un capitano marchigiano Ludovico Gabrielli strappa a un alfiere turco un vessillo che fino al 1943 si poteva vedere nella cattedrale di Fano. Questo perché, nonostante gli insuccessi, rivista e corretta, l’idea di crociata guida pur sempre parte importante dell’azione del papato nel campo delle relazioni internazionali: un’azione incessante, nutrita di iniziative diplomatiche e sollecitata da una sciame persistente di progetti, proposte, disegni anche fantasiosi su come allontanare i Turchi dall’Ungheria. Risultato che viene colto solo con la pace di Carlowitz nel gennaio 1699, dopo molti anni di guerra e il brivido dell’assedio ottomano a Vienna.
A quali fonti ha attinto per il Suo lavoro?
Di fondamentale importanze sono risultate le lettere originali dei comandanti pontifici, conservate nell’Archivio Segreto Vaticano. Hanno permesso di acquisire conoscenze molto dettagliate, sulla conduzione della campagna e – talvolta – sulla vita quotidiana dei soldati. Vi si trova per esempio una lista di morti e feriti che non comprende soltanto ufficiali dai nomi altisonanti (perché di estrazione patrizia), ma anche di semplici soldati. Forse allora per la prima volta, vale a dire secoli prima dell’introduzione delle piastrine di riconoscimento, il soldato semplice guadagnava una sua individualità. Accanto a queste corrispondenze, ho fatto uso di molte altre fonti tratte dagli archivi di Stato, dall’Archivio della Compagnia di Gesù, da archivi di famiglie nobili (come l’Archivio Orsini, conservato nell’Archivio Storico Capitolino). Moltissimi gli studi consultati, anche in lingua ungherese, ormai meno inaccessibile, grazie ai sistemi di traduzione digitale. Colgo l’occasione per ringraziare i colleghi magiari conosciuti in occasione della stesura di questo libro (per primo Zoltán Péter Bagi, facilmente contattato per e-mail – cose una volta impensabili – e ormai diventato un amico).