
di Jean-Michel David
traduzione di O.D. Cordovana e A. De Vincentiis
Laterza
«Cosa avevano in comune alla fine del III secolo a.C. Etruschi, Sanniti, Punici di Sardegna, Galli della piana del Po e Greci dell’Italia meridionale o di Sicilia? Tutto ancora li differenziava: lingua, cultura, religione, organizzazione sociale e politica. Condividevano solo il fatto di essere sottomessi ad una medesima dominazione, quella di Roma che, proprio durante questo secolo, aveva finito per estendere il proprio potere su tutta la penisola e le isole circostanti. Tuttavia, due secoli dopo le differenze si erano sensibilmente attenuate e, per vari aspetti, addirittura annullate: gli uni e gli altri si erano romanizzati.
Il concetto di romanizzazione ha un pregio: è ambiguo. In effetti, cosa intendiamo con questo termine? Il processo di acculturazione che trasformò tutti questi popoli in Romani, con tanto di toga e di uso della lingua latina? O quello, più politico, che trasformò gli abitanti dell’Italia in cittadini di Roma, che partecipavano alle decisioni, alla votazione delle leggi, alla scelta dei magistrati, riuscendo perfino a farsi eleggere quando avevano raggiunto il livello di ricchezza e l’onore necessario? I due aspetti – culturale e politico – devono essere distinti perché corrispondono a fenomeni diversi nell’evoluzione delle società. Ma non possono essere completamente separati, giacché sono il prodotto della storia di queste società. Dunque, in che modo associarli, mantenendo la distinzione che permette di identificarli e di analizzarli e, allo stesso tempo, tenendo conto della profonda relazione che li lega l’uno all’altro? L’uso di un unico termine, per quanto comodo, non sarà sufficiente. Sarà necessario altro: un’analisi più approfondita delle condizioni sociologiche concrete che, dalla seconda guerra punica alla fine del regno di Augusto, condussero le popolazioni d’Italia a perdere le loro molteplici identità fino a diventare una comunità di cittadini romani essenzialmente unificata. […]
Inoltre, romanizzandosi, l’Italia si unificava. Culturalmente, politicamente, ma anche nella concezione dello spazio geografico indicato da quel nome. All’inizio del II secolo per gli autori antichi la vera frontiera della penisola era formata dalle Alpi, che ne costituivano il limite settentrionale. Su questo punto, le allusioni di Polibio e di Catone non lasciano alcun dubbio. Fino alla metà del I secolo, tuttavia, la pianura del Po non venne trattata come le altre regioni. In effetti, quando dopo la guerra sociale la cittadinanza romana venne accordata ai popoli d’Italia che la rivendicavano, i Cisalpini che non appartenevano alle colonie fondate da Roma ne vennero esclusi: furono incorporati nella comunità romana solo da Cesare nel 49. Le isole, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, inoltre, non furono mai considerate parte dell’Italia. E anche sotto l’Impero vennero amministrate da magistrati inviati per l’occasione.
Allora, fino a dove è necessario estendere i limiti geografici di questa ricerca? Evidentemente fino al punto da cui si potranno capire al meglio i meccanismi di unificazione e di integrazione. Ma questi non riguardano solamente la storia politica e culturale. Riguardano anche i movimenti profondi che hanno attraversato la società. La penisola e le isole circostanti vennero coinvolte in un processo di trasformazione economica e demografica che ebbe profonde conseguenze sull’equilibrio complessivo. Basta pensare all’importanza della colonizzazione della Gallia Cisalpina, alle guerre servili in Sicilia o al ruolo giocato da quest’isola e dalla Sardegna nell’approvvigionamento di grano di Roma, per capire che nell’analisi è necessario tenere conto anche di queste aree.
In realtà, il vero problema che pone la definizione dell’Italia non è di carattere geografico. È invece legato al fatto che questa si è definita proprio nel processo di unificazione. Un tempo, l’Italia rappresentava lo spazio sul quale Roma aveva esteso la propria dominazione: a metà del III secolo, a conquista completata, una carta dell’Italia venne collocata su una parete del tempio di Tellus. […] I problemi della romanizzazione dell’Italia, e della sua unificazione in uno stesso insieme politico e culturale, ponevano anche quello dell’estensione ad un vasto territorio di valori concepiti nell’ambito di una città. Tali valori, nell’unità dei modi di rappresentazione e delle autocoscienze, già preannunciavano quelli omogenei dell’Impero romano.
Bisogna dunque interrogarsi sugli attori di questo processo, in particolare su coloro che si romanizzarono e si integrarono nel nuovo insieme dei territori dominati da Roma. Chi potevano essere, se non coloro che intervennero anche in tutti gli altri aspetti della vita politica e sociale dell’Italia, cioè gli aristocratici che, localmente, primeggiavano tra i loro concittadini e governavano l’insieme della società?
In effetti, ogni città od ogni gruppo etnico conservava la propria élite che, a sua volta, ne controllava il destino. […] Erano persone ricche, molto spesso proprietari fondiari, e potenti, che controllavano la vita della loro comunità. […]
Furono proprio questi individui che, di fronte agli avvenimenti appena ricordati, dovettero trovare, attraverso difficili decisioni, il modo di conservare localmente il potere e l’autorità che avevano ereditato […]. Poiché gli strumenti di controllo della vita sociale del mondo mediterraneo andavano concentrandosi nelle mani dei magistrati e dei senatori di Roma, gli aristocratici locali dovevano avere sempre più strumenti per far valere i propri interessi presso coloro che detenevano il potere decisionale; dunque, in un modo o nell’altro, dovevano integrarsi nella sfera del potere politico romano.
Certo, l’organizzazione generale delle strutture civiche offriva vari mezzi di intervento. I rappresentanti di una città dominata da Roma potevano in ogni momento partire in ambasceria, fare valere nell’Urbe i propri diritti o presentare le proprie rivendicazioni. Ma la crescente disuguaglianza tra le controparti rendeva sempre più incerte tali iniziative. […]
Bisognava trovare un altro mezzo, e allora si capisce bene perché sia ben presto diventata essenziale la questione della cittadinanza romana, della partecipazione diretta agli affari di Roma, fino all’accesso alle sue magistrature. […]
Così inteso, il fenomeno di romanizzazione acquista ben altra importanza. La trasformazione dell’Italia in un insieme omogeneo di cittadini appartenenti alla stessa struttura politica e condividenti gli stessi tratti culturali indicava anche che le differenti società che un tempo componevano la penisola avevano conosciuto una crisi profonda, senza ritorno. […] I tradizionali sistemi di riferimento che determinavano comportamenti e immagini di sé scomparivano: la crisi della società era anche una crisi di identità.
Allora, si pone il problema dei processi con cui è possibile costruire una nuova coscienza sociale, questa volta fondata sull’appartenenza ad una comunità unificata, fatta di cittadini romani ed estesa all’insieme dell’Italia. […] Naturalmente i primi a rimanere affascinati e ad adottare i nuovi valori furono gli aristocratici romani, che si ellenizzarono rapidamente. Ma quelli delle altre regioni d’Italia non furono da meno. Talvolta, anzi, si trovarono all’avanguardia. Così, gli uni e gli altri iniziarono a condividere un medesimo linguaggio fatto di valori culturali e norme sociali comuni.
Tuttavia questo mutamento non annullava il rapporto di dominio che si era costituito nel corso dei secoli precedenti. Così in seno all’antica struttura si verificarono scambi che portarono alla trasformazione delle aristocrazie italiche di un tempo, differenti le une dalle altre, in una nuova aristocrazia composta da cittadini romani, i più ambiziosi dei quali aspiravano a partecipare alla direzione politica degli affari di Roma. Il ruolo che l’aristocrazia romana giocava nella loro integrazione aumentava a vista d’occhio. In effetti, per quanto poteva, controllava i processi di incorporazione nella cittadinanza romana e di promozione nella gerarchia civile. […] Il quadro dei riferimenti e degli interessi politici, allora, non si limitò più allo spazio ridotto del territorio di Roma, ma si estese a tutta l’Italia, divenuta ormai la nuova comunità dei cittadini romani; in attesa di coinvolgere tutto l’Impero, sottoposto agli effetti delle stesse necessità.»